2025-02-16
Washington vuole il dominio energetico e usa pure i soldi dei Paesi del Golfo
Creato un Consiglio ad hoc: la strada, tracciata già nel 2024, prevede di puntare sul gas di scisto. Asse con l’Arabia Saudita.Dopo la botta dei dazi, arriva quella dell’energia. D’altronde i martelli spesso hanno due teste. E l’obiettivo degli Usa sembra quello di usarle entrambe. Ieri, la Casa Bianca ha annunciato la creazione del Consiglio nazionale per il dominio energetico. A presiederlo saranno Burgum e Wright, rispettivamente segretario dell’Interno e dell’Energia. Non è difficile comprendere a cosa serva. Lo dice il nome stesso: a creare posti di lavoro, ridurre i costi e a rendere gli Usa la forza dominante del mercato energetico. L’obiettivo è piegare o favorire i Paesi avversari, ma anche gli alleati. Esattamente secondo lo schema dei dazi. Con una differenza di fondo. Cioè che la partita dell’energia non sarà un tira e molla come per le tasse sul commercio. Qui la strada è già stata avviata. Secondo un percorso messo a terra nel primo trimestre del 2024, ben prima che arrivasse Donald Trump a Washington. Per capirlo bisogna andare a vedere i flussi finanziari che a partire dalla primavera del 2024 - e poi in forte accelerazione dall’ultimo trimestre dello scorso anno - si sono riversati sull’industria dell’estrazione del gas di scisto americana. Un comparto che certamente nn si può definire green, visto l’impatto che ha sul sottosuolo. Mentre l’Europa uccideva la propria manifattura in nome della transizione green, gli Usa di Joe Biden facevano finta di essere verdi. In realtà hanno visto confluire negli ultimi sei mesi ben 210 miliardi di dollari di capitali offshore nel settore del gas. Di questi alcune ricerche dimostrano che il 60% circa sarebbe da ricondurre a fondi sovrani tutti dell’area del Golfo. Con un focus particolare sull’Arabia Saudita. Non solo. La stessa Fed, la Banca centrale Usa, nell’ultimo anno, tramite iniezioni di liquidità di emergenza avrebbe garantito flussi per 117 miliardi di dollari a intermediari che gestiscono a loro volta fondi che investono sul gas. Il meccanismo è chiaro. Dopo la guerra in Ucraina si è voluto sganciare l’Europa dall’energia russa e riavvicinare a forza Bruxelles al gas Usa. Non a caso, le esportazioni di greggio o gas derivato dallo scisto verso le nazioni allineate alla Nato sono aumentate del 26,3%. I movimenti di investimento paralleli da parte di entità finanziarie sostenute dagli Stati Uniti hanno avviato il riallineamento del dominio energetico globale, incorporando il controllo strategico sulle catene di fornitura attraverso meccanismi commerciali influenzati politicamente.Ora siamo al secondo grande step. Da un lato mitigare i prezzi per strozzare meno il mercato Ue e dall’altro, soprattutto, creare un nuovo asse che mira a monopolizzare l’energia. Asse che parte dall’America e arriva ai Paesi sunniti del Golfo. Emirati e in particolare Arabia Saudita. Nel corso del 2024 sono stati firmati contratti di fornitura a lungo termine per 178,6 miliardi di dollari tra gli esportatori di scisto statunitensi e gli importatori dell’Asia-Pacifico, spostando deliberatamente la dipendenza energetica dagli accordi Opec. Questa ristrutturazione geopolitica garantisce una domanda sostenuta per la produzione di scisto statunitense, controbilanciando al contempo le quote di produzione mediorientali, rafforzando il predominio degli Stati Uniti sul commercio mondiale di petrolio. E qui arriva la spiegazione dell’asse con i sauditi. Il Paese guidato da Mohammad Bin Salman accetta di contare meno nella storica associazione dei produttori di petrolio, ma dall’altro lato finanzia (e beneficerà dei ritorni di cedola) l’industria produttrice americana. Non sappiamo se l’aver avviato il meccanismo finanziario un anno fa significhi che c’era già consapevolezza dell’arrivo alla Casa Bianca di Trump, oppure (più facilmente) che questa del dominio energetico sarebbe comunque stata la strada che avrebbe intrapreso il presidente americano. Indipendentemente dal nome, per capirsi. Ciò che conta è che siamo di fronte a un fatto nuovo e in grado di travolgere gli equilibri. Così come è apparecchiata la tavola dell’energia, l’Europa sembra non avere nemmeno la seggiola su cui sedersi. Per noi certo non è un bene. D’altra parte ciò spiegherebbe bene perché l’Arabia Saudita stia diventando per Trump, tramite il genero Jared Kushner il più grande alleato. In Medio Oriente la Casa Bianca vuole affidarle la gestione di Hamas e di Gaza, la possibilità di aprire un porto nel Mediterraneo e influenzare i flussi tra Maghreb ed Europa. D’altro canto, a livello globale Trump o più in generale il Deep State pensa, evidentemente, che il nuovo ordine del Medio Oriente possa garantire la forza necessaria per contrastare la Cina e la sua economia. Insomma, si parla di qualcosa di rivoluzionario. E limitarsi a dare a Trump del matto o del fascista, come molti italiani fanno, significa ostinarsi a non guardare in faccia la realtà. La postura americana verso l’estero, la nuova geopolitica che si sta realizzando, non prende forma perché un presidente da solo lo desidera. Ma perché l’intera struttura è proiettata in quella direzione. Questo Trump non è il Trump della prima elezione. Non è più un battitore libero, ma una punta che serve a martellare nei punti definiti dall’intera politica americana. Certo, ciò significa che per l’Europa sono problemi. Già detto in tutte le salse. Non è facile trovare una soluzione. Certamente ammettere la svolta è importante e per quanto riguarda l’Italia fare in modo che la penisola torni a essere un porto naturale. Il governo dovrebbe avvicinarsi ancora di più all’Arabia Saudita e cercare di andare in scia all’onda che è in arrivo sul Mediterraneo e il Medio Oriente. Si tratta di stabilità e garanzia dei confini, ma soprattutto di economia e finanza. Quella che serve ai cittadini italiani per stare più sicuri.
Container in arrivo al Port Jersey Container Terminal di New York (Getty Images)
La maxi operazione nella favela di Rio de Janeiro. Nel riquadro, Gaetano Trivelli (Ansa)
Nicolas Maduro e Hugo Chavez nel 2012. Maduro è stato ministro degli Esteri dal 2006 al 2013 (Ansa)
Un disegno che ricostruisce i 16 mulini in serie del sito industriale di Barbegal, nel Sud della Francia (Getty Images)
Situato a circa 8 km a nord di Arelate (odierna Arles), il sito archeologico di Barbegal ha riportato alla luce una fabbrica per la macinazione del grano che, secondo gli studiosi, era in grado di servire una popolazione di circa 25.000 persone. Ma la vera meraviglia è la tecnica applicata allo stabilimento, dove le macine erano mosse da 16 mulini ad acqua in serie. Il sito di Barbegal, costruito si ritiene attorno al 2° secolo dC, si trova ai piedi di una collina rocciosa piuttosto ripida, con un gradiente del 30% circa. Le grandi ruote erano disposte all’esterno degli edifici di fabbrica centrali, 8 per lato. Erano alimentate da due acquedotti che convergevano in un canale la cui portata era regolata da chiuse che permettevano di controllare il flusso idraulico.
Gli studi sui resti degli edifici, i cui muri perimetrali sono oggi ben visibili, hanno stabilito che l’impianto ha funzionato per almeno un secolo. La datazione è stata resa possibile dall’analisi dei resti delle ruote e dei canali di legno che portavano l’acqua alle pale. Anche questi ultimi erano stati perfettamente studiati, con la possibilità di regolarne l’inclinazione per ottimizzare la forza idraulica sulle ruote. La fabbrica era lunga 61 metri e larga 20, con una scala di passaggio tra un mulino e l’altro che la attraversava nel mezzo. Secondo le ipotesi a cui gli archeologi sono giunti studiando i resti dei mulini, il complesso di Barbegal avrebbe funzionato ciclicamente, con un’interruzione tra la fine dell’estate e l’autunno. Il fatto che questo periodo coincidesse con le partenze delle navi mercantili, ha fatto ritenere possibile che la produzione dei 16 mulini fosse dedicata alle derrate alimentari per i naviganti, che in quel periodo rifornivano le navi con scorte di pane a lunga conservazione per affrontare i lunghi mesi della navigazione commerciale.
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