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2018-07-10
A furia di pozzi ci prendiamo anche l’Egitto
Ansa
L'Eni annuncia una seconda scoperta nel deserto occidentale egiziano, circa 130 chilometri a Nord dell'oasi di Siwa. Dopo aver confermato i grandi pozzi di gas Zohr e Noor (giacimenti che garantiscono 50 volte le necessità italiane), la novità di ieri rappresenta la seconda perforazione nel grande bacino del Faghur, arrivata a 4.523 metri di profondità, con la scoperta di olio equivalente.
«Questa seconda scoperta», spiega una nota, «conferma l'elevato potenziale esplorativo e produttivo delle sequenze profonde del bacino del Faghur». Eni ha in programma, nel breve termine, la perforazione di altri prospetti esplorativi limitrofi alle due scoperte già effettuate che potranno aprire un nuovo polo produttivo per cane a sei zampe nel Paese. La produzione potrà essere collegata alle infrastrutture esistenti e poi inviata al terminale di El Hamra, dopo l'approvazione del piano di sviluppo da parte del ministero del petrolio.
Eni è presente in Egitto dal 1954 ed è il principale produttore del Paese con una produzione equity pari a circa 300.000 barili di olio equivalente al giorno, destinata a salire nell'anno con la progressiva crescita della produzione del campo di Zohr e dell'ancora più recente scoperta di Noor.
Il bacino orientale del Mediterraneo si sta confermando il luogo che potrebbe portare alla realizzazione delle speranze di Enrico Mattei, il quale si augurava di poter vedere un giorno il «Mare nostrum» quale sorgente energetica per tutti i suoi Paesi limitrofi. I bacini individuati a Cipro, di fronte a Israele e all'Egitto stanno lentamente ridisegnando la geopolitica energetica della regione e il nostro campione nazionale ne è uno degli attori principali. L'Egitto è uno Stato in cui le leve del potere e dell'economia sono nelle mani dell'esercito e i suoi presidenti sono fin dai tempi di Gamal Abd El Nasser, nonostante la cortina fumogena degli anni di propaganda socialista del periodo dei non allineati, sempre amichevolmente consigliati da Washington. Nasser, con i soldi avanzati dal colpo di Stato fornitigli dal rappresentante della Cia, Kim Roosevelt, fece perfino costruire la torre sull'isolotto del Cairo. Nonostante il periodo di caos del disorientamento geopolitico obamiano, che ha fatto saltare nella regione i saldi punti di riferimento del passato in Egitto, gli Usa hanno ben presto favorito la fine della cosiddetta primavera, rimettendo al vertice del potere un militare vicino ai loro interessi.
Nel 2011, durante le primissime ore dalla destituzione del presidente Hosni Mubarak, l'allora sconosciuto generale Abd Al Fattah Al Sisi, capo dei servizi segreti egiziani, volava di nascosto all'accademia militare americana di West Point per coordinare le mosse necessarie per riportare l'ordine desiderato da Washington al Cairo. Saranno necessari due anni, ma oggi Al Sisi rappresenta la continuità del passato con cui anche Eni è riuscita a instaurare un rapporto proficuo e da cui si attende nelle prossime settimane il prolungamento di diverse licenze chiave. Non è dunque un caso il boom di notizie che arriva dall'Egitto. I tempi della crisi legata all'omicidio di Giulio Regeni, il ricercatore inglese ucciso per le sue attività al Cairo, sembrano essere molto lontani. La diplomazia dell'Eni si è mossa bene, ma stando a quanto risulta alla Verità anche il governo si sarebbe mosso. Non solo a livello ufficiale ma anche ufficioso, da parte della Lega. L'obiettivo congiunto sarebbe quello di diventare il Paese di riferimento nell'area orientale del Mediterraneo. Dai giacimenti congiunti Israele-Cipro fino alla Libia. Non a caso quattro giorni fa il cane a sei zampe ha annunciato l'avvio del progetto offshore di Bahr Essalam con l'obiettivo di incrementare la sola produzione libica con ulteriori 400 milioni di piedi cubi di gas al giorno.
Sabato scorso il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, è volato all'improvviso a Tripoli per incontrare Fajez Serraj, premier di quell'area della Libia. L'obiettivo è rivedere gli accordi in tema di immigrazione. Ma l'unica leva per ripristinare la stabilità è tornare a estrarre petrolio e gas. Per questo manca ancora un tassello: il riavvio dei rapporti con il governo di Khalifa Haftar, responsabile della Cirenaica. È necessario non solo sul tema immigrazione ma soprattutto per chiudere il progetto Eni. È necessario per avviare un ruolo di Paese di riferimento in tutta la mezzaluna orientale del Mediterraneo. Inutile dire che più terreno o mare conquista l'Italia meno peso ha la Francia di Emmanuel Macron.
Claudio Antonelli
Ci serve il bis dell’accordo Cav-Gheddafi. Ma ora a firmarlo devono essere in tre
Durante la visita di sabato scorso a Tripoli, il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi ha esposto la sua strategia per il futuro dei rapporti tra Italia e Libia. Un futuro che, in realtà, guarda molto al passato: in sostanza, per Moavero si tratta di rimettere le lancette al 2008, quando l'allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e il raìs Muammar Gheddafi siglarono il trattato di Bengasi (che in Libia interruppe l'usanza di celebrare, ogni 7 ottobre, il «giorno della vendetta» anti italiana).
Il responsabile della Farnesina si è intrattenuto a colloquio con il premier libico Fayez al-Serraj, il vice primo ministro Ahmed Maitig, il ministro degli Esteri Mohammed Taher Siyala e il presidente dell'Alto Consiglio di Stato Khaled al-Meshri. La delegazione di Tripoli ha confermato la propria disponibilità a ripartire dall'accordo Berlusconi-Gheddafi, che il nostro Paese (non senza qualche imbarazzo, poiché il testo dell'intesa prescriveva che un'eventuale rottura del patto dovesse essere concordata da entrambe le parti) sospese unilateralmente nel 2011, dopo lo scoppio della rivoluzione.
Quella di una riattivazione del trattato di Bengasi è una buona notizia per le aziende italiane. I negoziati di dieci anni fa tra l'ex Cavaliere e il dittatore libico includevano, oltre alla famosa collaborazione per il contenimento dei flussi migratori, una serie di impegni economici di grande valore anche geopolitico. Ad esempio, il progetto per la realizzazione di un'autostrada lunga 1.700 chilometri, che doveva correre dal confine con la Tunisia a quello con l'Egitto. La società italiana Impregilo cinque anni fa dovette sospendere i lavori del primo lotto a causa dell'instabilità dell'area. Ma sul piatto ci sono pure la joint venture nei settori aerospaziale, elettronico, tecnologico ed energetico tra Finmeccanica e due fondi sovrani libici, la ristrutturazione dell'aeroporto di Tripoli (gestita dal consorzio Aeneas) e, come ha ricordato Il Sole 24 Ore, lo sblocco dei 600 milioni di dollari di crediti che le imprese italiane vantano nei confronti dei committenti pubblici libici. Senza dimenticare lo sviluppo dei nostri colossi del petrolio e del gas, che nonostante la guerra (e nonostante la regia francese del conflitto puntasse a scalzarli) hanno mantenuto i propri impianti. Anzi, pochi giorni fa Eni ha annunciato l'avvio della produzione nel più grande giacimento a gas nell'offshore libico, suscitando l'entusiasmo di Serraj.
Ma non è tutto oro quello che luccica. Il numero uno di Tripoli, nostro interlocutore privilegiato, non è l'unico attore sulla scena. Emmanuel Macron ha investito tutto il suo capitale politico sul concorrente di Serraj, il generale Khalifa Haftar, mentre le tribù che costituiscono il lacerato tessuto sociale della Libia, uno Stato effettivamente privo di un'identità nazionale unitaria, dopo la scomparsa di Gheddafi hanno accresciuto il loro peso specifico, configurandosi come una delle più insidiose minacce per la rinascita del Paese. Non è un caso se un gruppo della Cirneaica, vicino ad Haftar, abbia appena invocato il jihad «contro lo Stato coloniale e fascista italiano». È lecito ipotizzare che sia stato lo stesso generale di Tobruk ad aizzare gli estremisti. Magari su mandato di chi gravita attorno all'Eliseo ed è preoccupato da un'Italia intenzionata a tornere in gioco.
Il ministro Moavero ha espresso la volontà di «contribuire in maniera decisiva alla stabilizzazione della Libia» e ha prefigurato «un partenariato economico bilaterale incentrato su settori strategici e fondato su un'efficace collaborazione tra settore pubblico e privato». Un passo in avanti rispetto alla subordinazione dei governi del Pd agli interessi esclusivi di Parigi. Ma nel 2008 Berlusconi poteva fare affidamento su un leader che forse era un tiranno, però garantiva l'ordine e il rispetto degli accordi. Oggi, invece, l'Italia deve orientarsi in un labirinto politico disseminato di trappole.
Alessandro Rico
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L'Eni, a pochi giorni dalle perforazioni libiche, annuncia un nuovo giacimento di idrocarburi nel Paese di Al Sisi. Si allarga la nostra influenza geopolitica sul Mediterraneo orientale, con la benedizione Usa. Un altro schiaffo alla presenza francese.Ci serve il bis dell'accordo Cav-Gheddafi. Fayez Al Serraj non ha il potere del Raìs: in Libia non si decide nulla senza Khalifa Haftar e le tribù.Lo speciale contiene due articoliL'Eni annuncia una seconda scoperta nel deserto occidentale egiziano, circa 130 chilometri a Nord dell'oasi di Siwa. Dopo aver confermato i grandi pozzi di gas Zohr e Noor (giacimenti che garantiscono 50 volte le necessità italiane), la novità di ieri rappresenta la seconda perforazione nel grande bacino del Faghur, arrivata a 4.523 metri di profondità, con la scoperta di olio equivalente. «Questa seconda scoperta», spiega una nota, «conferma l'elevato potenziale esplorativo e produttivo delle sequenze profonde del bacino del Faghur». Eni ha in programma, nel breve termine, la perforazione di altri prospetti esplorativi limitrofi alle due scoperte già effettuate che potranno aprire un nuovo polo produttivo per cane a sei zampe nel Paese. La produzione potrà essere collegata alle infrastrutture esistenti e poi inviata al terminale di El Hamra, dopo l'approvazione del piano di sviluppo da parte del ministero del petrolio.Eni è presente in Egitto dal 1954 ed è il principale produttore del Paese con una produzione equity pari a circa 300.000 barili di olio equivalente al giorno, destinata a salire nell'anno con la progressiva crescita della produzione del campo di Zohr e dell'ancora più recente scoperta di Noor.Il bacino orientale del Mediterraneo si sta confermando il luogo che potrebbe portare alla realizzazione delle speranze di Enrico Mattei, il quale si augurava di poter vedere un giorno il «Mare nostrum» quale sorgente energetica per tutti i suoi Paesi limitrofi. I bacini individuati a Cipro, di fronte a Israele e all'Egitto stanno lentamente ridisegnando la geopolitica energetica della regione e il nostro campione nazionale ne è uno degli attori principali. L'Egitto è uno Stato in cui le leve del potere e dell'economia sono nelle mani dell'esercito e i suoi presidenti sono fin dai tempi di Gamal Abd El Nasser, nonostante la cortina fumogena degli anni di propaganda socialista del periodo dei non allineati, sempre amichevolmente consigliati da Washington. Nasser, con i soldi avanzati dal colpo di Stato fornitigli dal rappresentante della Cia, Kim Roosevelt, fece perfino costruire la torre sull'isolotto del Cairo. Nonostante il periodo di caos del disorientamento geopolitico obamiano, che ha fatto saltare nella regione i saldi punti di riferimento del passato in Egitto, gli Usa hanno ben presto favorito la fine della cosiddetta primavera, rimettendo al vertice del potere un militare vicino ai loro interessi. Nel 2011, durante le primissime ore dalla destituzione del presidente Hosni Mubarak, l'allora sconosciuto generale Abd Al Fattah Al Sisi, capo dei servizi segreti egiziani, volava di nascosto all'accademia militare americana di West Point per coordinare le mosse necessarie per riportare l'ordine desiderato da Washington al Cairo. Saranno necessari due anni, ma oggi Al Sisi rappresenta la continuità del passato con cui anche Eni è riuscita a instaurare un rapporto proficuo e da cui si attende nelle prossime settimane il prolungamento di diverse licenze chiave. Non è dunque un caso il boom di notizie che arriva dall'Egitto. I tempi della crisi legata all'omicidio di Giulio Regeni, il ricercatore inglese ucciso per le sue attività al Cairo, sembrano essere molto lontani. La diplomazia dell'Eni si è mossa bene, ma stando a quanto risulta alla Verità anche il governo si sarebbe mosso. Non solo a livello ufficiale ma anche ufficioso, da parte della Lega. L'obiettivo congiunto sarebbe quello di diventare il Paese di riferimento nell'area orientale del Mediterraneo. Dai giacimenti congiunti Israele-Cipro fino alla Libia. Non a caso quattro giorni fa il cane a sei zampe ha annunciato l'avvio del progetto offshore di Bahr Essalam con l'obiettivo di incrementare la sola produzione libica con ulteriori 400 milioni di piedi cubi di gas al giorno. Sabato scorso il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, è volato all'improvviso a Tripoli per incontrare Fajez Serraj, premier di quell'area della Libia. L'obiettivo è rivedere gli accordi in tema di immigrazione. Ma l'unica leva per ripristinare la stabilità è tornare a estrarre petrolio e gas. Per questo manca ancora un tassello: il riavvio dei rapporti con il governo di Khalifa Haftar, responsabile della Cirenaica. È necessario non solo sul tema immigrazione ma soprattutto per chiudere il progetto Eni. È necessario per avviare un ruolo di Paese di riferimento in tutta la mezzaluna orientale del Mediterraneo. Inutile dire che più terreno o mare conquista l'Italia meno peso ha la Francia di Emmanuel Macron.Claudio Antonelli<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/a-furia-di-pozzi-ci-prendiamo-anche-legitto-2585215326.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="ci-serve-il-bis-dellaccordo-cav-gheddafi-ma-ora-a-firmarlo-devono-essere-in-tre" data-post-id="2585215326" data-published-at="1766638509" data-use-pagination="False"> Ci serve il bis dell’accordo Cav-Gheddafi. Ma ora a firmarlo devono essere in tre Durante la visita di sabato scorso a Tripoli, il ministro degli Esteri Enzo Moavero Milanesi ha esposto la sua strategia per il futuro dei rapporti tra Italia e Libia. Un futuro che, in realtà, guarda molto al passato: in sostanza, per Moavero si tratta di rimettere le lancette al 2008, quando l'allora Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e il raìs Muammar Gheddafi siglarono il trattato di Bengasi (che in Libia interruppe l'usanza di celebrare, ogni 7 ottobre, il «giorno della vendetta» anti italiana). Il responsabile della Farnesina si è intrattenuto a colloquio con il premier libico Fayez al-Serraj, il vice primo ministro Ahmed Maitig, il ministro degli Esteri Mohammed Taher Siyala e il presidente dell'Alto Consiglio di Stato Khaled al-Meshri. La delegazione di Tripoli ha confermato la propria disponibilità a ripartire dall'accordo Berlusconi-Gheddafi, che il nostro Paese (non senza qualche imbarazzo, poiché il testo dell'intesa prescriveva che un'eventuale rottura del patto dovesse essere concordata da entrambe le parti) sospese unilateralmente nel 2011, dopo lo scoppio della rivoluzione. Quella di una riattivazione del trattato di Bengasi è una buona notizia per le aziende italiane. I negoziati di dieci anni fa tra l'ex Cavaliere e il dittatore libico includevano, oltre alla famosa collaborazione per il contenimento dei flussi migratori, una serie di impegni economici di grande valore anche geopolitico. Ad esempio, il progetto per la realizzazione di un'autostrada lunga 1.700 chilometri, che doveva correre dal confine con la Tunisia a quello con l'Egitto. La società italiana Impregilo cinque anni fa dovette sospendere i lavori del primo lotto a causa dell'instabilità dell'area. Ma sul piatto ci sono pure la joint venture nei settori aerospaziale, elettronico, tecnologico ed energetico tra Finmeccanica e due fondi sovrani libici, la ristrutturazione dell'aeroporto di Tripoli (gestita dal consorzio Aeneas) e, come ha ricordato Il Sole 24 Ore, lo sblocco dei 600 milioni di dollari di crediti che le imprese italiane vantano nei confronti dei committenti pubblici libici. Senza dimenticare lo sviluppo dei nostri colossi del petrolio e del gas, che nonostante la guerra (e nonostante la regia francese del conflitto puntasse a scalzarli) hanno mantenuto i propri impianti. Anzi, pochi giorni fa Eni ha annunciato l'avvio della produzione nel più grande giacimento a gas nell'offshore libico, suscitando l'entusiasmo di Serraj. Ma non è tutto oro quello che luccica. Il numero uno di Tripoli, nostro interlocutore privilegiato, non è l'unico attore sulla scena. Emmanuel Macron ha investito tutto il suo capitale politico sul concorrente di Serraj, il generale Khalifa Haftar, mentre le tribù che costituiscono il lacerato tessuto sociale della Libia, uno Stato effettivamente privo di un'identità nazionale unitaria, dopo la scomparsa di Gheddafi hanno accresciuto il loro peso specifico, configurandosi come una delle più insidiose minacce per la rinascita del Paese. Non è un caso se un gruppo della Cirneaica, vicino ad Haftar, abbia appena invocato il jihad «contro lo Stato coloniale e fascista italiano». È lecito ipotizzare che sia stato lo stesso generale di Tobruk ad aizzare gli estremisti. Magari su mandato di chi gravita attorno all'Eliseo ed è preoccupato da un'Italia intenzionata a tornere in gioco. Il ministro Moavero ha espresso la volontà di «contribuire in maniera decisiva alla stabilizzazione della Libia» e ha prefigurato «un partenariato economico bilaterale incentrato su settori strategici e fondato su un'efficace collaborazione tra settore pubblico e privato». Un passo in avanti rispetto alla subordinazione dei governi del Pd agli interessi esclusivi di Parigi. Ma nel 2008 Berlusconi poteva fare affidamento su un leader che forse era un tiranno, però garantiva l'ordine e il rispetto degli accordi. Oggi, invece, l'Italia deve orientarsi in un labirinto politico disseminato di trappole. Alessandro Rico
Sergio Mattarella (Ansa)
Si torna quindi all’originale, fedeli al manoscritto autografo del paroliere, che morì durante l’assedio di Roma per una ferita alla gamba. Lo certifica il documento oggi conservato al Museo del Risorgimento di Torino.
La svolta riguarderà soprattutto le cerimonie militari ufficiali. Lo Stato Maggiore della Difesa, in un documento datato 2 dicembre, ha infatti inviato l’ordine a tutte le forze armate: durante gli eventi istituzionali e le manifestazioni militari nelle quali verrà eseguito l’inno nella versione cantata - che parte con un «Allegro marziale» -, il grido in questione dovrà essere omesso. E viene raccomandata «la scrupolosa osservanza» a tutti i livelli, fino al più piccolo presidio territoriale, dalla Guardia di Finanza all’Esercito. Ovviamente nessuno farà una piega se allo stadio i tifosi o i calciatori della nazionale azzurra (discorso che vale per tutti gli sport) faranno uno strappo alla regola, anche se la strada ormai è tracciata.
Per confermare la bontà della decisione del Colle basta ricordare le indicazioni che il Maestro Riccardo Muti diede ai 3.000 coristi (professionisti e amatori, dai 4 agli 87 anni) radunati a Ravenna lo scorso giugno per l’evento dal titolo agostiniano «Cantare amantis est» (Cantare è proprio di chi ama). Proprio in quell’occasione, come avevamo raccontato su queste pagine, il grande direttore d’orchestra - che da decenni cerca di spazzare via dall’opera italiana le aggiunte postume, gli abbellimenti non richiesti e gli acuti non scritti dagli autori, ripulendo le partiture dalle «bieche prassi erroneamente chiamate tradizioni» - ordinò a un coro neonato ma allo stesso tempo immenso: «Il “sì” finale non si canta, nel manoscritto non c’è».
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Scott Bessent (Ansa)
Partiamo da Washington, dove il Pil non solo non rallenta, ma accelera. Nel terzo trimestre dell’anno, da luglio a settembre, l’economia americana è cresciuta del 4,3%. Non un decimale in più o in meno: un punto pieno sopra le attese, ferme a un modesto 3,3%. Un dato arrivato in ritardo, complice lo stop federale che ha paralizzato le attività pubbliche, ma che ha avuto l’effetto di una doccia fredda per gli analisti più pessimisti. Altro che frenata da dazi: rispetto al secondo trimestre, l’incremento è stato dell’1,1%. Altro che economia sotto anestesia. Una successo che spinge Scott Bessent, segretario del Tesoro, a fare pressioni sulla Fed perché tagli i tassi e riveda al ribasso dal 2% all’1,5% il tetto all’inflazione. Il motore della crescita? I consumi, tanto per cambiare. Gli americani hanno continuato a spendere come se i dazi fossero un concetto astratto da talk show. Nel terzo trimestre i consumi sono saliti del 3,5%, dopo il più 2,5% dei mesi precedenti. A spingere il Pil hanno contribuito anche le esportazioni e la spesa pubblica, in un mix poco ideologico e molto concreto. La morale è semplice: mentre la politica discute, l’economia va avanti. E spesso prende un’altra direzione.
E l’Europa? Doveva essere la prima vittima collaterale della guerra commerciale. Anche qui, però, i numeri si ostinano a non obbedire alle narrazioni. L’Italia, per esempio, a novembre ha visto rafforzarsi il saldo commerciale con i Paesi extra Ue, arrivato a più 6,9 miliardi di euro, contro i 5,3 miliardi dello stesso mese del 2024. Quanto agli Stati Uniti, l’export italiano registra sì un calo, ma limitato: meno 3%. Una flessione che somiglia più a un raffreddore stagionale che a una polmonite da dazi. Non esattamente lo scenario da catastrofe annunciata.
Anche la Bce, che per statuto non indulge in entusiasmi, ha dovuto prendere atto della resilienza dell’economia europea. Le nuove proiezioni parlano di una crescita dell’eurozona all’1,4% nel 2025, in rialzo rispetto all’1,2% stimato a settembre, e dell’1,2% nel 2026, contro l’1,0 precedente. Non è un boom, certo, ma nemmeno il deserto postbellico evocato dai più allarmisti. Soprattutto, è un segnale: l’Europa cresce nonostante tutto, e nonostante tutti. E poi c’è la Cina, che osserva il dibattito globale con il sorriso di chi incassa. Nei primi undici mesi del 2025 Pechino ha messo a segno un surplus commerciale record di oltre 1.000 miliardi di dollari, con esportazioni superiori ai 3.400 miliardi. Altro che isolamento: la fabbrica del mondo continua a macinare numeri, mentre l’Occidente discute se i dazi siano il male assoluto o solo un peccato veniale.
Alla fine, la lezione è sempre la stessa. I dazi fanno rumore, le previsioni pure. Ma l’economia parla a bassa voce e con i numeri. E spesso, come in questo caso, si diverte a smentire chi aveva già scritto il copione del disastro. Le cassandre restano senza applausi. Le statistiche, ancora una volta, si prendono la scena.
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Paolo Barletta, Ceo Arsenale S.p.a. (Ansa)
Il contributo di Simest è pari a 15 milioni e passa dalla Sezione Infrastrutture del Fondo 394/81, plafond in convenzione con il ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale, dedicato alle imprese italiane impegnate in grandi commesse estere che valorizzano la filiera nazionale. In termini di struttura, il capitale sociale congiunto copre la componente di rischio industriale, mentre la componente del fondo saudita sostiene la rampa di avvio del progetto, riducendo il fabbisogno di capitale a carico dei partner italiani e rafforzando la bancabilità dell’iniziativa nel Paese ospitante, presentata come modello pubblico-privato nel segmento ferroviario di lusso.
L’intesa è inserita nella collaborazione Italia-Arabia Saudita, richiamando l’apertura della sede Simest a Riyadh e il Memorandum of Understanding tra Cdp, Simest e Jiacc. «Dream of the Desert» è indicato come progetto apripista di un modello pubblico-privato nel trasporto ferroviario di lusso.
«Dream of the Desert è un progetto simbolo per il nostro gruppo e per l’industria ferroviaria internazionale. Valorizza le Pmi italiane e costituisce un caso apripista di partnership pubblico-privata nel settore ferroviario di lusso. L’accordo siglato con Simest e le istituzioni saudite conferma come la collaborazione tra imprese e istituzioni possa creare valore duraturo e promuovere le eccellenze italiane nel mondo», commenta Paolo Barletta, amministratore delegato di Arsenale.
Regina Corradini D’Arienzo, amministratore delegato di Simest, aggiunge: «L’intesa sottoscritta con un primario attore industriale come Arsenale per la realizzazione di un progetto strategico per il Made in Italy, conferma il rafforzamento del ruolo di Simest a sostegno del tessuto produttivo italiano e delle sue filiere. Attraverso la prima operazione realizzata nell’ambito del Plafond di equity del fondo pubblico di Investimenti infrastrutturali», continua la numero uno del gruppo, «Simest interviene direttamente come socio per accrescere la competitività delle nostre imprese impegnate in progetti infrastrutturali ad alto valore aggiunto, favorendo al contempo l’espansione del Made in Italy in mercati strategici ad elevato potenziale di crescita, come quello saudita. Lo strumento, sviluppato da Simest sotto la regia del ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale e in collaborazione con Cassa depositi e prestiti, si inserisce pienamente nell’azione del Sistema Italia, che, sotto la regia della Farnesina, vede il coinvolgimento di Cdp, Simest, Ice e Sace. Un approccio integrato volto a garantire alle imprese italiane un supporto strutturato e complementare, dall’azione istituzionale a quella finanziaria, per affrontare con efficacia le principali sfide della competitività internazionale».
Sul piano industriale, Arsenale dichiara un treno interamente progettato, prodotto e allestito in Italia: gli hub Cpl (Brindisi) e Standgreen (Bergamo) operano con Cantieri ferroviari italiani (Cfi) come general contractor, coordinando una rete di Pmi (design, meccanica avanzata, ingegneria, lusso e hospitality). Per il committente estero, questa configurazione «turnkey (chiavi in mano, ndr.)» concentra in un unico soggetto il coordinamento di produzione, integrazione e allestimento; per l’ecosistema italiano, sposta volumi e valore aggiunto lungo la catena domestica, fino alla finitura degli interni ad alto contenuto di design.
Il prodotto sarà un treno di ultra lusso con itinerari da uno a due notti: partenza da Riyadh e collegamenti verso destinazioni iconiche del Regno, tra cui Alula (sito Unesco) e Hail, fino al confine con la Giordania. Gli interni sono firmati dall’architetto e interior designer Aline Asmar d’Amman, fondatore dello studio Culture in Architecture. La prima carrozza è stata consegnata a settembre 2025; l’avvio operativo è previsto per fine 2026, con prenotazioni aperte da novembre 2025.
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Matteo Hallissey (Ansa)
Il video è accompagnato da un post: «Abbiamo messo in atto», scrive l’ex perfetto sconosciuto Hallisey, «un flash mob pacifico pro Ucraina all’interno di un convegno filorusso organizzato dall’Anpi all’università Federico II di Napoli. Dopo aver atteso il termine dell’evento con Alessandro Di Battista e il professor D’Orsi e al momento delle domande, decine di studenti e attivisti pro Ucraina di +Europa, Ora!, Radicali, Liberi Oltre, Azione e della comunità ucraina hanno mostrato maglie e bandiere ucraine. È vergognoso che non ci sia stata data la possibilità di fare domande e che l’attivista che stava interloquendo con i relatori sia stato aggredito e spinto da un rappresentante dell’Anpi fino a rompere il microfono. Anch’io sono stato aggredito violentemente», aggiunge il giovane radicale, «mentre provavo a fare una domanda a D’Orsi sulla sua partecipazione alla sfilata di gala di Russia Today a Mosca due mesi fa. Chi rivendica la storia antifascista e partigiana non può non condannare queste azioni di fronte a una manifestazione pacifica».
Rivedendo più volte il video al Var, di aggressioni non ne abbiamo viste, a parte come detto qualche spinta, ma va detto pure che quando Hallissey scrive «mentre provavo a fare una domanda a D’Orsi», omette di precisare che quella domanda è stata posta al professore, ma in maniera tutt’altro che pacata: le urla del buon Matteo sono scolpite nel video da lui stesso, ripetiamo, pubblicato. Per quel che riguarda la rottura del microfono, le immagini, viste e riviste non chiariscono se il fallo c’è o no: si vede un giovane attivista che contende un microfono a D’Orsi, ma i frame non permettono di accertare se alla fine si sia rotto o sia rimasto intero.
Quello che è certo è che ieri sono piovuti nelle redazioni i soliti comunicati di solidarietà, non solo da parte di Azione, degli stessi Radicali e di Benedetto Della Vedova, ma anche del capogruppo alla Camera di Fratelli d’Italia Galeazzo Bignami, che su X ha vergato un severo post: «Solidarietà a Matteo Hallissey, presidente dei Radicali italiani», ha scritto Bignami, «aggredito a un evento Anpi per aver provato a porre domande in un flash mob pacifico. Da chi ogni giorno impartisce lezioni di democrazia ma reagisce con violenza, non accettiamo lezioni». Non si comprende, come abbiamo detto, dove sia la violenza, perché per una volta bisogna pur mettere da parte il politically correct e l’ipocrisia dilagante e dire le cose come stanno: dal video emerge in maniera cristallina la natura provocatoria del flash mob pro Ucraina, e da quelle urla e da quegli atteggiamenti, per noi che abbiamo purtroppo l’abitudine a pensar male, anche se si fa peccato, fa capolino pure che magari l’obiettivo era proprio quello di scatenare una reazione violenta da parte dei partecipanti al convegno.
Non lo sapremo mai: quello che sappiamo è che i Radicali, sigla che nella politica italiana ha avuto un ruolo di primissimo piano per tante battaglie condotte in primis dal compianto Marco Pannella, sono ormai ridotti a praticare forme di puro macchiettismo politico, pur di ottenere un po’ di visibilità: ricorderete lo show di Riccardo Magi, deputato di +Europa, che vaga nell’aula di Montecitorio vestito da fantasma. A proposito di Magi: il congresso che lo scorso febbraio ha rieletto segretario di +Europa il deputato fantasma è stato caratterizzato da innumerevoli polemiche e altrettante ombre. Poche ore prima della chiusura del tesseramento, il 31 dicembre, dalla provincia di Napoli, in particolare da Giugliano e Afragola, arrivano la bellezza di 1.900 nuovi iscritti, praticamente un terzo dell’intera platea di tesserati, iscritti che poi si traducono in delegati che eleggono i vertici del partito. Una conversione di massa alla causa radicale degli abitanti di questi due popolosi comuni del Napoletano in sostanza stravolge gli equilibri congressuali. Tra accuse e controaccuse, un giovanissimo militante, alla fine dello stesso congresso, sconfigge nella corsa alla presidenza di +Europa uno storico esponente del partito come Benedetto Della Vedova. Si tratta proprio di Matteo Hallissey.
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