
L'Italia è diventata un campione europeo di venericoltura ed esporta il mollusco in tutto il mondo, anche se Bruxelles cerca di mettere i bastoni tra le ruote.Si fa presto a dire «vongola», ma quello della vongola è un vero e proprio universo. Vongola, infatti, è il nome di tutta una serie di molluschi bivalvi, circa 400, appartenenti alla amplissima famiglia dei veneridae. Quelle, però, che abitualmente finiscono nei nostri piatti e che, ancor prima, noi italiani troviamo in vendita quando dal pescivendolo o al banco del pesce fresco del supermercato cerchiamo le «vongole» (la parola deriva dal latino conchŭla, diminutivo di concha, cioè conchiglia) sono tre.Innanzitutto la Chamelea gallina o Venus gallina cioè la vongola comune: qualcuno la chiama lupino, ma il lupino è un altro genere cioè il Dosinia. La vongola comune è anche detta vongola gallina e, in alcune zone dell'Adriatico, «purassa», «poraccia», «puvraz», cioè «poveraccia» rispetto all'ostrica e alla cozza, ma anche rispetto alla seconda nostra vongola, la Venerupis decussata cioè la vongola verace. Abbiamo infine la giapponese naturalizzata italiana Venerupis philippinarum anche conosciuta come falsa vongola verace.Sono tutti e tre molluschi bivalvi, con la bella conchiglia robusta costituita da due valve uguali e dalla forma arrotondata, vivono raggruppati nei fondali sabbiosi a massimo 20 centimetri di profondità per proteggersi dai predatori, ma presentano delle importanti differenze che è utile conoscere. La vongola comune è quella più piccola e con le valve più chiare rispetto alla sorella verace, italiana fin dalle origini, e alla sorellastra verace importata dall'Asia, che sono più grandicelle e dalla conchiglia un po' più scura. La vongola comune perlopiù non viene allevata, ha un diametro che può arrivare al massimo fino a 4,5 cm, e in genere nel mar Adriatico a un anno di vita è larga tra i 12 e i 17 mm e supera i 20 al secondo o terzo anno. Rispetto a questa, la vongola verace autoctona ha conchiglia con più costolature, colore esterno bianco-grigio-giallastro con presenza di macchie e striature più scure e colore interno biancastro con eventuale macchia violacea. Può raggiungere una larghezza massima di circa 6 cm ma generalmente resta sui 3-4 cm. Si trova pescata e, assai più raramente, d'allevamento.La vongola filippina ha guscio di forma ovale e giunge fino a 8 cm di larghezza, rispetto alla verace nostrana ha forma più tonda e anche la sua colorazione è più vivace e variegata. Le vongole, come gli altri bivalvi, sono molluschi che filtrano l'acqua di mare in cui si trovano, nutrendosi delle sostanze che essa contiene tramite due appendici dette «sifoni». La vongola comune e quella verace autoctona hanno sifoni separati e perciò vengono anche chiamate «cornute». La falsa vongola verace, invece, ha i sifoni uniti, separati per qualche millimetro solo alla fine e per questo danno l'impressione di un unico, largo sifone. Che è anche più lungo: infatti i sifoni della comune sono molto corti rispetto a quelli assai più sviluppati di entrambe le veraci. La verace autoctona è l'unica vongola verace autoctona del Mediterraneo. La vongola comune e la verace nostrana sono raramente coltivate, come dicevamo, si raccolgono piuttosto su banchi naturali. Per aumentare la produzione interna ma anche esterna, cioè quella per l'esportazione, la disponibilità della comune e della verace selvatiche non sarebbero state sufficienti a coprire le richieste e, inoltre, la pesca intensiva a fini commerciali avrebbe rischiato di instradarle verso l'estinzione. Quindi, nel marzo 1983, gli operatori della pesca della Laguna di Venezia hanno importato il primo lotto di seme di verace filippina, 200.000 esemplari lunghi 3 mm poi seminati sui bassi fondali lagunari vicino a Chioggia. L'anno successivo sono stati importati un milione e mezzo di altri esemplari, estendendo l'impianto in altre zone dell'alto Adriatico. L'Italia è così diventata un campione europeo e mondiale di venericoltura: se al primo posto, come prevedibile, si trova la Cina con un milione e mezzo di tonnellate di vongole annue, al secondo posto mondiale e al primo europeo ci siamo noi, con le nostre 50.000 tonnellate.In Europa copriamo il 90% della produzione, il 6-8% è della Spagna e il restante 2% è francese. Il 70% della nostra produzione è assorbito dal mercato interno, il restante è esportato soprattutto verso il mercato europeo. Noi consumiamo soprattutto vongole fresche, il trasformato e il congelato che troviamo sui nostri banchi solitamente non è italiano. Sull'allevamento della giapponese, l'esperto di molluschi Francesco Paesanti, anche studioso delle veraci nella Sacca di Goro, in un'intervista ha spiegato i termini dell'alta produttività: «Occorre seminare animali già di taglia superiore a 15 mm in quanto altrimenti i predatori se li mangiano tutti. In genere sono necessarie due primavere per ottenere un prodotto idoneo al mercato europeo. Infatti si seminano animali dove in 1 kg ci sono mille vongoline e si raccolgono come prodotto adulto 70 vongole in 1 kg». Le vongole veraci false, quindi, sono sempre di allevamento, mentre quelle veraci autoctone, che possono costare anche il 70% in più delle prime, sono quasi sempre frutto di pesca selvatica. Il successo dell'allevamento della falsa vongola verace è stato decretato da vari fattori: si adatta bene a diverse salinità dell'acqua, ha un periodo riproduttivo che dura il doppio rispetto alla verace, resiste bene anche in un'acqua poco ossigenata e ha una crescita più rapida, perché raggiunge in due anni la misura che la verace autoctona raggiungere in tre. Se questo determina la possibilità di trovare vongole a buon mercato tutto l'anno, dall'altra parte comporta differenze anche di gusto, nella nostra triade, che è bene conoscere. Generalmente, le vongole comune e verace nostrana, non essendo allevate, sono più saporite. Non che la falsa verace non lo sia, anzi grazie all'allevamento noi troviamo sempre vongole in buona quantità e questo è positivo. Nella preferenza decisamente appassionata che molti hanno nei confronti della vongola non allevata verace nostrana forse riecheggia la primaria modalità di approvvigionamento delle vongole, cioè la raccolta manuale delle selvatiche, che spesso, le donne più che gli uomini, facevano attendendo la bassa marea. Spiega Cibo. La storia illustrata di ciò che mangiamo: «Nel XIX secolo, in Nord America le vongole iniziarono a diventare sempre più apprezzate. Sembrava che, contenendo poca sostanza commestibile, raccoglierle fosse un'impresa, eppure divennero parte della cucina locale della costa est degli Stati Uniti, con la clam chowder, e della sua cultura con la tradizione dei clambake. Altri piatti che hanno una lunga storia di raccolta locale sono gli spaghetti alle vongole in Italia, i curry del Kerala, in India meridionale, e le terrine e le zuppe giapponesi».Quando le vongole non erano allevate, anche In Italia la pesca era svolta al modo antico, con rudimentali attrezzi a mano, sorta di grandi rastrelli che oggi vengono ancora usati, per esempio, per raccogliere le telline, considerate le «cugine delle vongole». Dalla fine degli anni Sessanta si è diffuso l'uso delle «vongolare», particolari barche che setacciavano le vongole dai fondali sabbiosi tramite una gabbia di rete metallica manovrata manualmente con un'asta di legno, poi ancora, corda e verricello. Le odierne vongolare hanno draghe idrauliche turbosoffianti che penetrano nel primo strato di fondale sabbioso e prelevano i molluschi. La normativa vigente prevede che si possano pescare soltanto 400 kg di vongole al giorno per imbarcazione e che la taglia minima di pesca, la cosiddetta taglia commerciale, sia di 25 mm. A questo proposito l'Italia è stata protagonista di una querelle, insieme con la Spagna che, per ora, ci vede vincitori. È stata infatti prorogata a tutto il 2020 la deroga alla direttiva Ue del 2015 che stabiliva la taglia minima di pesca di 25 mm: nel caso delle vongole italiane Venus gallina dell'Adriatico, che non riescono a raggiungere i 25 mm, la tolleranza minima parte da 22 mm. La nostra vongola è così tutelata dalla concorrenza spagnola, molto battagliera contro la deroga: avendo vongole più grandi, diversamente da noi, la Spagna avrebbe volentieri colmato il buco rappresentato dalla mancata raccolta delle vongole italiane da 22 mm, ma per ora la manovra non è riuscita. Le vongole vanno acquistate sempre nei sacchetti interi, mai sfuse, con certificazione di provenienza e marchio Cee, e vive. Non devono mai essere consumate crude, anche se non bisogna cuocerle troppo a lungo altrimenti diventano gommose. Quando i gusci si aprono, col calore del fuoco, sono cotte: gettate via le vongole i cui gusci non si sono aperti dopo la cottura. Lavorare le vongole fresche può essere impegnativo, ma niente porta in tavola il profumo del mare come un piatto di italianissimi spaghetti alle vongole. E non è solo il profumo.Le vongole ci portano anche alcuni nutrienti del mare, essendo un alimento proteico tipicamente marino, molto ricco di vitamine e sali minerali: 100 grammi hanno soltanto 74 calorie, a fronte di ben 11 grammi di proteine, 2.5 di carboidrati e 2.5 di grassi (67 mg di colesterolo). Non devono essere consumate troppo spesso se si hanno già problemi di ipercolesterolemia, di fegato o se bisogna controllare il sodio (le vongole non vanno salate, sono già sapide per conto proprio, contenendo 1.202 mg di sodio), ma per il resto via libera.Con 628 mg di potassio, 183 mg di fosforo, 28 mg di ferro, 92 mg di calcio, 18 mg di magnesio, 0,1 mg di vitamina B6, 16 µg di vitamina A e tracce di vitamina C le vongole aiutano a mantenere la pressione sanguigna e il bilancio idrico nella norma, altresì regolando la ritmicità del cuore e l'eccitabilità neuromuscolare. Il fosforo, in particolar modo, aumenta la resistenza fisica e presenta un effetto tonico e corroborante nei confronti della fatica. Anche il potassio collabora in questo senso: coi suoi quasi 700 milligrammi, in sinergia con il magnesio, ripristina l'efficienza muscolare soprattutto durante gli stati di stanchezza o di perdita di sali minerali per via del caldo, come succede durante la stagione estiva. La vitamina A contrasta i radicali liberi e l'invecchiamento cellulare, anche di pelle, capelli e vista, e la vitamina C rafforza il sistema immunitario.
Anna Falchi (Ansa)
La conduttrice dei «Fatti vostri»: «L’ho sdoganato perché è un complimento spontaneo. Piaghe come stalking e body shaming sono ben altra cosa. Oggi c’è un perbenismo un po’ forzato e gli uomini stanno sulle difensive».
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Il capo del Consorzio, che celebra i 50 anni di attività, racconta i segreti di questo alimento, che può essere dolce o piccante.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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L’ad del gruppo Lube Fabio Giulianelli: «Se si riaprisse il mercato russo saremmo felici. Abbiamo puntato sulla pallavolo 35 anni fa: nonostante i successi della Nazionale, nel Paese mancano gli impianti. Eppure il pubblico c’è».