2024-02-22
Dai nudisti a Guénon. La vita avventurosa del «mago» Evola (che non era barone)
Julius Evola fotografato da Stanislao Nievo (Fondazione Evola)
Esce la prima, monumentale, biografia del pensatore romano. Contraddizioni, litigi, illuminazioni di un grande del Novecento.Il «barone Giulio Cesare Andrea Evola» esce dalla mitologia ed entra nella storia. E qui scopriamo, tanto per iniziare, che quell’«Andrea» all’anagrafe non c’è e che il titolo nobiliare era inventato. La pubblicazione di Vita avventurosa di Julius Evola da parte di Andrea Scarabelli (Bietti), segna uno spartiacque ineludibile nell’ambito degli studi sul pensatore tradizionalista. Ai quali è sinora mancato sotto ai piedi un fondale sicuro relativo alla parabola biografica evoliana. Sembra incredibile, visto l’alto numero di saggi consacrati a Evola ogni anno nelle principali lingue europee, ma fino a oggi nessuno si era mai preso la briga di ricostruire la vita del filosofo. L’unica bussola disponibile era sin qui Il cammino del cinabro, in cui Evola aveva inquadrato tutte le sue opere in uno scarno contesto biografico. Si trattava, tuttavia, di un’autointerpretazione o, come dice Scarabelli, di «una poderosa riscrittura della sua vita precedente». Grazie alla titanica operazione di Scarabelli - il volume consta di 737 pagine ed è il frutto di anni di ricerche negli archivi di mezza Italia e non solo - ora possiamo finalmente raccontare la vita di Evola non per quella che quest’ultimo ha voluto tramandare, ma per quella che realmente è stata, senza tacerne gli aspetti controversi, ma anche scoprendo episodi, frequentazioni, illuminazioni di cui non sospettavamo nulla. Evola viene ora sottratto agli iperurani astorici, quasi fosse stato una specie di dittafono degli dèi, per venire ricollocato pienamente nella sua epoca e nelle contraddizioni del suo tempo. Ne emerge, spiega Scarabelli, «l’iter di un pensiero complesso, fatto - come ogni pensiero che può dirsi tale - di strappi e ripensamenti, prodotti da continui inabissamenti nella Storia. Qui, non c’è “atemporalità” che tenga».Dei dettagli biografici, suoi e altrui, l’autore di Cavalcare la tigre in realtà se ne fregava (ed è il motivo per cui, nella prefazione, l’autore può scrivere che il suo è «un libro che forse Evola non avrebbe apprezzato»). Non solo parlò pochissimo della sua vita, ma condusse un’esistenza interamente votata alla propria missione spirituale, senza nulla concedere ai rapporti umani, troppo umani. A un attivismo metapolitico sfrenato e sempre lucidissimo corrispose una condotta personale e privata a dir poco glaciale, una determinazione a concentrarsi solo sul proprio scopo che ha davvero pochi eguali. Nella sua biografia compaiono interlocutori intellettuali, maestri, discepoli, mecenati, nemici, svariate amanti, ma nessun rapporto veramente spontaneo, alcuna forma di calore umano. Non esistono fidanzate stabili e solo rare frequentazioni hanno il privilegio di diventare quelle che Nietzsche chiamava «amicizie stellari», alate e distanti. I parenti di sangue sono come fantasmi: se la mamma Concetta e il fratello Giuseppe Ettore compaiono di tanto in tanto sullo sfondo, il padre Vincenzo non appare letteralmente mai, come se non fosse mai esistito.Non mancano, in compenso, episodi divertenti o misteriosi che Scarabelli è andato a scovare. Tra gli altri, non possiamo non menzionare una non troppo entusiasmante visita alla colonia nudista di Heliopolis, fondata nel 1931 sull’Île du Levant, e il messaggio in codice che, in piena guerra, comparve su Times News, un giornale locale dell’Idaho, stampato nella minuscola cittadina di Twin Falls, in cui si faceva un’allusione chiaramente allegorica alle disavventure del «barista Julius Evola» che vendeva «birra contraffatta», informazione criptata scritta da chissà chi e indirizzata a chissà chi. E la storia del barone? Una beffa dadaista, all’inizio. Poi, dato che il titolo gli aprì le porte di alcuni circoli tedeschi, assecondò la diceria. «Se mio figlio è barone, io sarò baronessa», ironizzerà la signora Concetta. In termini meno aneddotici, Scarabelli coglie l’occasione per dilungarsi anche sugli aspetti più discussi della vita di Evola, quelli relativi alla sua adesione al fascismo e alla sua partecipazione alla campagna razziale. Al Regime il pensatore aderì tardivamente, dopo aver flirtato con ambienti antifascisti, e al suo interno portò avanti quella che Scarabelli ha definito «una scalata in solitaria verso un’egemonia culturale impossibile da raggiungere», tessendo comunque la sua rete di contatti e protezioni. Per quanto riguarda il razzismo, aveva ragione De Felice a sottolineare come, in mezzo a tanti esagitati che avevano scoperto il tema nel 1938, almeno Evola aveva coerenza intellettuale e conoscenza diretta dell’argomento. La sua dottrina razziale mirava più al tipo umano da creare che a quello da combattere e di sicuro, precisa il biografo, «non prescrive alcuna pulizia etnica, ma ha come fulcro comportamenti e inclinazioni individuali, sentimenti e atteggiamenti». Ciò non toglie che, nel suo attivismo sull’argomento, spesso Evola «soccombe ai pregiudizi del proprio tempo», finendo per vergare «alcune pagine giornalistiche che è impossibile sottoscrivere oggi».Tornando alla sua parabola biografica più ampia, va detto che, riportato sulla terra, Evola è anche ricondotto alle sue contraddizioni: annuncia pubblicamente il suo imminente suicidio, salvo poi dichiarare che di morte «metafisica» si trattava; si proclama autarca, ma vive in casa con la madre fino alla morte di quest’ultima; elogia l’impersonalità attiva, ma si attribuisce titoli nobiliari che non ha; professa l’intransigenza etica, ma nei tribunali chiede il confino per gli avversari intellettuali; canta la mistica guerriera, ma esce malconcio da un paio di regolamenti di conti stradaioli. Se l’uomo Evola era meno adamantino di quel che i suoi apologeti pensano, lo scrittore, in compenso, esce dal libro come una figura ben più rilevante di quanto non sospettino i suoi critici. Anzi: l’uscita dal mito ci consegna un pensatore ben più complesso e interessante di quanto non ci dica l’immaginetta oleografica dei devoti. Troviamo dunque un Evola che frequenta Moravia, è in contatto con Croce, influenza Eliade, Schmitt, Jünger, Heidegger, affascina Fellini e Calvino. Tra gli interlocutori privilegiati c’è sicuramente il francese René Guénon, il cui impatto su Evola deve ancora essere valutato a pieno dalla critica. Impatto che a parere di chi scrive non fu certamente positivo. Per dirla con una battuta: Guénon è stato lo Yoko Ono di Evola. E, vista l’influenza della musa di John Lennon sui Beatles, non è esattamente un complimento.I due, all’inizio, non si capirono. Il francese aveva uno spirito cartesiano, per lui la tradizione era un’equazione. Non sopportava l’eclettismo di Evola, la sua passione per la politica, l’originalità delle sue sintesi, il suo passare da un piano all’altro. Scrive Scarabelli: «Per semplificare, da un lato abbiamo Guénon, l’Oriente e la metafisica; dall’altro Evola, l’Occidente e la magia». Nel giro tradizionalista, del resto, Evola era l’unico che veniva dalle avanguardie artistiche e dalla filosofia. Gli altri, animati quasi sempre da un vago spirito settario, ne ammiravano le intuizioni, ma restavano circospetti circa le sue esuberanze, personali e speculative. Di fatto, chi aveva capito meglio Evola era il sodale Massimo Scaligero, secondo cui il filosofo romano «sembra proporre un ritorno alla Tradizione, ma in realtà egli vuole qualcosa che non è la Tradizione, anzi è positivamente contro. E questo è ciò che può riconoscersi importante in Evola». Quest’ultimo «conosce ed entra in un testo, quello tradizionale, ma si esprime compiutamente solo quando ne esce e improvvisa». L’importanza culturale di Evola non sta nell’essere stato l’ennesimo esponente di una corrente culturale marginale e un po’ pretenziosa come il tradizionalismo, ma nell’averlo attraversato, portandovi dentro elementi eterogenei e traendo da esso riflessioni che vanno oltre ogni scolastica. Questa vitalità ermeneutica, che fa della tradizione un concetto mai dato, non un presupposto ma una conquista, non una spiegazione ma una sfida, verrà un po’ meno quando i rapporti con Guénon si pacificheranno ed Evola finirà per assumerne le categorie filosofiche di fondo. Dopodiché, la tradizione si irrigidirà in un canone schematico, alla cui luce giudicare con la penna rossa uomini, libri, epoche e regimi.In questa seconda fase, come ha notato il filosofo Romano Gasparotti, «la stessa scrittura evoliana tenderà a diventare sempre più fredda, quasi asettica e addirittura, in certi casi, accademico-professorale, oppure, in altri casi, superficialmente polemica e provocatoria, smarrendo, in ogni caso, il nitore cristallino e l’equilibrio “danzante” dimostrati nelle opere del periodo “filosofico”». Resta comunque, sia prima che dopo la conversione guénoniana, un pensatore da leggere. Non da divinizzare, né da maledire, bensì da studiare come ogni grande protagonista del pensiero europeo del Novecento.
Francesco Nicodemo (Imagoeconomica)
(Ansa)
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