Il voto in Francia, gli analisti: Macron spingerà su riforme e spesa militare

Macron spingerà su riforme e spesa militare dopo l'elezione in Francia
«La République di Macron è in marcia! Ha una maggioranza assoluta in Parlamento, ma la situazione potrebbe cambiare nelle elezioni legislative a giugno». É il giudizio a caldo degli analisti di Credit Suisse all’indomani della conferma di Emmanuel Macron all’Eliseo.
Ma, secondo gli esperti, anche in caso di cambiamenti dell’assetto del parlamento, il presidente francese dovrebbe essere in grado di portare avanti le riforme previste nel suo programma elettorale. «Siamo convinti che Macron sia in grado di portare avanti buona parte del suo programma elettorale anche nel caso in cui non dovesse avere una totale maggioranza - spiegano gli analisti - Detta in altri termini, molte delle sue proposte potrebbero raccogliere sufficiente supporto» anche in un parlamento con una maggioranza diversa da quella attuale.
POLITICA INTERNA
«Intanto la rielezione di Macron dovrebbe portare continuità in termini di politica interna - spiegano gli esperti - Nel suo manifesto si è impegnato a tagliare le tasse a famiglie ed imprese, a riformare il sistema di ammortizzatori sociali per i disoccupati, ad aumentare il budget per la difesa (fino a 50 miliardi al 2025) e la spesa legata al clima (incluso su larga scala lo sviluppo delle rinnovabili e fino a 14 nuovi centrali nucleari, oltre alla riforma del sistema pensionistico».
Per gli esperti di Credit Suisse, per realizzare questi interventi, saranno necessari 50 miliardi l’anno (il 2% del pil) che saranno quasi integralmente finanziati dalla riforma delle pensioni con il passaggio dell’età pensionabile da 62 a 65 anni. Inoltre, secondo il manifesto del presidente, giocheranno a favore anche l’ammodernamento dello Stato e l’abbattimento dei costi delle autorità.
POLITICA ESTERA
In termini di politica estera, per gli esperti della banca svizzera, la rielezione di Macron all’Eliseo elimina alla radice il problema della Frexit, almeno per i prossimi cinque anni. «E dovrebbe aiutare gli investitori a riposizionarsi sulla natura marker friendly del programma di Macron» aggiungono gli analisti di Credit Suisse. La Francia sarà «più vicina all’Europa e alla Nato con una posizione più dura sulla Russia in termini di politica estera.
«In termini di guerra Russia-Ucraina - aggiungono gli analisti - Macron ha promesso che continuerà ad offrire supporto finanziario, militare e operativo all’Ucraina. Sosterrà il divieto alle importazioni di greggio dalla Russia, mentre lascerà tutte le opzioni aperte per quel che riguarda il gas, senza taboo».
Non passa settimana senza che da qualche esponente dei vertici europei arrivi un allarmato appello ad alzare la guardia contro le fake news, la disinformazione, la guerra ibrida combattuta a suon di bufale da questa o quella potenza straniera. La minaccia - ripetono - è talmente grande che la Commissione europea decide di correre ai ripari, mettendo in campo alcune iniziative non molto pubblicizzate ma suggestive.
Una di queste si chiama S-info, che sta per Sustainable information. Come si legge sul sito ufficiale, «si tratta di un progetto finanziato dall’Ue, incentrato sui media e ispirato dall’esigenza di rafforzare la democrazia. Ha una durata di due anni, da dicembre 2023 a novembre 2025. Coinvolge organizzazioni di quattro Paesi dell’Unione europea: Italia, Belgio, Romania e Malta. Il progetto esplorerà i modi in cui gli attivisti della società civile e i giornalisti indipendenti possono collaborare per svolgere giornalismo investigativo, combattere la disinformazione, combattere la corruzione, promuovere i diritti sociali e difendere l’ambiente. L’obiettivo finale è quello di creare un modello operativo di attivismo mediatico sostenibile che possa essere trasferito ad altri Paesi e contesti».
La tiritera è la solita: lotta alla disinformazione, promozione dei diritti... S-info è finanziato da Eacea, ovvero l’agenzia esecutiva della Commissione europea che gestisce il programma Europa creativa, il quale a sua volta finanzia il progetto giornalistico in questione con la bellezza di 492.989 euro. E che cosa fa con questi soldi il progetto europeo? Beh, tra le altre cose finanzia inchieste che sono presentate come giornalismo investigativo. Una di queste è stata realizzata da Alice Dominese, la cui biografia online descrive come «laureata in Scienze politiche e relazioni internazionali tra Italia e Francia, con un master in giornalismo. Collabora con L’Espresso e Domani, e ha scritto per La Stampa, Il Manifesto e The Post Internazionale, tra gli altri. Si occupa principalmente di diritti, migrazione e tematiche di genere».
La sua indagine, facilmente rintracciabile online, è intitolata Sottotraccia ed è dedicata ai temibili movimenti pro vita. «Questo articolo», si legge nella presentazione, «è il frutto di una delle due inchieste finanziate in Italia dal grant del progetto europeo S-info, cofinanziato dalla Commissione europea. La pubblicazione originale si trova sul sito ufficiale del progetto. In questa inchiesta, interviste e analisi di documenti ottenuti tramite una richiesta di accesso agli atti esplorano il rapporto tra movimento antiabortista, sanità e servizi pubblici in Piemonte. Le informazioni raccolte fanno luce sull’uso che le associazioni pro vita fanno dei finanziamenti regionali e sul ruolo della Stanza dell’ascolto, il presidio che ha permesso a queste associazioni di inserirsi nel primo ospedale per numero di interruzioni volontarie di gravidanza in Italia».
Niente in contrario ai finanziamenti pubblici, per carità. Ma guarda caso questi soldi finiscono a giornalisti decisamente sinistrorsi che, pronti via, se la prendono con i movimenti per la vita. Non stupisce, dopo tutto i partner italiani del progetto S-info sono Globalproject.info, Melting pot Europa e Sherwood.it, tutti punti di riferimento mediatici della sinistra antagonista.
Proprio Radio Sherwood, lo scorso giugno, ha organizzato a Padova il S-info day, durante il quale è stato presentato il manifesto per il giornalismo sostenibile. Evento clou della giornata un dibattito intitolato «Sovvertire le narrazioni di genere». Partecipanti: «L’attivista transfemminista Elena Cecchettin e la giornalista Giulia Siviero, moderato da Anna Irma Battino di Global project». La discussione si è concentrata «su come le narrazioni di genere, troppo spesso costruite attorno a stereotipi o plasmate da dinamiche di potere, possano essere decostruite e trasformate attraverso un giornalismo più consapevole, posizionato e inclusivo». Tutto meraviglioso: la Commissione europea combatte la disinformazione finanziando incontri sulla decostruzione del genere e inchieste contro i pro vita. Alla faccia della libera informazione.
«Da Bruxelles», ha dichiarato Maurizio Marrone, assessore piemontese alle Politiche sociali, «arriva una palese ingerenza estera per screditare azioni deliberate dal governo regionale eletto dai piemontesi, peraltro con allarmismi propagandistici smentiti dalla realtà. Il nostro fondo Vita nascente finanzia sì anzitutto i progetti dei centri di aiuto alla vita a sostegno delle madri in difficoltà, ma eroga contributi anche ai servizi di assistenza pubblica per le medesime finalità, partendo dall’accompagnamento nei parti in anonimato. Ci troviamo di fronte a un grave precedente, irrispettoso delle autonomie locali italiane e della loro sovranità».
Carlo Fidanza, capodelegazione europeo di Fdi, annuncia invece che presenterà «un’interrogazione parlamentare alla Commissione europea per far luce sui finanziamenti dell’agenzia Eacea a questi attacchi mediatici creati a tavolino per alimentare odio ideologico contro il volontariato pro vita. L’Unione europea dovrebbe sostenere le politiche delle Regioni italiane, non alimentare con soldi pubblici la macchina del fango contro le loro iniziative non omologate al pensiero unico woke».
Insomma, a Bruxelles piace il giornalismo libero. A patto che sia pagato dai contribuenti per prendersela con i nemici ideologici.
Quando non sanno più come cavarsela, boicottano, per via dell’antica regola per cui li si nota di più se non vanno. La parte di quello che si tira indietro tocca a Zerocalcare (a cui si è accodato l'assessore romano Massimiliano Smeriglio): «Ciao, purtroppo non sarò alla fiera romana Più libri più liberi», ha scritto. «Purtroppo ognuno c’ha i suoi paletti, questo è il mio. Quando l’ho deciso, quindici anni fa, mi pareva semplicissimo da applicare. Oggi è una specie di campo minato. Penso che questo ci costringa a rifletterne insieme, di più, e in modo più efficace. Gente a cui voglio bene ha fatto scelte diverse, sono sicuro che sapranno far sentire le loro voci e faccio il tifo per loro».
Anche lo scorso anno era andata così: il fumettista rinunciò alla kermesse perché tra gli invitati c’era il filosofo Leonardo Caffo, coinvolto in una vicenda di maltrattamenti domestici per cui è stato condannato (in primo grado, in attesa di ulteriori passaggi: lui ha sempre definito ingiusta la condanna). Altri seguirono e ne scaturì una faida tutta interna alla sinistra. Quest’anno se non altro per i compagni della cultura la faccenda è più lineare, nel senso che non debbono salire sul piedistallo e prendere le distanze da qualcuno proveniente dal loro mondo: stavolta si tratta di fare gli antifascisti, e di protestare contro l’inclusione dell’editore Passaggio al bosco nella manifestazione libraria. La casa editrice è di destra estrema, dicono, dunque non può partecipare. Motivo per cui si sono tutti messi in fila a firmare l’appello rivolto all’Associazione italiana editori, chiedendo la rimozione del marchio sgradito.
Per fortuna, almeno finora, l’Aie ha tenuto botta, ma in contemporanea si è scatenato il consueto psicodramma progressista. Ciascuno degli antifascisti di professione sta cercando di farsi notare sparandola grossa e alzando il più possibile l’asticella. Insomma è partita la gara a chi è più puro. Paolo Berizzi, fascistologo di Repubblica, si è scatenato contro Passaggio al bosco e ha rilanciato segnalando un altro marchio da censurare, ovvero Idrovolante edizioni. A questo punto, tanto verrebbe cambiare il nome della manifestazione in Più libri, più censura. O Meno libri più liberi, come gli amici sinistrorsi preferiscono. Berizzi tuttavia è superato a sinistra dai portavoce di Red Star Press, casa editrice dichiaratamente comunista, come si evince dal nome. I ragazzi della stella rossa non diserteranno la fiera come Zerocalcare, rimarranno al loro posto e rilanciano: i fascisti a loro fanno schifo, dicono, ma non è che i democratici siano poi tanto meglio. «Fa davvero specie che l’ex deputato dem Emanuele Fiano, presidente di Sinistra per Israele, si stupisca di presenze come quella di Passaggio al bosco a Più libri più liberi», scrivono sui social. «Assumendo come reale lo stupore di Fiano, sarà bene far notare al politico del Pd come, nel corso del genocidio in Palestina, le posizioni più estremisticamente a favore di Israele - i sionisti non abbiano fatto altro che trovare nella destra e nell’estrema destra i propri alleati più fedeli. II risultato, oltre all’impunito massacro di decine di migliaia di palestinesi, è stato anche un ulteriore spostamento a destra dell’asse politico dell’intero Occidente, dove i governi si sono ostinatamente rivelati sordi alle oceaniche manifestazioni che hanno continuato a rivendicare giustizia e libertà per la Palestina, preoccupandosi solo dei modi per silenziare le voci dissonanti, aggredendo le persone comuni, il nemico interno».
Capito? I fasci sono brutti, ma anche i sionisti della sinistra riformista fanno un po’ ribrezzo. Queste prese di posizione non stupiscono: quando parte la corsa all’epurazione c’è sempre qualcuno che si sente più puro degli altri e pensa di poter determinare chi debba parlare e chi no. Anche ai sinceri democratici tocca stare attenti, perché in assenza di destra sono loro i primi a passare per fascisti. Fiano ne sa qualcosa, visto come hanno cercato di zittirlo nelle aule universitarie, e in teoria chi subisce censura dovrebbe essere il primo a reclamare la libertà di parola per tutti. Ormai però sappiamo da tempo immemore che per i progressisti tale libertà vale a corrente alternata. I giornali liberal che strepitano contro Passaggio al bosco sono, per dire, gli stessi che prendono le difese dell’imam piemontese Mohamed Shahin, beccato a dichiarare in piazza che il 7 ottobre non c’è stata violenza né qualche tipo di violazione. Del predicatore invasato si vogliono tutelare pensiero e espressione, e a sinistra si giustificano pure (anche se con qualche distinguo) le intemerate di Francesca Albanese. C’è persino chi, come Annalisa Cuzzocrea di Repubblica, straparla in merito all’aggressione dei centri sociali alla Stampa e sostiene che gli antagonisti abbiano attaccato il giornale sbagliato. In buona sostanza nel variegato universo progressista ciascuno, in base alle sue convinzioni, si riserva il diritto di mettere il bavaglio a questo o a quell’altro. La possibilità di confrontarsi con l’altro e ascoltarne le ragioni, magari solo per confutarle, non è minimamente presa in considerazione. Si chiede la censura, si fa di tutto per oscurare, e se non ci si riesce, ci si leva di torno per non mescolarsi con gli sgradevoli inferiori: sia mai che si rischi di farsi sfiorare da qualche idea che possa riempire il vuoto mentale pneumatico.
Volete sapere perché gli italiani si sentono meno sicuri di prima? La risposta non è legata solo al numero di agenti che presidiano le strade, ma soprattutto al numero di malviventi lasciati liberi di delinquere. Altri Paesi europei hanno meno poliziotti di noi e, nonostante ciò, i furti sono in media inferiori di numero a quelli che si registrano a casa nostra. Così pure la percentuale di rapine e di violenze. Se la statistica premia chi ha forze dell’ordine meno presenti delle nostre, una ragione c’è: altrove, quando beccano un ladro, lo mettono dentro e ce lo tengono. E così pure quando arrestano uno stupratore.
La differenza è tutta qui: da noi è più facile finire dietro le sbarre se si fa il poliziotto che se di «mestiere» si scippano le vecchiette. Non ci credete? Leggete di seguito una serie di esempi.
Il caso più clamoroso riguarda la vicenda di Ramy Elgaml, il ragazzo egiziano che a Milano è morto mentre fuggiva durante un inseguimento. Che lui e il suo amico non si fossero fermati all’alt dei carabinieri ormai è pacifico, come pure è assodato che il comportamento pericoloso del giovane che guidava lo scooter sia all’origine dell’incidente che è costato la vita all’amico. Ciò nonostante, nel mirino dei magistrati sono finiti sette carabinieri, ovvero quasi tutti gli equipaggi delle pattuglie che hanno dato la caccia ai due fuggiaschi. Invece di ricevere un encomio per aver rischiato la propria incolumità per fermare persone che in teoria avrebbero potuto essere pericolosi delinquenti, i militari sono finiti sul banco degli imputati. Chi per guida pericolosa, chi per non aver redatto il verbale riferendo ogni passaggio dell’inseguimento, chi per aver fatto cancellare il video del cadavere di Ramy fatto da un passante.
Ora, se sette carabinieri su otto dopo un anno sono ancora costretti a difendersi dall’accusa di aver fatto il proprio dovere, immaginatevi quale potrà essere la reazione degli agenti la prossima volta che vedranno un tizio fuggire all’alt. Lo inseguiranno oppure volteranno la testa dall’altra parte? Io penso che la risposta più probabile sia la seconda.
Altro episodio su cui riflettere. Accade sempre a Milano, città il cui sindaco (di sinistra) insiste a dire che la sicurezza è una questione di percezione. La polizia ferma un gruppo di maranzine di origine egiziana responsabili di aggressioni ai danni di alcuni coetanei. Le giovani, prese quasi con le mani nel sacco, sono denunciate e rimesse in libertà, ovvero in condizioni di continuare a fare ciò che hanno fatto, vale a dire aggredire e derubare.
Restiamo al Nord, a Verona. Un’altra «risorsa» aggredisce un agente con un coltello dopo aver minacciato varie persone. Sentendosi in pericolo, il poliziotto spara e uccide l’extracomunitario. È evidente a chiunque che si sia trattato di legittima difesa, ma l’assistente capo della Polfer finisce indagato e solo dopo quasi un anno è prosciolto da ogni accusa. Nel frattempo, però, viene eretto un monumento allo straniero che minacciava di accoltellare i passanti e una ventina di associazioni (tutte di sinistra) chiedono verità e giustizia per l’immigrato
Spostiamoci ad Ascoli Piceno. Il tribunale della città marchigiana ha assolto un gambiano che ha staccato una falange a una poliziotta. Non si conoscono le motivazioni della sentenza, ma anche applicando tutte le attenuanti che si possono immaginare, risulta difficile capire perché chi commette una violenza nei confronti di un agente possa essere messo in libertà. A meno che picchiare un poliziotto sia ritenuto un reato di lieve entità, come lascia intuire una sentenza della Corte costituzionale. La Consulta ha, infatti, stabilito che a chi oppone resistenza o aggredisce dei pubblici ufficiali, ossia poliziotti o carabinieri, possono essere concesse le attenuanti. La tenuità del fatto si applica anche a chi sputa in faccia a un agente, oppure si scontra con le forze dell’ordine.
Naturalmente potrei continuare, portando altri episodi che spiegano come mai gli italiani si sentano insicuri, ma credo che quelli citati bastino. Il problema non è quanti poliziotti abbiamo, ma come li usiamo e come rispettiamo il loro lavoro. Non servono nuove leggi e pene più pesanti: bastano e avanzano quelle che abbiamo a patto, però, di farle rispettare. Non so se vi è sfuggito il dettaglio, ma in quasi tutte queste vicende le decisioni sono prese dalla magistratura. Le indagini a carico dei carabinieri del caso Ramy, le maranzine a piede libero, il gambiano assolto dall’accusa di aver staccato un dito a un’agente, l’indagine a carico del poliziotto e pure la sentenza per cui picchiare un uomo delle forze dell’ordine non è grave, sono frutto di una giurisprudenza che premia i ladri e mortifica gli agenti. E poi vi stupite se aumenta l’insicurezza?














