2023-04-22
La bottiglia giusta è quella con quattro «T»
Terra, territorio, tradizione e tipicità in base ai teoremi di affinità e di regionalità. Ma quel che più conta è l’armonia: perché con un grande piatto e un immenso vino si può arrivare a uno scontro frontale. Anche se certe volte la teoria degli opposti...Una volta fu chiesto ad Alexandre Dumas, il papà dei Tre moschettieri e del Conte di Montecristo, se bere vino era un atto volgare o artistico. Il romanziere francese, più Porthos che D’Artagnan, uomo dei tre piaceri (della cantina, della tavola e dell’alcova), rispose da raffinato e autocompiaciuto intenditore: «Per un assetato è un atto volgare, per un gourmet è un atto artistico». E per non lasciar dubbi sul suo eno-pensiero in altra occasione precisò: «Il vino è la parte intellettuale di un pranzo, la carne e i legumi non sono che la parte materiale». Esaltando il vino Dumas non intendeva svilire il cibo. Tra un romanzo di cappa e spada e l’altro raccolse quasi tremila ricette che uscirono postume, con un piacevole contorno di aneddoti su personaggi famosi, nel Grande dizionario di cucina. Il romanziere sapeva bene che l’atto artistico si compie anche a tavola: per un famelico mangiare è abbuffarsi, per un gourmet è arte.Il piacere che dà un vino e quello che regala un piatto percorrono strade organolettiche convergenti: entrambe arrivano in bocca, al traguardo del gusto, ma prima devono passare all’esame della vista e a quello dell’olfatto. Quando si abbina il vino giusto col giusto cibo (o viceversa) il pasto diventa gioia. La stessa che provarono gli invitati alle nozze di Cana. Quando ad un certo punto del banchetto nuziale mancò il vino, uno dei commensali, tale Gesù di Nazaret invitato con la mamma e un drappello di amici, salvò la festa trasformando l’acqua di sei giare in vino. E non un vino qualsiasi, ma un nettare che esaltò i semplici piatti di quelle nozze in Galilea. Papa Francesco, vicario in terra di quel divino fabbricante di vino, ha rammentato l’episodio qualche anno fa a un gruppo di fidanzati che si preparavano al matrimonio cristiano: «Ricordate il miracolo delle nozze di Cana? A un certo punto il vino viene a mancare e la festa sembra rovinata. Immaginate di finire la festa bevendo tè. No, non va. Senza vino non c’è festa».Alcune associazioni professionali di sommelier organizzano corsi per conoscere il vino ed abbinarlo ai piatti: l’Ais, Associazione italiana sommelier, la Fisar, Federazione italiana sommelier albergatori ristoratori, l’Onav, Organizzazione nazionale assaggiatori vino, ed altre. Sono d’aiuto anche ottimi libri, ricchi di esempi pratici, che suggeriscono come favorire il miglior abbinamento tra vino e piatto, quali vini accostare alle paste e ai risotti (in base ai ragù, pasta e riso sono neutri), quali sposare col pollame, con le carni rosse, i dolci e i formaggi. Citarne uno si fa torto a mille, limitiamoci a qualche classico dell’enogastroletteratura: O. P. Ossia il vero bevitore e Il ghiottone errante di Paolo Monelli, Vini d’Italia di Mario Soldati; Oste della malora di Luigi Volpicelli; Osteria di Hans Barth; La pacciada di Gianni Brera e Luigi Veronelli.Non occorre essere dei sommelier per imparare alcuni principi di base. Il primo è l’armonia. Il buon cibo e il buon vino diventano musica per il palato quando c’è consonanza tra loro, quando suonano lo stesso spartito. È la stessa cosa che avviene in un coro: le voci sono diverse, soprani, tenori, baritoni, ma se il maestro le amalgama, se c’è armonia tra tutti, il risultato è esaltante sia che si canti l’Halleluja di Haendel o La Montanara di Toni Ortelli armonizzata a quattro voci da Luigi Pigarelli. E così è per l’orchestra: il flauto gorgheggia, il timpano tuona, il violino trilla, il contrabbasso brontola e l’arpa arpeggia, ma se tutti i professori seguono la bacchetta del direttore - sia che diriga la Quinta di Beethoven che l’Uccello di fuoco di Stravinsky o il Flic e Floc dei bersaglieri o Grande, grande grande di Mina -, il risultato è unico, armonico, meraviglioso.Attenzione, però. Non sempre due più due fanno quattro. Un violino Stradivari dal suono divino e un sontuoso pianoforte a coda Steinway non producono armonia se suonano due cose diverse. Si disturbano l’un l’altro. E così succede in tavola: sposare una pietanza squisita e un vino superbo non dà automaticamente una coppia perfetta. Se il piatto è delicato e il vino tutto muscoli è come mettere una suorina di clausura che profuma d’incenso insieme con Dwayne Johnson che odora di palestra e canfora. Ricordate come finì la storia tra il campione del mondo dei massimi Mike Tyson e Naomi Campbell? La top model rischiò di prendersi qualche devastante sganassone quando decise di mollarlo. In questi casi tenete presente il proverbio: meglio soli che mal accompagnati. Traduciamo in termini gastronomici: non c’è armonia nel servire un filetto di San Pietro con fois gras ed asparagi e un granitico Amarone sia pure da 400 euro. Il San Pietro è delicato, armonioso e ha una vena intrigante costituita dal fegato d’oca. È una musica di violini, il coro a bocca chiusa di Madame Butterfly. Profumi e sapori da cogliere uno per uno. L’Amarone è il trionfo dell’Aida, trombe e tromboni; sapore che colonizza le papille gustative. Se da un grande piatto e da un immenso vino si arriva ad uno scontro frontale, immaginate cosa accade a un piatto ben preparato o a un cibo ghiotto costretti a sopportare la compagnia di un vinaccio. Invertendo l’ordine delle bontà il risultato non cambia: il grande vino che, raggiunto l’epitelio olfattivo del naso e si prepara a conquistare il palato per regalargli piacere ed emozioni, si scontra con bocconi speziati, con paste irrorate di panna, con carni affogate nel glutammato, ha un coitus interruptus. Roba da denuncia per vilipendio alla morale gastronomica.Oltre all’armonia si deve tener conto della psicologia dei prodotti. Una pasta e fagioli ruspante, un genuino salame stagionato 18 mesi in una cantina asciutta, un brusco bagoss, un intenso monte veronese non vogliono vini signorini, ma scalpitanti rossi: un bel merlot, una corvina, un lambrusco o una bonarda. Con i formaggi erborinati o di fossa osate vini dolci, un Pantelleria o un Recioto. Qui entriamo nella teoria degli opposti: invece di prendersi a pugni, due nature pure profondamente diverse si attirano. È più facile che succeda con il principio delle affinità elettive, ovvero «ogni simile ama il suo simile». Piatto profumato? Vino aromatico. Pietanza delicata? Vino delicato. Vivanda di grande consistenza? Vino di grande struttura. Piatti bianchi? Vini bianchi. Carni rosse? Vini rossi. Dolce con dolci (ma mica sempre, come abbiamo visto). Il teorema delle affinità arriva al top con i piatti nella cui preparazione il vino sia uno degli ingredienti principali. Protagonista in pentola? Protagonista nel piatto. Il che significa due volte protagonista. Sarà una recita da grandi applausi: pastissada de caval con Valpolicella Ripasso; brasato al Barolo con Barolo; scaloppine al Marsala con Marsala; risotto al Lambrusco con fegatini di coniglio con Lambrusco; polpo ubriacato nel Bolgheri? Bolgheri sia. Il principio della regionalità ricalca il proverbio: moglie e buoi dei paesi tuoi. Quindi vini e piatti dei territori dove son nati. È la regola delle tre T più una: terra, territorio, tradizione e tipicità. È vero che la cucina veneta sposa volentieri la cantina toscana e che i vini piemontesi fanno bella figura con i piatti romani. Ma è questione di cultura, di terra, di tradizioni: una pietanza e un vino nati nel medesimo contesto culturale, dalla stessa gente, cresciuti per secoli fianco a fianco, che hanno partecipato alla medesima evoluzione del gusto, non possono che star bene insieme perché si conoscono profondamente. Ecco perché i pescatori del Garda sposano le sarde col rosso Bardolino. E perché i pastori sardi accompagnano il porceddu e il montone allo spiedo col Cannonau. A Randazzo in Sicilia non vi domandano nemmeno che vino volete col castrato. Vi mettono in tavola l’Etna rosso che inonda la bocca come una colata lavica. Per chi protesta è pronta la lupara. È un tema da riprendere.
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