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2022-04-08
Via subito le mascherine ai bimbi: fanno male
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Sempre pronto a ventilare nuove restrizioni, o a prolungare le esistenti, sull’obbligo di utilizzare le mascherine al chiuso, il ministro della Salute ha messo le mani avanti. «Dopo Pasqua vedremo cosa fare dal primo maggio in avanti», è stato l’incoraggiante annuncio. Sottinteso, anzi già anticipato, se la curva epidemiologica non sarà scesa ai livelli che solo Roberto Speranza ha in mente e non comunica, rimarremo imbavagliati fino a inizio estate.
Quasi certamente, il dispositivo di protezione delle vie respiratorie resterà obbligatorio nelle scuole per chi ha compiuto i 6 anni. La scusa sarà che manca poco al termine delle lezioni di metà giugno, meglio non rischiare focolai in classe. Così, nelle scuole dell’infanzia, dove i piccoletti over 6 sono costretti a mascherare il volto, aumenteranno le difficoltà respiratorie, ma anche i ritardi nello sviluppo sociale e linguistico, come riportano i due studi, uno inglese l’altro spagnolo, dell’articolo sottostante.
«Se ci fosse, effettivamente, una utilità collegata a una necessità, che è quella di impedire che il contagio possa di nuovo divampare, allora si deve sicuramente continuare a tenerle», ha dichiarato Antonello Giannelli, presidente dell’Anp, l’Associazione nazionale presidi. «Mi rendo conto del fatto che ci sono dei numeri», dei contagi Covid, «in risalita», tiene a precisare il dirigente scolastico, «quindi, una certa attenzione credo sia necessaria e doverosa. Preferiremmo tutti tenere le mascherine in classe un mese e mezzo in più, che non sopportare conseguenze peggiori dopo».
Se è comprensibile l’uso prolungato di questi dispositivi su mezzi di trasporto pubblico, dove il distanziamento risulta inattuabile, del tutto inutile appare l’obbligo a oltranza in aula. Soprattutto per gli scolari che, se si infettano, hanno una percentuale di rischio estremamente bassa di avere complicanze dal Covid, al contrario rafforzano la loro immunità e non sono pericolosi veicoli di contagio in famiglia, visto che il 92% degli italiani si è vaccinato. Con questo virus dobbiamo imparare a convivere, meglio allentare restrizioni inutili quanto dannose per le fasce di età più giovani. Di tutt’altro avviso è, come sempre, Walter Ricciardi. «Le mascherine sono un presidio importantissimo e, purtroppo, finché avremo varianti così contagiose, vanno tenute, soprattutto all’interno, ma anche all’esterno», ripete instancabile il consulente del ministro della Salute.
Contrario alle riaperture, avrebbe tenuto tutti con super certificato verde e semaforo a colori per le Regioni. Le sue previsioni sono all’insegna del catastrofismo: «Ci dobbiamo preparare mentalmente per una battaglia di lunga durata che non finisce con l’emergenza giuridica», ha scandito. «Tutti gli aspetti, vaccinazione, green pass, mascherine e comportamenti saggi vanno tenuti, e il Paese deve prepararsi a una battaglia di lunga durata». Se un italiano su dieci continuerà ad indossare la mascherina, anche dopo la fine dell’obbligo, secondo una ricerca promossa dall’associazione Donne e qualità della vita, convinto che «ci sarà una recrudescenza della malattia molto presto e che il Covid non sia vinto per niente, almeno nel 77% dei casi», decisamente più ottimista appare il sottosegretario alla Salute Andrea Costa.
Ha detto, infatti, di «ritenere ragionevole pensare che, il 1 maggio, le mascherine non saranno più obbligatorie, neppure al chiuso, ma piuttosto raccomandate», perché «a oggi sussistono le condizioni per raggiungere questo obiettivo». Non esclude «l’ipotesi di mantenerle al chiuso», in situazioni particolari come, appunto, treni, metropolitana, aerei, ma il sottosegretario non ha fatto cenni all’uso continuato nelle scuole.
La decisione, se sarà presa in tal senso, nascerà ancora una volta dalla determinazione di Speranza di rinviare il ritorno alla normalità, condizionando, di conseguenza, la cabina di regia a esprimere un parere per l’uso a oltranza. Saranno penalizzati gli studenti, ancor più gli scolari e i bimbi della materna che hanno compiuto i sei anni, costretti a non togliersi la mascherina «di tipo chirurgico, o di maggiore efficacia protettiva», nemmeno al caldo di giugno.
Due mesi fa, alcuni illustri virologi, pediatri, esperti di malattie infettive e di disagi psichici di diverse università statunitensi, hanno messo a punto una sorta di vademecum per genitori e insegnanti dal titolo Children, Covid, and the urgency of normal. Un invito a ritornare al più presto alla normalità per la salute dei bambini. Raccomandano di evitare l’uso prolungato delle mascherine in classe che, assieme ad altre restrizioni, «aumentano la paura e trasmettono l’idea, errata, che le scuole non sono sicure». Affermano che «i bambini non sono un pericolo», esortano a non trattare i piccoli non vaccinati in modo diverso. Invito che, in Italia, si fatica a comprendere, meglio far partire le multe da 100 euro per gli over 50 che non hanno ancora offerto il braccio. I primi 200.000 avvisi sono già in viaggio, pare che le Poste prevedano 100.000 spedizioni al giorno.
«Ritardi nel fare amicizia e parlare»
Lunedì, l’Office for standards in education, children’s services and skills (Ofsted) ha pubblicato gli esiti di un’indagine condotta tra il 17 gennaio e il 4 febbraio scorsi, in 70 strutture per l’infanzia, del Regno Unito. Il report afferma che le misure adottate per combattere il Covid, compreso l’uso di mascherine, da parte degli operatori, che impediscono la capacità dei bambini di decodificare le espressioni facciali, hanno colpito i piccoli nel loro sviluppo sociale e linguistico. L’autorità di supervisione scolastica britannica ha osservato che i bimbi hanno, spesso, difficoltà a fare amicizia e parlare. Sono stati rilevati un «vocabolario limitato» e «l’incapacità di reagire ai movimenti facciali più semplici». I ritardi nello sviluppo del linguaggio hanno comportato problemi di socialità, dal momento che «non entravano in contatto con altri bambini nel modo previsto».
La qualità del rapporto con le maestre non è affatto buona per i piccoli che hanno compiuto due anni questa primavera, tanto quanto è durata la pandemia, e fino a oggi «sono stati circondati da adulti con maschere, quindi, non potevano vedere i movimenti delle labbra e le posizioni della bocca», perdendo un’importantissima forma di comunicazione, affermano gli ispettori che hanno effettuato i controlli.
Per aiutare i piccoli a recuperare il ritardo, alcuni membri del personale hanno ricevuto una formazione aggiuntiva sullo sviluppo del linguaggio.
Molti bambini sono risultati più timidi e ansiosi nell’affrontare i coetanei, perché non abituati ad altri volti. Per insegnare loro a esprimere i sentimenti, alcuni asili hanno introdotto le «carte delle emozioni», immagini di bimbi che mostrano diversi movimenti facciali. Invece di poter guardare i loro amichetti, sono costretti a riconoscere le emozioni su pezzi di carta. Il rapporto di Ofsted indica, tra le ripercussioni sullo sviluppo, un ritardo di molti nell’imparare a gattonare e camminare. A volte avevano anche bisogno di aiuto per vestirsi o soffiarsi il naso, a un’età in cui avrebbero dovuto essere in grado di farlo da soli.
Margery Smelkinson, esperta di malattie infettive, assieme ad altri due ricercatori statunitensi, aveva pubblicato a gennaio su The Atlantic un intervento circa la non utilità delle mascherine a scuola. Partendo dalla considerazione che «solo due studi randomizzati hanno misurato l’impatto delle mascherine sulla trasmissione del Covid, e nessuno includeva bambini», la dottoressa affermava che «imporre a milioni di bimbi uno strumento di protezione che fornisce scarsi benefici riconoscibili, sulla base del fatto che non abbiamo ancora raccolto prove concrete dei suoi effetti negativi, viola il principio più elementare della medicina: primo, non nuocere. Il fondamento degli interventi medici e di sanità pubblica dovrebbe essere che funzionino, non che non abbiamo prove sufficienti per dire se sono dannosi».
Mascherine controproducenti, quando non dannose, ma anche poco utili. Lo afferma uno studio condotto in Spagna, con finanziamenti ministeriali, in 1.900 scuole della Catalogna e pubblicato a marzo. Dopo aver messo a confronto mezzo milione di bimbi tra 3-5 anni, non obbligati alla mascherina, e quelli di fascia 6-11, con l’obbligo, è arrivato alla conclusione che i dispositivi di protezione facciale nelle scuole non erano associati a una minore incidenza o trasmissione di Sars-Cov-2, suggerendo che questo intervento non era efficace.
I ricercatori non hanno riscontrato che il tasso di incidenza o la trasmissione del virus fossero significativamente inferiori tra i bimbi obbligati a tenere un dispositivo di protezione in classe, rispetto ai minori di sei anni, che potevano rimanere a volto scoperto. Quique Bassat, pediatra ed epidemiologo dell’istituto sanitario Isglobal, ha tenuto a precisare: «Le mascherine offrono protezione, ma nei bambini piccoli dai tre agli 11 anni, dove la trasmissione è più bassa e le attitudini al rischio sono diverse da quelle degli adolescenti, l’impatto di questa misura è più modesto».
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Roberto Speranza tergiversa sulla fine dell’obbligo di indossarle, anche se per gli alunni sono molto dannose. Pensa di imbavagliarci ancora. Ma gli studi parlano chiaro, a scuola danni enormi. Intanto partite le prime 200.000 multe agli over 50 che non si sono vaccinati. Ne arriveranno 100.000 al giorno.Una serie di studi europei ha certificato l’inutilità, e anche la pericolosità, dell’uso delle protezioni sul viso dei più piccoli. Causano anche eccessiva timidezza e ansia.Lo speciale contiene due articoli.Sempre pronto a ventilare nuove restrizioni, o a prolungare le esistenti, sull’obbligo di utilizzare le mascherine al chiuso, il ministro della Salute ha messo le mani avanti. «Dopo Pasqua vedremo cosa fare dal primo maggio in avanti», è stato l’incoraggiante annuncio. Sottinteso, anzi già anticipato, se la curva epidemiologica non sarà scesa ai livelli che solo Roberto Speranza ha in mente e non comunica, rimarremo imbavagliati fino a inizio estate. Quasi certamente, il dispositivo di protezione delle vie respiratorie resterà obbligatorio nelle scuole per chi ha compiuto i 6 anni. La scusa sarà che manca poco al termine delle lezioni di metà giugno, meglio non rischiare focolai in classe. Così, nelle scuole dell’infanzia, dove i piccoletti over 6 sono costretti a mascherare il volto, aumenteranno le difficoltà respiratorie, ma anche i ritardi nello sviluppo sociale e linguistico, come riportano i due studi, uno inglese l’altro spagnolo, dell’articolo sottostante. «Se ci fosse, effettivamente, una utilità collegata a una necessità, che è quella di impedire che il contagio possa di nuovo divampare, allora si deve sicuramente continuare a tenerle», ha dichiarato Antonello Giannelli, presidente dell’Anp, l’Associazione nazionale presidi. «Mi rendo conto del fatto che ci sono dei numeri», dei contagi Covid, «in risalita», tiene a precisare il dirigente scolastico, «quindi, una certa attenzione credo sia necessaria e doverosa. Preferiremmo tutti tenere le mascherine in classe un mese e mezzo in più, che non sopportare conseguenze peggiori dopo». Se è comprensibile l’uso prolungato di questi dispositivi su mezzi di trasporto pubblico, dove il distanziamento risulta inattuabile, del tutto inutile appare l’obbligo a oltranza in aula. Soprattutto per gli scolari che, se si infettano, hanno una percentuale di rischio estremamente bassa di avere complicanze dal Covid, al contrario rafforzano la loro immunità e non sono pericolosi veicoli di contagio in famiglia, visto che il 92% degli italiani si è vaccinato. Con questo virus dobbiamo imparare a convivere, meglio allentare restrizioni inutili quanto dannose per le fasce di età più giovani. Di tutt’altro avviso è, come sempre, Walter Ricciardi. «Le mascherine sono un presidio importantissimo e, purtroppo, finché avremo varianti così contagiose, vanno tenute, soprattutto all’interno, ma anche all’esterno», ripete instancabile il consulente del ministro della Salute. Contrario alle riaperture, avrebbe tenuto tutti con super certificato verde e semaforo a colori per le Regioni. Le sue previsioni sono all’insegna del catastrofismo: «Ci dobbiamo preparare mentalmente per una battaglia di lunga durata che non finisce con l’emergenza giuridica», ha scandito. «Tutti gli aspetti, vaccinazione, green pass, mascherine e comportamenti saggi vanno tenuti, e il Paese deve prepararsi a una battaglia di lunga durata». Se un italiano su dieci continuerà ad indossare la mascherina, anche dopo la fine dell’obbligo, secondo una ricerca promossa dall’associazione Donne e qualità della vita, convinto che «ci sarà una recrudescenza della malattia molto presto e che il Covid non sia vinto per niente, almeno nel 77% dei casi», decisamente più ottimista appare il sottosegretario alla Salute Andrea Costa. Ha detto, infatti, di «ritenere ragionevole pensare che, il 1 maggio, le mascherine non saranno più obbligatorie, neppure al chiuso, ma piuttosto raccomandate», perché «a oggi sussistono le condizioni per raggiungere questo obiettivo». Non esclude «l’ipotesi di mantenerle al chiuso», in situazioni particolari come, appunto, treni, metropolitana, aerei, ma il sottosegretario non ha fatto cenni all’uso continuato nelle scuole. La decisione, se sarà presa in tal senso, nascerà ancora una volta dalla determinazione di Speranza di rinviare il ritorno alla normalità, condizionando, di conseguenza, la cabina di regia a esprimere un parere per l’uso a oltranza. Saranno penalizzati gli studenti, ancor più gli scolari e i bimbi della materna che hanno compiuto i sei anni, costretti a non togliersi la mascherina «di tipo chirurgico, o di maggiore efficacia protettiva», nemmeno al caldo di giugno.Due mesi fa, alcuni illustri virologi, pediatri, esperti di malattie infettive e di disagi psichici di diverse università statunitensi, hanno messo a punto una sorta di vademecum per genitori e insegnanti dal titolo Children, Covid, and the urgency of normal. Un invito a ritornare al più presto alla normalità per la salute dei bambini. Raccomandano di evitare l’uso prolungato delle mascherine in classe che, assieme ad altre restrizioni, «aumentano la paura e trasmettono l’idea, errata, che le scuole non sono sicure». Affermano che «i bambini non sono un pericolo», esortano a non trattare i piccoli non vaccinati in modo diverso. Invito che, in Italia, si fatica a comprendere, meglio far partire le multe da 100 euro per gli over 50 che non hanno ancora offerto il braccio. I primi 200.000 avvisi sono già in viaggio, pare che le Poste prevedano 100.000 spedizioni al giorno.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/via-mascherine-bimbi-fanno-male-2657121164.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="ritardi-nel-fare-amicizia-e-parlare" data-post-id="2657121164" data-published-at="1649411045" data-use-pagination="False"> «Ritardi nel fare amicizia e parlare» Lunedì, l’Office for standards in education, children’s services and skills (Ofsted) ha pubblicato gli esiti di un’indagine condotta tra il 17 gennaio e il 4 febbraio scorsi, in 70 strutture per l’infanzia, del Regno Unito. Il report afferma che le misure adottate per combattere il Covid, compreso l’uso di mascherine, da parte degli operatori, che impediscono la capacità dei bambini di decodificare le espressioni facciali, hanno colpito i piccoli nel loro sviluppo sociale e linguistico. L’autorità di supervisione scolastica britannica ha osservato che i bimbi hanno, spesso, difficoltà a fare amicizia e parlare. Sono stati rilevati un «vocabolario limitato» e «l’incapacità di reagire ai movimenti facciali più semplici». I ritardi nello sviluppo del linguaggio hanno comportato problemi di socialità, dal momento che «non entravano in contatto con altri bambini nel modo previsto». La qualità del rapporto con le maestre non è affatto buona per i piccoli che hanno compiuto due anni questa primavera, tanto quanto è durata la pandemia, e fino a oggi «sono stati circondati da adulti con maschere, quindi, non potevano vedere i movimenti delle labbra e le posizioni della bocca», perdendo un’importantissima forma di comunicazione, affermano gli ispettori che hanno effettuato i controlli. Per aiutare i piccoli a recuperare il ritardo, alcuni membri del personale hanno ricevuto una formazione aggiuntiva sullo sviluppo del linguaggio. Molti bambini sono risultati più timidi e ansiosi nell’affrontare i coetanei, perché non abituati ad altri volti. Per insegnare loro a esprimere i sentimenti, alcuni asili hanno introdotto le «carte delle emozioni», immagini di bimbi che mostrano diversi movimenti facciali. Invece di poter guardare i loro amichetti, sono costretti a riconoscere le emozioni su pezzi di carta. Il rapporto di Ofsted indica, tra le ripercussioni sullo sviluppo, un ritardo di molti nell’imparare a gattonare e camminare. A volte avevano anche bisogno di aiuto per vestirsi o soffiarsi il naso, a un’età in cui avrebbero dovuto essere in grado di farlo da soli. Margery Smelkinson, esperta di malattie infettive, assieme ad altri due ricercatori statunitensi, aveva pubblicato a gennaio su The Atlantic un intervento circa la non utilità delle mascherine a scuola. Partendo dalla considerazione che «solo due studi randomizzati hanno misurato l’impatto delle mascherine sulla trasmissione del Covid, e nessuno includeva bambini», la dottoressa affermava che «imporre a milioni di bimbi uno strumento di protezione che fornisce scarsi benefici riconoscibili, sulla base del fatto che non abbiamo ancora raccolto prove concrete dei suoi effetti negativi, viola il principio più elementare della medicina: primo, non nuocere. Il fondamento degli interventi medici e di sanità pubblica dovrebbe essere che funzionino, non che non abbiamo prove sufficienti per dire se sono dannosi». Mascherine controproducenti, quando non dannose, ma anche poco utili. Lo afferma uno studio condotto in Spagna, con finanziamenti ministeriali, in 1.900 scuole della Catalogna e pubblicato a marzo. Dopo aver messo a confronto mezzo milione di bimbi tra 3-5 anni, non obbligati alla mascherina, e quelli di fascia 6-11, con l’obbligo, è arrivato alla conclusione che i dispositivi di protezione facciale nelle scuole non erano associati a una minore incidenza o trasmissione di Sars-Cov-2, suggerendo che questo intervento non era efficace. I ricercatori non hanno riscontrato che il tasso di incidenza o la trasmissione del virus fossero significativamente inferiori tra i bimbi obbligati a tenere un dispositivo di protezione in classe, rispetto ai minori di sei anni, che potevano rimanere a volto scoperto. Quique Bassat, pediatra ed epidemiologo dell’istituto sanitario Isglobal, ha tenuto a precisare: «Le mascherine offrono protezione, ma nei bambini piccoli dai tre agli 11 anni, dove la trasmissione è più bassa e le attitudini al rischio sono diverse da quelle degli adolescenti, l’impatto di questa misura è più modesto».
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Veniamo al profeta, Pellegrino Artusi, il Garibaldi della cucina tricolore. Scrivendo il libro La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene (1891), l’uomo di Forlimpopoli trapiantato a Firenze creò un’identità gastronomica comune nel Paese da poco unificato, raccogliendo le ricette tradizionali delle varie Regioni - e subregioni - italiane valorizzando le tipicità e diffondendone la conoscenza. È così che suscitò uno slancio di orgoglio nazionale per le diverse cucine italiane che, nei secoli, si sono caratterizzate ognuna in maniera diversa, attraverso i vari coinvolgimenti storici, la civiltà contadina, la cucina di corte (anche papale), quella borghese, le benefiche infiltrazioni e contaminazioni di popoli e cucine d’oltralpe e d’oltremare, e, perché no, anche attraverso la fame e la povertà.
Orio Vergani, il custode, giornalista e scrittore milanese (1898-1960), è una figura di grande rilievo nella storia della cucina patria. Fu lui insieme ad altri innamorati a intuire negli anni Cinquanta del secolo scorso il rischio che correvano le buone tavole del Bel Paese minacciate dalla omologazione e dall’appiattimento dei gusti, insidiate da una cucina industriale e standardizzata. Fu lui a distinguere i pericoli nel turismo di massa e nell’alta marea della modernizzazione. Il timore e l’allarme sacrosanto di Vergani erano dettati dalla paura di perdere a tavola l’autenticità, la qualità e il legame col territorio della nostra tradizione gastronomica. Per combattere la minaccia, l’invitato speciale fondò nel 1953 l’Accademia italiana della cucina sottolineando già nel nome la diversità dell’arte culinaria nelle varie parti d’Italia.
L’Accademia, istituzione culturale della Repubblica italiana, continua al giorno d’oggi, con le sue delegazioni in sessanta Paesi del mondo e gli 8.000 soci, a portare avanti il buon nome della cucina italiana. Non è un caso se a sostenere il progetto all’Unesco siano stati tre attori, due dei quali legati al «profeta» romagnolo e al «custode» milanese: la Fondazione Casa Artusi di Forlimpopoli e l’Accademia italiana della cucina nata, appunto, dall’intuizione di Orio Vergani. Terzo attore è la rivista La cucina Italiana, fondata nel 1929. Paolo Petroni, presidente dell’Accademia, commenta: «Il riconoscimento dell’Unesco rappresenta una grandissima medaglia al valore, per noi. La festeggeremo il terzo giovedì di marzo in tutte le delegazioni del mondo e nelle sedi diplomatiche con una cena basata sulla convivialità e sulla socialità. Il menu? Libero. Ogni delegazione lo rapporterà al territorio e alla tradizione.
L’Unesco ha riconosciuto la cucina italiana patrimonio immateriale andando oltre alle ricette e al semplice nutrimento, considerandola un sistema culturale, rafforzando il ruolo dell’Italia come ambasciatrice di un modello culturale nel mondo in quanto la nostra cucina è una pratica sociale viva, che trasmette memoria, identità e legame con il territorio, valorizzando la convivialità, i rituali, la condivisione famigliare, come il pranzo della domenica, la stagionalità e i gesti quotidiani, oltre a promuovere inclusione e sostenibilità attraverso ricette antispreco tramandate da generazione in generazione. Il riconoscimento non celebra piatti specifici come è stato fatto con altri Paesi, ma l’intera arte culinaria e culturale che lega comunità, famiglie e territori attraverso il cibo. Riconosce l’intelligenza delle ricette tradizionali nate dalla povertà contadina, che insegnano a non sprecare nulla, un concetto di sostenibilità ancestrale. Incarna il legame tra la natura, le risorse locali e le tradizioni culturali, riflettendo la diversità dei paesaggi italiani».
Peccato che non tutti la pensino così, vedi l’attacco del critico e scrittore britannico di gastronomia Giles Coren sul Times. Dopo aver bene intinto la penna nell’iperbole, nella satira e nell’insulto, Coren è partito all’attacco alla baionetta contro, parole sue, il riconoscimento assegnato dall’Unesco, riconoscimento prevedibile, servile, ottuso e irritante. Dice l’opinionista prendendosela anche con i suoi connazionali snob: «Da quando scrivo di ristoranti, combatto contro la presunta supremazia del cibo italiano. Perché è un mito, un miraggio, una bugia alimentata da inglesi dell’alta borghesia che, all’inizio degli anni Novanta, trasferirono le loro residenze estive in Toscana».
Risponde Petroni: «Credo che l’articolo di Coren sia una burla, lo scherzo di uno che in fondo, e lo ha dimostrato in altri articoli, apprezza la cucina italiana. Per etichettare il tutto come burla, basta leggere la parte in cui elogia la cucina inglese candidandola al riconoscimento Unesco per il valore culturale del “toast bruciato appena prima che scatti l’allarme antincendio”, gli “spaghetti con il ketchup”, il “Barolo britannico”, i “noodles cinesi incollati alla tovaglia” e altre perle di questo genere. C’è da sottolineare, invece, che la risposta dell’Unesco è stata unanime: i 24 membri del comitato intergovernativo per la salvaguardia del Patrimonio culturale immateriale hanno votato all’unanimità in favore della cucina italiana. Non c’è stato nemmeno un astenuto. La prima richiesta fu bocciata. Nel 2023 l’abbiamo ripresentata. È la parola “immateriale” che ci bloccò. È difficile definire una cucina immateriale senza cadere nel materiale. Per esempio l’Unesco non ha dato il riconoscimento alla pizza in quanto pizza, ma all’arte napoletana della pizza. Il cammino è stato molto difficile ma, alla fine, siamo riusciti a unificare la pratica quotidiana, i gesti, le parole, i rituali di una cucina variegata e il risultato c’è stato. La cucina italiana è la prima premiata dall’Unesco in tutta la sua interezza».
Se Coren ha scherzato, Alberto Grandi, docente all’Università di Parma, autore del libro La cucina italiana non esiste, è andato giù pesante nell’articolo su The Guardian. Basta il titolo per capire quanto: «Il mito della cucina tradizionale italiana ha sedotto il mondo. La verità è ben diversa». «Grandi è arrivato a dire che la pizza l’hanno inventata gli americani e che il vero grana si trova nel Wisconsin. Che la cucina italiana non risalga al tempo dei Romani lo sanno tutti. Prima della scoperta dell’America, la cucina era un’altra cosa. Quella odierna nasce nell’Ottocento da forni e fornelli borghesi. Se si rimane alla civiltà contadina, si rimane alle zuppe o poco più. Le classi povere non avevano carne da mangiare». Petroni conclude levandosi un sassolino dalla scarpa: l’esultanza dei cuochi stellati, i «cappelloni», come li chiama, è comprensibile ma loro non c’entrano: «Sono contento che approvino il riconoscimento, ma sia chiaro che questo va alla cucina italiana famigliare, domestica».
A chi si deve il maggior merito del riconoscimento Unesco? «A Maddalena Fossati, la direttrice de La cucina italiana. È stata lei a rivolgersi all’Accademia e alla Fondazione Casa Artusi. Il documento l’abbiamo preparato con il prezioso aiuto di Massimo Montanari, accademico onorario, docente all’Università di Bologna, e presentato con il sostegno del sottosegretario alla Cultura, Gianmarco Mazzi».
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Gianluigi Cimmino (Imagoeconomica)
Yamamay ha sempre scelto testimonial molto riconoscibili. Oggi il volto del brand è Rose Villain. Perché questa scelta?
«Negli ultimi tre anni ci siamo avvicinati a due canali di comunicazione molto forti e credibili per i giovani: la musica e lo sport. Oggi, dopo il crollo del mondo degli influencer tradizionali, è fondamentale scegliere un volto autentico, coerente e riconoscibile. Gran parte dei nostri investimenti recenti è andata proprio in questa direzione. Rose Villain rappresenta la musica, ma anche una bellezza femminile non scontata: ha un sorriso meraviglioso, un fisico prorompente che rispecchia le nostre consumatrici, donne che si riconoscono nel brand anche per la vestibilità, che riteniamo tra le migliori sul mercato. È una voce importante, un personaggio completo. Inoltre, il mondo musicale oggi vive molto di collaborazioni: lo stesso concetto che abbiamo voluto trasmettere nella campagna, usando il termine «featuring», tipico delle collaborazioni tra artisti. Non a caso, Rose Villain aveva già collaborato con artisti come Geolier, che è stato nostro testimonial l’anno scorso».
I volti famosi fanno vendere di più o il loro valore è soprattutto simbolico e di posizionamento del brand?
«Oggi direi soprattutto posizionamento e coerenza del messaggio. La vendita non dipende più solo dalla pubblicità: per vendere bisogna essere impeccabili sul prodotto, sul prezzo, sull’assortimento. Viviamo un momento di consumi non esaltanti, quindi è necessario lavorare su tutte le leve. Non è che una persona vede lo spot e corre subito in negozio. È un periodo “da elmetto” per il settore retail».
È una situazione comune a molti brand, in questo momento.
«Assolutamente sì. Noi non possiamo lamentarci: anche questo Natale è stato positivo. Però per portare le persone in negozio bisogna investire sempre di più. Il traffico non è più una costante: meno persone nei centri commerciali, meno in strada, meno negli outlet. Per intercettare quel traffico serve investire in offerte, comunicazione, social, utilizzando tutti gli strumenti che permettono soprattutto ai giovani di arrivare in negozio, magari grazie a una promozione mirata».
Guardando al passato, c’è stato un testimonial che ha segnato una svolta per Yamamay?
«Sicuramente Jennifer Lopez: è stato uno dei primi casi in cui una celebrità ha firmato una capsule collection. All’epoca era qualcosa di totalmente nuovo e ci ha dato una visibilità internazionale enorme. Per il mondo maschile, Cristiano Ronaldo ha rappresentato un altro grande salto di qualità. Detto questo, Yamamay è nata fin dall’inizio con una visione molto chiara».
Come è iniziata questa avventura imprenditoriale?
«Con l’incoscienza di un ragazzo di 28 anni che rescinde un importante contratto da manager perché vuole fare l’imprenditore. Ho coinvolto tutta la famiglia in questo sogno: creare un’azienda di intimo, un settore che ho sempre amato. Dico spesso che ero già un grande consumatore, soprattutto perché l’intimo è uno dei regali più fatti. Oggi posso dire di aver realizzato un sogno».
Oggi Yamamay è un marchio internazionale. Quanti negozi avete nel mondo?
«Circa 600 negozi in totale. Di questi, 430 sono in Italia e circa 170 all’estero».
Il vostro è un settore molto competitivo. Qual è oggi il vostro principale elemento di differenziazione?
«Il rapporto qualità-prezzo. Abbiamo scelto di non seguire la strada degli aumenti facili nel post Covid, quando il mercato lo permetteva. Abbiamo continuato invece a investire su prodotto, innovazione, collaborazioni e sostenibilità. Posso dire con orgoglio che Yamamay è uno dei marchi di intimo più sostenibili sul mercato. La sostenibilità per noi non è una moda né uno strumento di marketing: è un valore intrinseco. Anche perché abbiamo in casa una delle massime esperte del settore, mia sorella Barbara, e siamo molto attenti a non fare greenwashing».
Quali sono le direttrici di crescita future?
«Sicuramente l’internazionale, più come presenza reale che come notorietà, e il digitale: l’e-commerce è un canale dove possiamo crescere ancora molto. Inoltre stiamo investendo tantissimo nel menswear. È un mercato in forte evoluzione: l’uomo oggi compra da solo, non delega più alla compagna o alla mamma. È un cambiamento culturale profondo e la crescita sarà a doppia cifra nei prossimi anni. La società è cambiata, è più eterogenea, e noi dobbiamo seguirne le evoluzioni. Penso anche al mondo Lgbtq+, che è storicamente un grande consumatore di intimo e a cui guardiamo con grande attenzione».
Capodanno è un momento simbolico anche per l’intimo. Che consiglio d’acquisto dai ai vostri clienti per iniziare bene l’anno?
«Un consiglio semplicissimo: indossate intimo rosso a Capodanno. Mutande, boxer, slip… non importa. È una tradizione che non va persa, anzi va rafforzata. Il rosso porta amore, ricchezza e salute. E le tradizioni belle vanno rispettate».
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