2024-02-12
Virgilio Ilari: «Riallacceremo i legami con la Russia»
Lo storico: «Se non vogliono intervenire direttamente nel conflitto in Ucraina, gli Stati Uniti dovranno trattare con Putin scavalcando Zelensky. L’Europa è impotente, attende il fato. Sbaglia chi minimizza il piano Mattei».Virgilio Ilari, nato a Roma nel 1948, è uno storico, già docente di Diritto romano all’Università La Sapienza e poi di Storia delle istituzioni militari all’Università Cattolica di Milano, e presidente della Società italiana di storia militare, tra i maggiori esperti della materia. Come valuta l’iniziativa italiana del piano Mattei?«Va sicuramente collegato con le iniziative che hanno intrapreso anche gli Stati Uniti, in particolare dal 2021 e poi dal 2022 soprattutto, quando Joe Biden si è reso conto che l’Africa era totalmente in mano cinese e russa e, come i fatti dell’anno scorso hanno dimostrato, che l’Europa non era in grado, in particolare la Francia, di mantenere l’influenza in Africa, e che bisognava avere un rapporto diverso, basato non tanto sui muscoli e sugli interventi militari, ma su quelli di tipo economico».Il piano Mattei dunque può essere un primo passo per contrastare l’espansionismo politico ed economico di Russia e Cina nel continente?«Da solo non è sufficiente, ma è un modo di essere presenti. Minimizzare la sua portata è sbagliato. Dichiarare, come ho sentito in tv, che il piano è inesistente, è più una posizione politica di principio che un’analisi. In un momento in cui l’Italia non è un Paese totalmente sovrano, il piano Mattei è una strategia saggia. Che poi possa produrre risultati stratosferici, non credo che qualcuno se lo aspetti. Ma è un modo di battere un colpo». Cosa intende con «Paese non totalmente sovrano»?«Dal 1993 abbiamo rinunciato alla sovranità. L’abbiamo delegata alle istituzioni internazionali: l’Unione europea e la Nato. Non possiamo avere una politica del tutto autonoma. Abbiamo cercato di farlo, finché ci è stato consentito. Poi dopo, ovviamente, arrivano gli altolà...».Dato il contesto africano, all’Unione europea e alla stessa Italia converrebbe dotarsi di compagnie militari private onde evitare che colpi di Stato, finanziati da Paesi terzi, vanifichino gli investimenti? «Non ci sono le forze, non ci sono le capacità, anche militarmente. L’Occidente è a terra in questo momento, si è visto che non è in grado di fare nulla di veramente significativo, perché ha costruito delle forze che non sono capaci di gestire una guerra continentale. Ed è inoltre tutto da dimostrare che ci sia anche la volontà politica e sociale. In Africa bisogna vedersela con criminalità organizzata, milizie, Stati debolissimi sottoposti a grandi pressioni. Noi abbiamo anche un certo grado di responsabilità, se le cose sono così. Per il momento, mi sembra che il massimo che possiamo fare è mantenere comunque dei rapporti diplomatici e di cooperazione. D’altra parte, se un governo vuole avere rapporti con questi Paesi, deve pure fare degli accordi di sviluppo. Anche dal punto di vista degli investimenti industriali il piano non è irrilevante per noi, visto che si stanno chiudendo tutta una serie di possibilità altrove».Che sviluppi possiamo aspettarci dal conflitto in Ucraina?«Non c’è nessuna possibilità di uscirne se non togliendo al governo ucraino la responsabilità della guerra e quindi lasciare che la trattativa di pace si svolga direttamente tra Washington e Mosca. Oppure fare la guerra e quindi intervenire attivamente nel conflitto. Non c’è altra alternativa a queste due opzioni». Come si spiega il fallimento della controffensiva ucraina?«Chiaramente siamo partiti con l’idea di fare un po’ di male alla Russia per ridimensionarla, approfittando dell’errore compiuto dai russi con l’invasione. E poi le cose sono andate in un modo completamente differente. La reazione occidentale è stata quella di rendersi conto gradualmente che il nostro sistema militare non era in grado di sostenere il ritmo di produzione della forza che un sistema autoritario come quello russo o anche come quello cinese o nordcoreano, può avere attraverso la mobilitazione industriale. Cosa che noi non siamo in grado di fare, perché la nostra struttura è completamente diversa. Abbiamo fatto una scommessa sulla pelle degli ucraini. Gli abbiamo dato i mezzi per farsi male, però non quelli per vincere. Inoltre, non siamo in grado di fornire il sostegno logistico. E questo è il punto fondamentale. Ora l’Ucraina è un Paese sostanzialmente distrutto, con la popolazione dimezzata, impoverita. È una situazione precaria, senza futuro. Partita con l’idea della riconquista e adesso con la prospettiva, come è probabile in fin dei conti, perché alla fine conviene pure ai russi, di stabilizzare una situazione sul fronte attuale, più o meno».Con la probabile vittoria dei repubblicani negli Stati Uniti, però, si avvicina la fine della guerra. O è una previsione troppo ottimista?«In America, di solito, non si vota sulle guerre, si vota su problemi di politica interna. Però questa volta la guerra in Ucraina sta diventando un tema importante nella campagna elettorale. Molti repubblicani sostengono che questo è il conflitto dei democratici, non quello degli Stati Uniti. Poi tanti americani sulla questione esagerano, parlano di “guerra civile”, ma ovviamente non è così. Ma c’è una divisione molto profonda tra gli statunitensi. Che non c’è in Europa, poiché qui c’è scollamento tra i governi e l’opinione pubblica, che si disinteressa completamente ormai di tutto ciò che non riguarda le cose immediate, che è rassegnata. I governi dell’Europa continentale sono in attesa del fato, perché non sono in grado di intervenire, nessuno è realmente in grado di fare qualche cosa di significativo sulla guerra in Ucraina. E quindi aspettano le decisioni che verranno prese dal popolo americano a novembre».Archiviata la guerra sarà possibile un riavvicinamento tra Russia e Occidente? «Ma certo, non è che uno può segare i continenti e farli diventare delle isole. Si può silurare il Nord Stream, ma l’asse russo-tedesco è un asse geopolitico fortissimo, sono tre secoli che esiste. Si sono fatti la guerra reciprocamente, due volte, ma l’asse tornerà solido, è nell’interesse di questi due Paesi. Anche se temporaneamente ci possono essere isterismi da una parte e dall’altra».Quali prospettive, invece, per il Medio oriente?«Tutti quanti cercano di contenere la guerra il più possibile. Tranne ovviamente i falchi, ma mi sembra tutto sommato che per il momento non prevalgano. Perché nessuno vuole farsi ulteriore male, cioè attaccare l’Iran e finire in un altro pantano dopo quello ucraino. Anche Israele si trova in una situazione difficile, perché questa intransigenza alla lunga non paga. È un momento eroico per loro, ma è anche un momento in cui stanno consumando molto del credito e del sostegno internazionale di cui hanno sempre goduto. E questo alla fine non credo che giovi veramente all’interesse di Israele. Non sono valutazioni moralistiche, ma di tipo realistico».Come si spiega la falla nella sicurezza che ha reso possibile l’attacco del 7 ottobre?«Ho letto tante cose, ma nessuna mi convince di una tesi piuttosto che di un’altra. Quello che sembra di capire è che Hamas era stato considerato un elemento di stabilizzazione da parte del governo israeliano, soprattutto da Netanyahu, perché indeboliva l’Autorità nazionale palestinese. L’attacco è stato una sorpresa anche di carattere politico. Sul piano militare, ha influito anche il senso di sicurezza che gli israeliani avevano, anche alla luce degli accordi di Abramo, nella convinzione di aver superato la questione palestinese».È ancora possibile la soluzione dei due Stati, sempre che lo sia mai stata?«No, non è possibile. Ormai il processo è andato troppo avanti. Però non si può ignorare il fatto che la popolazione di Israele è composta da 14 milioni di persone di cui solo la metà sono israeliani. E tutti gli altri dovranno essere in qualche modo garantiti da un sistema di doppia cittadinanza, di doppi diritti, che peserà su Israele, perennemente a rischio di ribellioni e insurrezioni. Ma questo è il prodotto non soltanto della volontà di Netanyahu, ma della storia di questi 80 anni. Perché ci sono anche le responsabilità palestinesi nell’essere arrivati a rendere impossibile la soluzione dei due Stati, che non è mai stata perseguita convintamente a livello internazionale. La questione palestinese, nella prospettiva dei Paesi arabi era chiusa. Se ci sono Paesi che non si sono mai occupati realmente dei palestinesi, questi sono i Paesi arabi. Questo è noto».L’ipotesi dei due Stati dunque è un escamotage diplomatico?«Sì, credo che sia una foglia di fico che viene messa per cercare di non decidere nulla per il momento, di tirarsi fuori dall’impaccio. È una recita, è una professione di fede, ma non è una realtà. È un’ipotesi assolutamente utopica».
«Haunted Hotel» (Netflix)
Dal creatore di Rick & Morty arriva su Netflix Haunted Hotel, disponibile dal 19 settembre. La serie racconta le vicende della famiglia Freeling tra legami familiari, fantasmi e mostri, unendo commedia e horror in un’animazione pensata per adulti.