2020-03-09
Zaia non ci sta: «Devono toglierci dalla lista»
AIl governatore veneto: «Tre province “rosse" è troppo». Attilio Fontana: «Mi aspettavo misure più rigide».Quello che si fatica a capire, qui al Nord, è come alcune zone che fino a ieri sera bruciavano di rosso fuoco, al sorgere del sole siano diventate improvvisamente aperte e frequentabili. Altre, invece, sono andate a letto tutto sommato serene e si sono risvegliate nel cuore dell'incendio. Viene da chiedersi se il premier, Giuseppe Conte, non abbia poteri taumaturgici: con l'imposizione delle mani ha bonificato intere province. Salvo poi, senza scomporsi, condannarne altre a farsi un giro in purgatorio tanto per gradire.Sono queste stravaganti e in parte inspiegabili giravolte a suscitare prima sgomento e poi irritazione, sopra il Rubicone e pure sotto. Certo, ora i fini editorialisti diranno che i governatori di centrodestra vogliono creare problemi, che cercano l'occasione per mettersi in mostra. Ma se molti, in queste ore, hanno alzato la voce e puntato i piedi una ragione c'è: il Dpcm licenziato dall'esecutivo è riuscito in un'impresa difficile, cioè creare ancora più confusione di quanta già ce ne fosse. È il veneto Luca Zaia a guidare la rivolta nordica. A suo dire, la definizione di ben tre zone rosse nella sua regione (le province di Padova, Treviso e Venezia) è «esagerata e inopportuna» e perciò ne chiede lo stralcio al governo. Spiega di non essere stato «interpellato per un parere prima della definizione del decreto e che l'ultimo contatto con Conte è stato prima di mezzanotte». E aggiunge: «Noi veneti non ci siamo mai tirati indietro, io non mi sono mai permesso di dissentire, anche se c'erano misure che avrei fatto in un'altra maniera. Ma questo decreto per un'interpretazione ha bisogno minimo di una circolare attuativa. Tutto magari ha una ratio, ma per noi veneti in questo momento no». Non si tratta solo di contestazioni politiche. Il Veneto pone obiezioni sul piano scientifico, messe nero su bianco dal comitato tecnico regionale. Nella nota diffusa ieri si legge che nelle province di Treviso e Venezia i cluster sono quasi esclusivamente ospedalieri: significa che il virus non ha finora toccato «in maniera diffusa la popolazione generale». Quanto alla provincia di Padova, quella dove si trova Vo' Euganeo, le «misure di mitigazione di sanità pubblica applicate» hanno «bloccato il diffondersi dell'infezione passando da circa il 3% di positività allo 0,05%». Tradotto, potrebbe suonare così: nelle aree più colpite dal virus la Regione ha messo in campo misure che hanno funzionato, dunque ha fatto bene il suo lavoro. Però il governo, a sua discrezione e senza sentire il governatore, ha deciso per la chiusura di tre Province. Situazione ancora diversa quella della Lombardia, che ieri si è ritrovata avvolta in una gigantesca virus belt, un bel cinturone di sicurezza. Misura piuttosto estrema, e forse anche necessaria. Ma allora perché, girando per Milano, ci sono ancora i bar aperti, i tavolini carichi di aperitivi e gli amici che si danno di gomito con una birra in mano? Ovviamente non basta dare la colpa alla «gente stupida». E non si può non comprendere gli esercenti. Pochi giorni fa il sindaco Beppe Sala diffondeva video per spiegare che la città doveva ripartire, c'erano politici che invitavano a gustarsi l'aperitivo e adesso, taaac, zona rossa rossissima (con il medesimo Sala che, in totale controtendenza, invita a cambiare stile di vita). In effetti c'è da andare in confusione: se l'emergenza è grande, servono misure drastiche. Ma che siano chiare, non diverse da un giorno all'altro. «Sarei stato un pochino più rigido nelle misure che attengono al cosiddetto distanziamento sociale, avrei cercato di impedire occasioni di contatto», ha detto ieri il governatore Attilio Fontana. «Mi hanno mandato foto di code interminabili sugli sci, foto di assembramenti nei bar. La gente non ha ancora capito che è una situazione in cui tutti dobbiamo rinunciare a una parte della nostra libertà». Si possono pure tirare in ballo gli scivoloni sui video con la mascherina e le affermazioni tagliate con l'accetta sui «topi vivi», ma è difficile rimproverare a Zaia e Fontana di non aver fatto egregiamente il loro mestiere fino ad oggi. E se adesso hanno da ridire, qualche motivo probabilmente c'è. Non sono i soli, del resto, a mostrarsi infastiditi. Il governatore del Piemonte, Alberto Cirio (positivo al virus) , ha sbuffato su Facebook: «Abbiamo trattato fino alle 2 di notte per avere un decreto che avesse maggiore omogeneità, ci siamo svegliati con il nuovo decreto già firmato. Il governo ha fatto le sue valutazioni ma con il presidente della Conferenza delle Regioni Bonaccini c'era l'accordo per avere una maggiore interlocuzione. Il decreto fatto nella notte ha fatto strillare tanti sindaci, che hanno scoperto di essere in zone rosse, gialle non da una telefonata, ma sul web o in tv». Se ci aggiungete i governatori del Centro e del Sud, a partire da Michele Emiliano, che sguazzano nel terrore emettendo ordinanze a vanvera e chiedendo di bloccare prima di subito gli spostamenti interni, avete il quadro clinico del guazzabuglio. Certo, servono unità, concordia nazionale e solidarietà, come no. Ma il punto è sempre lo stesso da settimane: per uscire dal dramma noi dobbiamo metterci il cuore, il fegato e le mani. Il governo, però, dovrebbe metterci un poco di cervello. E sorge il forte sospetto che fino ad ora non l'abbia fatto.