2021-09-13
Vivere con empatia
È la capacità di comprendere appieno lo stato d'animo altrui, che si tratti di gioia o di dolore. Presuppone apertura mentale, attitudine a coinvolgersi, volontà di porre sé stessi in secondo piano. E di mettere da parte quell'odio, personale e sociale, che soprattutto la sinistra si ostina a condannare soltanto a parole.Empatia è come resilienza e umanità, un concetto affascinante ma spesso abusato, mistificato e strumentalizzato dalla parte politica progressista. Lo scorso anno, alcune figure apicali della cabina di regia della prima fase della pandemia chiedevano agli italiani resilienza, ma loro offrivano una resistenza gestionale all'urto - questo è la resilienza - pandemico discutibile da vari punti di vista (compreso quello penale, essendoci diverse indagini in corso). L'umanità: quelli che chiedono di «restare umani» per accogliere chicchessia a frontiere spalancate chiamano «sorci» gli italiani che in assenza di obbligo vaccinale optano per non vaccinarsi e per essi invocano «il piombo», oltre all'addebito delle cure in caso di contagio e sviluppo grave della malattia. Si riduce un concetto a un'applicazione a senso unico, quello che fa comodo. È una falsificazione sgradevole qualunque sia l'area politica di appartenenza, ma per quella progressista pare proprio essere prassi. Stesso destino tocca all'empatia, altro concetto bellissimo, ma sfigurato da uso a senso unico, abuso retorico-propagandistico e strumentalizzazione progressisti. Abbiamo episodi passati come recentissimi. George Lakoff: «Dietro ogni politica progressista c'è un singolo valore morale: l'empatia». Barack Obama: «La democrazia non è un dono ricevuto dall'alto, ma si fonda sull'empatia». Enrico Letta, riferito a Giuseppe Conte ed Elly Schlein: «Siamo persone che rappresentano modalità diverse, ma che sarebbero in grado di rappresentare una forma di empatia e di stima reciproca». Leonardo Cecchi, consulente strategico Pd: «Prima la comunicazione era prettamente istituzionale, mentre oggi puntiamo parecchio sull'empatia». Ce ne siamo accorti: ma è empatia a senso unico. Pochi giorni fa Roman Pastore, candidato nella lista Azione di Carlo Calenda a Roma, è stato attaccato perché criticava il reddito di cittadinanza avendo sul polso un orologio da «30k». Pastore ha spiegato che era un ricordo del padre mancato anzitempo. troppi sofismiMa la polemica è montata in aberranti sofismi giustificazionisti. «La discussione intorno a Roman Pastore e i suoi orologi è assolutamente politica e indica la delegittimazione che subisce chi critica uno status di rivendicato privilegio. Ma l'odio di classe non può essere equiparato all'odio personale», recitava il sommario dell'articolo «I luxury boys della politica» postato sul sito Jacobin Italia con gli hashtag «classe dominante» e, soprattutto, «ghigliottina». L'autore, Christian Raimo, afferma: «Se si personalizza la questione dell'eredità familiare, questa discussione non può essere nemmeno aperta, e resta solo il rispetto per la dimensione privata. Ma se invece la poniamo sul piano pubblico ecco che una serie di temi diventano di stretta attualità: in Italia la tassa di successione è una delle più basse d'Europa e questa non è un'ingiustizia?». Infine: «Roman Pastore è giovane e può decidere cosa fare: difendere le proprie idee e il proprio status, oppure fare politica per una società più equa, in cui se vuole sapere l'ora può guardare il cellulare». Ma o l'odio è esecrabile sempre, quindi un odio di classe è condannabile tanto quanto quello personale, oppure non lo è mai. Questi sdoganatori dell'odio di classe ai danni del povero Pastore, violentemente usato come feticcio di fantomatico privilegio, sono gli stessi che rubricano come odio ogni critica all'ideologia progressista, agendo, in quel caso, da verginelle sconvolte dal malvagio sentimento. Non si può affermare che l'odio del povero verso il ricco sia giusto, né dimenticare che non meno importante della «giustizia sociale», concetto che ogni parte politica declina diversamente, è la pace sociale. Scriveva il poeta Elio Pagliarani, nel poemetto La ragazza Carla: «Non c'è risoluzione nel conflitto / storia esistenza fuori dell'amare / altri, anche se amore importi amare / lacrime». Un modo per evitare che una controversia sfoci in conflitto (magari armato) è l'applicazione corretta dell'empatia. Non a senso unico, solo da me verso te o da te verso me, ma a doppio senso, da te verso me e viceversa. Secondo i cattivi maestrini di cui sopra chi non è «antifa» a modo loro andrebbe rieducato, ma la verità è che loro andrebbero mandati a ripetizioni di empatia vera. Nel libro Sentire l'altro, la filosofa Laura Boella spiega che bisogna «restituire all'empatia la sua complessità e specificità di atto che sta alla base delle svariate forme del nostro entrare in relazione con gli altri». Secondo la Boella, «numerosi problemi della società contemporanea - dalla convivenza multietnica alla profonda modificazione subita dal rapporto di donne e uomini con il corpo, la sessualità, la salute e la malattia in seguito ai progressi della ricerca scientifica e delle biotecnologie - mettono all'ordine del giorno la riattivazione di una sfera complessiva di esperienza, quella del sentire l'altro, nelle sue molteplici possibilità di creazione e di invenzione di sentimenti autentici, di modi di essere e di vivere come l'amicizia, l'amore, l'aiuto, il rispetto, la fiducia, la cura, l'ammirazione». Per l'ex insegnante di filosofia morale alla Statale di Milano, viviamo in una società che confonde l'empatia con la simpatia o la compassione oppure la relega a «teoria della mente» che riguarda solo le operazioni cognitive tramite cui capiamo le intenzioni dell'altro, con la conseguenza di una separazione netta tra la sfera naturale-organica e l'esperienza morale del condividere le sofferenze dell'altro e, in mezzo, indifferenza e chiusura su di sé dell'uomo e della donna contemporanei o il miracolo di rapporti unici e rari, come l'amore, che si stabiliscono nel faccia a faccia tra due persone e che, spesso, danno vita a mondi separati da quello reale. condividere ansieSi tratta, invece, di sentire gli altri, tutti devono sentire tutti gli altri, e di sentirli non come conseguenza del nostro vivere in un contesto sociale, ma con il presupposto del desiderio di condividere con gli altri. È un'impostazione mentale: «Io “so" del dolore, della gioia, delle ansie dell'altro, dell'altra e ciò non significa l'acquisizione di chissà quale sapere sulle sue condizioni, il suo stato d'animo, la sua storia, bensì che riconosco e accolgo nella sua interezza la persona dell'altro, dell'altra», ossia «non mi avvicino al dolore fuori di me mediante un atto intellettuale, attraverso la rappresentazione (“capisco...") o la riproduzione di un dolore da me precedentemente vissuto. Tale “sapere" è falso, immaginario, è restare presso di sé, parlare di sé, non aprirsi ad altro. Io incontro il dolore e nel luogo in cui è al suo posto, presso l'altro, l'altra che lo prova». Naturalmente, non si deve sentire solo il dolore altrui, ma tutto. L'empatia, prosegue in ogni caso Boella, non è una «conoscenza più o meno congetturale del vissuto altrui» ma «acquisizione emotiva della realtà del sentire altrui». Si tratta cioè del perfetto contrario di quanto fatto al giovane Pastore, usato come lavagna umana di congetture ripugnanti, ma, ripetiamo, a sinistra è consuetudine. L'editore Terre di mezzo qualche giorno fa pubblicizzava su Facebook la partecipazione di Cecilia Strada al romanzo-evento on line Il grande trasloco, iniziato a marzo con termine a ottobre, con queste parole: «È più semplice odiare che darsi da fare». Abbiamo già visto come l'accusa dei professionisti dell'accoglienza a chi li critica è che siano odiatori di immigrati. Non lo sono e casomai la stessa massima può essere applicata all'odio di classe che davvero gli accoglientisti provano, salvando solo la ricchezza accumulata con il no profit nel quale sono maestri: «È più facile odiare i ricchi che darsi da fare per diventarlo». Questo continuo millantare di agire in nome degli «ultimi» aizzandoli contro chiunque abbia qualcosa di più è la negazione stessa dell'empatia. Perfino nelle tesi di Jean Jacques Rousseau, che teorizzò un mastodonte collettivo come la volontà generale, e per essa non intendeva il dominio di una minoranza sulla maggioranza come spesso si pretende a sinistra, nemmeno quello della maggioranza, ma addirittura l'accordo unanime del popolo, quindi il massimo dell'utopia politica, è contemplata la reciprocità: «Quando ciascuno pretende di essere felice soltanto per sé stesso, non vi può essere alcuna felicità per la patria». Può valere per il ricco, ma anche per il povero che vorrebbe strappare al ricco tutto ciò che ha. Nonostante il fatto che la società ideale di Rousseau appaia molto simile a un regime comunista («lo stato sociale è vantaggioso per gli uomini solo a condizione che essi abbiano tutti qualcosa, e che nessuno di loro abbia niente di troppo»), la rinuncia alla pretesa personalistica in Rousseau non vale solo per i ricchi, com'è nelle tesi dei comunisti contemporanei nostrani, ma per tutti: «Ciascuno di noi mette in comune la propria persona e ogni proprio potere sotto la suprema direzione della volontà generale». Ciascuno, non solo una parte della società. Perché il sentimento (o se volete delirio) comunitario, nel sogno di Rousseau, è talmente forte che, facendo ciascuno il bene dell'altro, ciascuno farebbe il suo bene. dimenticare rousseauOggi più che mai è fondamentale che si smetta di millantare empatia strumentale in una sola direzione e si riscopra l'empatia vera. Non siamo i soli critici di questo approccio. Paul Bloom, professore di psicologia e scienze cognitive alla Yale University, nel bel libro Contro l'empatia. Una difesa della razionalità invita a riflettere sul fatto che può e deve esistere un'empatia razionale e definisce l'empatia irrazionale una «guida morale scadente. È come una bibita dolce e gassata: invitante, deliziosa, dannosa. Getta le basi per giudizi insensati e spesso genera motivazioni che ci spingono a crudeltà e indifferenza. Può condurre a decisioni politiche irrazionali e ingiuste, può corrodere relazioni importanti e renderci peggiori come amici, genitori, mariti e mogli». Vivere in società con più empatia - empatia vera, ossia reciproca - vuol dire anche togliere terreno al «divide et impera» che trova nei raggruppamenti di singoli che lottano tra di loro la frammentazione di quello che Rousseau chiamava corpo politico e che oggi chiameremmo popolo. Anche per questo motivo dovremmo riscoprire ed esercitare un'empatia avulsa dal campo politico e ricollocata laddove deve stare, nel cuore di ciascun singolo essere umano nella relazione con l'altro, senza cornacchie progressiste intorno a dirci - mentendo spudoratamente - cosa l'empatia sarebbe e verso chi, soltanto, andrebbe esercitata.