2021-08-05
Viva il patriottismo ma solo in salotto. Se punta alle urne allora è fascismo
L'unica forma concessa di amore per la nazione è il tifo sportivo. Chi, come Giorgia Meloni, valorizza le radici in politica viene linciato Che splendido sventolare di Tricolori, e che elettrica fibrillazione attraversa le folle quando gli atleti italiani levano le mani al cielo per accogliere la vittoria. In questi giorni è ovunque un infiammarsi patriottico per i grandi successi dell'Italia, guadagnati agli Europei, alle Olimpiadi e altrove. Il merito è dei nostri sportivi, ovviamente, alcuni dei quali si stagliano come monumenti alla fatica e alla dedizione. Ma, immancabilmente, c'è chi vagheggia un «rinascimento italiano» la cui genesi sarebbe da attribuirsi a Mario Draghi e al suo governo. Insomma, a sostegno dei «migliori» al potere si rispolvera persino il buon vecchio patriottismo. È senz'altro cosa buona esultare per i trionfi calcistici o ginnici. La nazione, in fondo, si nutre anche di emozioni. Come scrisse Federico Chabod: «La nazione è, innanzitutto, anima, spirito, e soltanto assai in subordine materia corporea». Al solito, però, emerge una lampante contraddizione. Finché il patriottismo si esercita seduti in poltrona, o al bar con la bandiera sulle spalle e la bottiglia da 66 in pugno, non soltanto è ammesso, ma è pure incentivato (almeno finché non diventa manifestazione di piazza: in quel caso scatta la reprimenda sanitaria). Si è scoperto, insomma, che il nazionalismo da diretta tv è uno strumento utile a rafforzare l'autorità e a colorare l'immagine dell'esecutivo. Chiaro: parliamo sempre di un amor patrio annacquato. Per rendere presentabile la bandiera in società, infatti, tocca prima sciacquarla nel fiume multiculturale: bisogna elogiare la nazionale ricca di «etnie diverse», oppure concentrarsi sull'esaltazione della potenza femminile, o ancora mettere in luce l'appartenenza alla minoranza arcobaleno di questo e quell'atleta. Compiuto il lavaggio, si può riprendere con la fanfara. Il problema vero nasce quando il patriottismo diviene centrale nell'azione politica, cioè quando avanzano partiti o movimenti che mettono la difesa dell'Italia tra i principali obiettivi. In questo caso scatta immediata la reprimenda. Poiché il patriottismo è uscito dal salotto, si è riversato nelle strade e pure - non sia mai! - nella pubblica arena, diviene pericoloso, e lesta arriva la macilenta accusa: «Fascista!». Chi si azzarda a parlare di difesa degli interessi nazionali è prontamente ricacciato nella surreale categoria della «estrema destra», laddove «l'estremismo» consiste nella lontananza dai valori progressisti. In sostanza: la destra non addomesticata dalla sinistra è definita «estrema», cioè «postfascista», come ha scritto un paio di giorni fa il britannico Guardian in riferimento a Fratelli d'Italia. Curioso aggettivo anche questo: tanto varrebbe, allora, definire «postfascista» persino l'Ente nazionale protezione animali, dato che fu creato sotto il fascio. Funziona sempre così: chi evoca la nazione è guardato con sospetto o con odio. Giorgia Meloni, che sul patriottismo insiste non poco, ne sa qualcosa. Su Domani, Emanuele Felice (ex responsabile economico del Pd) le ha dedicato un articolo feroce, accusandola di predicare un «patriottismo acritico e cieco, che forse sarebbe più corretto chiamare sciovinismo». Secondo Felice, la Meloni avrebbe idee «di una destra così radicale e forte come nell'Italia democratica non l'avevamo vista mai». Tali idee sarebbe le stesse che ci hanno «condotti dritti ad alcune delle peggiori tragedie europee del Novecento». In realtà, ciò che ha condotto alle tragedie novecentesche non è il «nazionalismo» o il «patriottismo», bensì l'imperialismo, come ha ben chiarito l'autorevole studioso israeliano Yoram Hazony. Felice si qualifica dunque come il tipico intellettuale progressista: esalta l'illuminismo a capocchia (dimenticando il nazionalismo di Herder, che dall'illuminismo proveniva) e, pur di negare l'origine cristiana della civiltà europea, incensa la «tolleranza dell'islam» (che si risolveva nel considerare ebrei e cristiani cittadini di serie B, come ha mostrato Bernard Lewis). Secondo Felice, «la patria italiana» può esistere solo se si fonde «con quella europea». Viene voglia di rispondere con ciò che Vincenzo Cuoco (straordinario intellettuale che prese parte alla Repubblica di Napoli) scriveva già nel 1806: «Che vale rammentar oggi agl'italiani che essi furono una volta virtuosi, potenti, felici? Oggi non lo sono più. Che vale rammentar loro che furono un giorno gl'inventori di quasi tutte le cognizioni che adornano lo spirito umano? Oggi è gloria chiamarsi discepoli degli stranieri». Nella sua furia iconoclasta, l'editorialista di Domani arriva persino a insultare l'immenso Roger Scruton, accusandolo di esser stato un estremista prezzolato dalle multinazionali del tabacco. Ovvio: Felice non ha mai sfogliato un libro di Scruton, altrimenti saprebbe che egli era piuttosto critico riguardo al nazionalismo. Il fatto è che gli ossessionati dal fascismo di ritorno non hanno la minima idea di che cosa sia il patriottismo, per questo lo confinano al tifo sportivo. La patria è la terra dei padri: principio maschile e verticale ma anche femminile e orizzontale (madre patria). Cicerone (e non Himmler) diceva che la patria va amata come e più dei genitori. Questo amore è gratitudine per il dono ricevuto, lo stesso dono su cui si fonda la comunità (lo svela la parola latina munus, dono). A noi spetta di conservare il dono e trasmetterlo a chi verrà dopo. Il patriottismo, dunque, è dono, gratuità. Infatti i cantori dell'ordine economico, che riducono tutto a profitto, lo osteggiano. Salvo poi riproporlo sotto forma di caricatura quando non hanno altro a cui appigliarsi.
Jose Mourinho (Getty Images)