La manovra è un primo passo positivo. Ora bisognerà trattare con Bruxelles anche la questione del patto di Stabilità. E affrontare il tema degli aiuti utilizzati durante il periodo del Covid. È l’appello al governo del presidente dell’Associazione nazionale per l’industria e il terziario (Anpit), Federico Iadicicco, che, se da un lato non nasconde preoccupazione per lo scenario incerto, dall’altro vede opportunità di cambiamento epocali. Dal punto di vista delle aziende che rappresenta c’è però ancora molto da fare per rilanciare il Paese in un contesto geopolitico in fermento.
«La legge di bilancio, appena licenziata dal governo, mi sembra estremamente equilibrata», spiega, «dato per assodato il vincolo esterno con gli impegni presi nei confronti di Bruxelles e considerato il contesto particolarmente complicato e difficile, credo che destinare gran parte delle risorse alla riforma fiscale sia un atto politico importante. Si tratta di un primo significativo passaggio verso un cambiamento atteso da decenni con un impatto sulle aziende sia in linea diretta, via tassazione, che indiretta attraverso le misure a vantaggio dei redditi bassi con un’influenza sul reddito disponibile del ceto medio e quindi sui consumi».
È positivo il giudizio anche sui sette miliardi stanziati per il rinnovo dei contratti della pubblica amministrazione che «va nella direzione di una maggiore equità nella distribuzione degli stipendi e del reddito disponibile per un’importante fetta dei lavoratori italiani che sono quelli del settore pubblico. Anche questo può essere uno strumento che può costituire una leva per un aumento dei consumi con un miglioramento delle condizioni economiche generali».
Certo le imprese continuano ad andare avanti a fatica. Archiviato il rimbalzo post Covid, le aziende stanno metabolizzando i rialzi dei prezzi dovuti all’inflazione galoppante e cercano di contrastare gli aumenti degli oneri finanziari legati all’incremento dei tassi d’interesse. Non a caso Iadicicco ammette che non sono pochi i rischi per il tessuto produttivo italiano. A cominciare dalla recessione della Germania che mette in difficoltà il motore della produzione nel Nord-Est del Paese. «A questo si è ora aggiunta l’incognita rispetto al conflitto israelo-palestinese che rischia di riaccendere la spirale inflazionistica con i rincari nei costi delle materie prime e dell’energia. Speriamo che non vada così. Proprio nel momento in cui sembrava stabilizzarsi il quadro» , continua il presidente Anpit, «questa nuova tragedia, innanzitutto umanitaria, rischia di diventare anche una tragedia economica. Di certo il 2024 si aprirà all’insegna dell’incertezza con rischi di recessione abbastanza pressanti».
Per fronteggiare le difficoltà non c’è una regola precisa. Ma di sicuro non aiuta la politica monetaria restrittiva della Bce, come pure i vincoli del patto di Stabilità e gli impegni stringenti sugli aiuti Covid. «Il governo», evidenzia Iadicicco, «dovrà ora giocare una nuova importante partita. Innanzitutto, sul tema della restituzione degli aiuti utilizzati per superare la pandemia. Tante aziende si sono indebitate e ora dovranno restituire il denaro con un fardello di oneri finanziari che nel frattempo si sono quintuplicati».
Secondo Iadicicco la questione è di particolare rilievo perché c’è il rischio di default per le imprese più fragili con un impatto negativo sia sul sistema finanziario che sulla finanza pubblica visto che lo Stato ha offerto sue garanzie per far credito al sistema produttivo durante la pandemia. Al tempo stesso, il Paese dovrà contribuire a riscrivere le regole comunitarie «perché il patto di Stabilità, con la sua austerity, non funziona». Il numero uno dell’Anpit conclude immaginando un’Europa in cui popoli e imprese riacquistano centralità rispetto alla finanza. Per realizzare questo obiettivo è fondamentale l’appuntamento elettorale europeo. «Speriamo», sottolinea, «non diventi un promossi o bocciati per i governi nazionali come spesso accaduto in passato, ma sia piuttosto l’occasione per riflettere sul cambiamento strutturale dell’assetto istituzionale e quindi anche economico dell’Unione. Questo perché si può rinunciare ad un pezzo di sovranità nazionale in cambio di un aumento della sovranità popolare».
Altro che campagna mediatica denigratoria contro la Cgil. I problemi di quel sindacato sono ben altri. E il suo leader Maurizio Landini li conosce bene. Sono nelle pieghe di un bilancio che non è più quello di una volta. I tempi sono cambiati e i numeri non tornano. E la grande partita da giocare sono i fondi del Pnrr per la formazione, un affare da centinaia di milioni al quale il sindacato non vuole rinunciare. Anche a dispetto del fatto che le esigenze del mercato siano ben diverse dall’offerta formativa proposta dagli istituti di formazione che fanno capo alle organizzazioni dei lavoratori.
La situazione è molto delicata. La base freme, i lavoratori diminuiscono e i pensionati sono furibondi per la mancata rivalutazione dell’assegno previdenziale. In poche parole, l’organizzazione barcolla. Rappresenta sempre meno le istanze dei suoi iscritti e assomiglia sempre di più ad un’azienda dalla struttura accentrata e verticistica. Con tutte le difficoltà di chi deve confrontarsi con il mercato e con il mondo della comunicazione che, mettendo alla porta il portavoce Massimo Gibelli, Landini ha affidato alle cure del suo compagno d’infanzia Gianni Prandi. Lo stesso che ha ottenuto una commessa da 15 milioni da Ita Airways proprio mentre 4.000 lavoratori Alitalia finivano in cassa integrazione.
Fortuna vuole per la Cgil che, come afferma Landini, dei 2,7 milioni spesi in comunicazione il sindacato non paghi neanche un euro a Prandi che «lavora gratis». Cosa possibile grazie al fatto che Prandi e le sue aziende (Assist group e a catena True Italian Experience) hanno un portafoglio con clienti di prestigio.
Iscritti in calo, Caf e Patronati in ritirata
Come ha di recente ricordato Landini, la Cgil è «un'organizzazione democratica con più di cinque milioni di iscritti, senza niente da nascondere». Ebbene nel bilancio 2022, le adesioni regionali risultano in calo in undici regioni su diciannove con la perdita totale nell’anno di oltre 26.700 lavoratori (-0,5%). Ma Landini giura che nel 2023 le iscrizioni sono in recupero. Intanto Caf e patronati fanno fatica. Pur non essendo nel bilancio del sindacato, ma ad esso direttamente riconducibili, sono finanziati, in parte, dallo Stato. Offrono assistenza gratuita o a prezzi calmierati a lavoratori e pensionati iscritti al sindacato. Ed essendo a buon mercato, sono uno dei motivi per cui si sceglie di continuare a pagare la tessera sindacale. Tuttavia negli ultimi anni, causa revisione della spesa pubblica, i fondi statali per Caf e patronati sono stati tagliati sulla scia della decisione del governo Gentiloni di puntare sulla digitalizzazione dell’Inps e dell’Agenzia delle entrate. E così i Caf hanno iniziato a farsi pagare direttamente dagli utenti per alcuni dei servizi offerti.
La formazione, finanziata dalle Regioni, resta un grande affare. Esattamente come in passato. Non a caso l’ex ministro del lavoro e delle politiche sociali (governi Gentiloni-Renzi), il perito agrario Maurizio Poletti, che ha riformato il mercato del lavoro con il Jobs Act, viene proprio dal mondo della formazione sindacale. Attraverso la Regione e i suoi istituti di formazione, come Efeso in Emilia Romagna, diretto per anni da Poletti, i sindacati promuovono infatti progetti per la formazione che vengono finanziati anche da soldi pubblici. Oggi però le cose stanno cambiando per effetto delle figure professionali richieste dalla digitalizzazione e dal Pnrr. Non bastano più infatti i corsi per i tecnici specializzati, coiffeur ed estetiste. Ma serve una formazione altamente specializzata con competenze digitali avanzate e capace di effettuare progettazione e sviluppo per il rilancio del territorio.
Oltre alla formazione, ci sono poi anche altre due strade più interessanti per Landini. La prima è nello sviluppo dei fondi previdenziali e dell’assistenza sanitaria privata. Il fenomeno, soprattutto se esteso al settore pubblico, porta in dote una moltiplicazione delle poltrone a disposizione del sindacato.
C’è poi un’altra partita essenziale per tutte le grandi sigle sindacali: la definizione di una legge sulla rappresentanza nei luoghi di lavoro, come ripete in ogni occasione Landini. La norma suggerita dalla Cgil e dalle altre confederazioni main-stream deriva dagli accordi iper-corporativi da loro firmati con le maggiori associazioni padronali dal 2011 al 2014, definiti in modo da assicurare una sorta di oligopolio nelle aziende.
L’obiettivo di Landini, assieme a Cisl e Uil, è tagliare fuori soprattutto i sindacati di base e alcuni autonomi che rischiano di rubare iscritti. Un meccanismo che non ha nulla a che vedere con rappresentatività e democrazia.
L’uomo comunicazione Cgil ha fatto affari con l’Alitalia che lascia a casa i dipendenti
C’è un filo rosso che lega l’uscita di scena di circa 4.000 lavoratori ex Alitalia nel silenzio assenso delle principali sigle sindacali, le assunzioni di Ita e un contratto di comunicazione da 15 milioni con True italian experience (Tie)? E cioè una società di proprietà di un manager, Gianni Prandi, che è vicino agli ambienti politici di sinistra, ma è soprattutto un amico d’infanzia di Maurizio Landini, nonché consulente comunicazione del sindacato dopo l’uscita di scena del portavoce della Cgil, Massimo Gibelli.
Se lo domanda la Cub all’indomani della notizia dell’esistenza dell’accordo fra Ita e True italian experience, società che fa capo a Furia Rinaldi e Gianni Prandi. A destare i dubbi del sindacato di base il fatto che Ita abbia stretto un accordo con True italian experience per la promozione di pacchetti turistici per 15 milioni di euro. Alla fine dei conti la società guidata da Maurizio Rota ha incassato «solo» poco più di quattro milioni come rivela l’audit interno a Ita coordinato da Elisa Tarantola e consegnato nelle mani del cda lo scorso 21 aprile.
Una cifra considerevole anche alla luce della situazione finanziaria «Ita ha versato i 4,2 milioni di euro a Tie mentre perdeva oltre 480 milioni di euro l’anno» come evidenzia Antonio Amoroso, segretario nazionale della Cub trasporti. Abbastanza per destare i dubbi del sindacato: «È opportuno che chi cura la comunicazione di un’organizzazione sindacale stipuli lauti contratti con le stesse aziende con cui il medesimo sindacato firma accordi a perdere per i lavoratori?» si domanda Amoroso. Il riferimento neanche troppo implicito è al fatto che «25 giorni prima della stipula del contratto tra Ita e Tie, è stato firmato, da Cgil, Cisl, Uil, Ugl e AnpacAnpav, un rinnovo del Ccnl Trasporto aereo-sezione vettori, all’epoca scaduto da 4 anni, senza prevedere 1 solo euro di aumento dei minimi tabellari (alla faccia della inflazione!), prevedendo tagli del 30-40% sulle tabelle retributive delle indennità di volo, applicabili ai piloti e assistenti di volo di Ita» spiega Amoroso. Non solo: «Nel silenzio delle stesse sigle sindacali, Ita pur essendo una società pubblica, ha effettuato le “selezioni” del personale senza alcuna trasparenza e applicazione di criteri oggettivi, imbarcando a suo piacimento chi ha ritenuto opportuno, a partire, stando alle dichiarazioni giornalistiche, di gran parte delle strutture dei sindacati firmatari e dei loro iscritti» ha aggiunto il sindacalista. Tutto questo «nonostante il pronunciamento del Consiglio di Stato sui suoi obblighi di trasparenza, continua a segretare l’atto di vendita di Alitalia alla nano-compagnia», conclude. Ma andiamo per gradi.
L’11 maggio 2022 Ita organizza una conferenza stampa al Chiostro del Bramente a Roma. Presente il sindaco della capitale, Roberto Gualtieri, oltre all’allora ministro del Turismo, il leghista Massimo Garavaglia. La ragione dell’incontro con la stampa è un accordo con True italian experience. In loco si parla di una partnership senza esborso da parte della compagnia aerea, controllata interamente dal Tesoro. E cioè finanziata con soldi pubblici. Nella realtà, come mostra l’audit interno che La Verità ha potuto visionare le cose stanno diversamente.
L’intesa fra la compagnia guidata da Fabio Lazzerini e True italian experience prevede la concessione di una licenza in esclusiva di Tie in favore di Ita fino alla fine 2025. Oggetto del contratto non è solo l’acquisto dell’esclusiva da parte di Ita su Tie, ma anche l’acquisto della licenza di utilizzo della piattaforma e dei marchi, oltre ai contenuti, format, video e dati come spiegato da Tie. Come contropartita Ita stanzia 4,5 milioni fino alla fine del 2022.
Il resto, oltre 10 milioni fino al 2025. Ma poi l’accordo si chiude il 9 gennaio 2023 quando Ita comunica formalmente la volontà di recedere con efficacia dal 31 dicembre 2022. Intanto secondo le stime di Tie, 36,4 milioni di ricavi di Ita, derivanti da 106.547 passeggeri/tratta, sono direttamente collegabili all’intesa.
Il problema è che «non sono state svolte attività di benchmarking sul partner da parte di Ita e previa sottoscrizione del contratto con il partner, non è stata svolta un attività di due diligence sull’affidabilità, reputazione e solidità» come si legge nell’audit. In pratica, la scelta da parte di una società controllata al 100% dal ministero del Tesoro è avvenuta senza alcuna selezione pubblica. Il motivo? «Il partner True italian experience (Tie) si presentava come l’unico possibile per le sue caratteristiche peculiari sul mercato» come si legge nel documento. Peccato però che «Ita sembrerebbe l’unico cliente con cui Tie (controllata dalla Assist group srl che fa riferimento a Prandi) intrattiene rapporti commerciali: tale evidenza emerge dal fatto che la fatturazione verso Ita è essenzialmente consequenziale. I numeri di fattura emessi da Tie vs Ita, nell’anno 2022, sono progressivi da fattura n.1 a fattura n.16 saltando solo n.4 e n.12» come risulta dall’audit.
Secondo gli esperti il punto dolente è che c’è la possibilità di una perdita economica dovuta all’inadeguata solidità del partner nel poter erogare il servizio contrattualizzato. In particolare, un rischio finanziario a seguito della situazione societaria del partner e uno reputazionale. Non esattamente quello di cui avrebbe bisogno Ita, una società in perdita alla ricerca di un partner per il rilancio. E per la quale i tedeschi, potenziali acquirenti, di Lufthansa non hanno ancora formalizzato un’offerta.





