
La nuova gaffe di Joe distrugge il lavoro diplomatico di Blinken e fa irrigidire la Cina. Che adesso si farà ancora più spavalda.È tornata a salire la tensione tra Washington e Pechino, dopo che martedì sera Joe Biden ha di fatto definito Xi Jinping un dittatore. Il presidente americano stava partecipando a un evento di raccolta fondi in California, quando, riferendosi alla crisi del pallone spia cinese esplosa a febbraio, ha dichiarato: «Il motivo per cui Xi Jinping si è molto arrabbiato, quando ho abbattuto quel pallone con dentro due vagoni pieni di equipaggiamento spionistico, è che non sapeva che fosse lì. No, sono serio. Questo è un grande imbarazzo per i dittatori, quando non sanno che cosa è successo». Non si è fatta attendere la replica di Pechino, che ha accusato Biden di «palese provocazione politica» e di irresponsabilità. «Queste sono manifestazioni molto contraddittorie della politica estera degli Stati Uniti, che trasmettono un grande elemento di imprevedibilità», ha inoltre detto, riferendosi alle parole di Biden, il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov, che ha poi definito le relazioni tra Mosca e Pechino «molto buone». Ieri, quando La Verità è andata in stampa, la Casa Bianca non aveva ancora rilasciato commenti sull’accaduto. La Cnn aveva tuttavia riportato che alcuni funzionari statunitensi erano rimasti sorpresi dopo aver letto i virgolettati del presidente. Sia chiaro: sul fatto che Xi sia un dittatore, ci sono pochi dubbi. Basti pensare alla persecuzione degli uiguri nello Xinjiang o al processo d’indottrinamento socialista a cui sono oggi sottoposti i cattolici cinesi. Senza trascurare lo smantellamento della democrazia a Hong Kong in barba alla Dichiarazione congiunta sino-britannica del 1984. Ciò detto, non si capisce quale sia il senso politico delle affermazioni di Biden: affermazioni pronunciate subito dopo il complicato viaggio in Cina del segretario di Stato americano, Tony Blinken, che aveva cercato di ricucire (almeno parzialmente) i rapporti con il Dragone. Nell’occasione, proprio Blinken aveva definito la crisi del pallone spia come un «capitolo da chiudere», mentre - sabato scorso - lo stesso Biden aveva affermato di voler incontrare Xi «nei prossimi mesi». D’altronde, non è la prima volta che l’attuale amministrazione americana sembra avere un approccio schizofrenico sul dossier cinese. Da quando è presidente, Biden ha detto in almeno quattro occasioni che avrebbe difeso Taiwan da un’eventuale invasione militare di Pechino, per poi ritrovarsi ogni volta smentito dal suo stesso staff nel giro di pochi minuti. Insomma, che cosa sta succedendo? Si potrebbe essere tentati dal derubricare le affermazioni di martedì a una gaffe o a un’ulteriore manifestazione della scarsa lucidità dell’anziano inquilino della Casa Bianca: spiegazioni che certo non possono essere escluse, ma che, da sole, rischiano di rivelarsi semplicistiche. Il vero nodo è che l’attuale amministrazione americana è sempre risultata internamente spaccata sulla questione cinese. Da una parte, ci sono coloro che, come l’inviato speciale per il clima John Kerry, auspicano una distensione in nome della cooperazione green. Dall’altra, c’è chi, come il Consiglio per la sicurezza nazionale, chiede un approccio più severo su diritti umani e competizione tecnologica. Davanti a queste tensioni intestine, la sfibrata e irresoluta leadership di Biden non è mai riuscita a trovare una sintesi efficace. Non solo. La base elettorale del presidente americano è a sua volta divisa sulla Cina: se i colletti blu della Rust Belt chiedono una linea dura sul commercio, Wall Street e Silicon Valley premono per una distensione volta alla tutela dei legami economici sino-americani. Ebbene, tutte queste spinte contrastanti hanno portato l’amministrazione Biden a tenere spesso posizioni confuse e contraddittorie nei suoi rapporti con Pechino. Ed è proprio qui il problema. Tale confusione sta azzoppando la capacità di deterrenza degli Stati Uniti nei confronti della Cina: una Cina che sarà di conseguenza portata a diventare sempre più baldanzosa, mentre aumenteranno le preoccupazioni da parte di Giappone, Taiwan e Corea del Sud. Tra l’altro, come dimostrano le parole pronunciate ieri da Peskov, l’approccio di Biden sta indirettamente favorendo il consolidamento delle relazioni sino-russe: relazioni che Washington dovrebbe invece cercare urgentemente di indebolire. Infine, come se non bastasse, l’attuale presidente è gravato da residui ideologici legati a quell’internazionalismo liberal che è tipico del Partito democratico americano: dicendo di voler impostare la sua politica estera sulla dicotomia tra democrazie e autocrazie, Biden si è progressivamente trovato con le spalle al muro in Medio Oriente e America Latina. Senza contare che la sua avversione per le dittature appare curiosamente intermittente. L’anno scorso, ha allentato le sanzioni al Venezuela e revocato le restrizioni a Cuba. Inoltre, secondo il New York Times, starebbe attualmente negoziando un «accordo informale» con l’Iran: l’autocrazia khomeinista che, oltre a rappresentare un serio rischio per la sicurezza di Israele, intrattiene stretti legami proprio con Russia, Venezuela e Cina. Senza poi trascurare che 75 parlamentari dem hanno ufficialmente chiesto a Biden di sollevare questioni legate ai diritti umani nel suo incontro a Washington con il premier indiano, Narendra Modi: tutto questo, nonostante Nuova Delhi rappresenti un partner fondamentale degli Usa nell’Indo-pacifico per contenere l’influenza di Pechino. L’ideologia, in politica estera, può giocare brutti scherzi. Eppure il Partito democratico americano non sembra averlo ancora capito.
(IStock)
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Francesca Albanese (Ansa)
La rappresentante Onu ha umiliato il sindaco di Reggio, solo perché lui aveva rivolto un pensiero anche ai rapiti israeliani. La giunta non ha fatto una piega, mentre è scattata contro il ministro sul caso Auschwitz «rispolverando» anche la Segre.
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Il premier congela la riforma fino alle prossime presidenziali, ma i conti pubblici richiedono altri sacrifici. Possibile tassa sui grandi patrimoni. Il Rassemblement national: «Progetto di bilancio da macelleria fiscale».
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- Alla base della decisione, la mancata condivisione di alcune strategie difensive ma soprattutto l’esuberanza mediatica del legale, che nelle ultime settimane aveva parlato a ruota libera su Garlasco. Lui: «Sono sorpreso».
- Ieri l’udienza davanti al tribunale del Riesame. Lo sfogo dell’ex procuratore Venditti: «Mai preso soldi». Sarà la Cassazione a decidere sul conflitto tra Pavia e Brescia.