
La sopravvissuta alla persecuzione anti italiana: «La mia foto da esule bambina a Pola mi rese icona per caso. Papà fu fatto sparire dai titini. Ai giovani dico: studiate la storia».«Il tempo smussa le tragedie, piano piano le ferite bruciano meno. Ma non si può dimenticare». Forse è possibile lenire il dolore ma non cancellare una storia orribile, quella delle foibe e degli esuli giuliani, che all'indomani della deconda guerra mondiale costò la vita a 11.000 persone e ne costrinse altre 350.000 ad abbandonare le proprie case. Fra loro c'era una bambina: Egea Haffner. Oggi ha 78 anni, vive a Rovereto con il marito ingegnere e non ha mai smesso di raccontare. Perché non se ne perda la memoria.La sua foto da bambina con la valigia e l'ombrellino in mano è il simbolo della tragedia. Che effetto le fa?«Quell'immagine è diventata un'icona per caso. Alla fine degli anni Novanta è venuto a casa mia il direttore del Museo storico della guerra di Rovereto. Cercava immagini e documenti relativi al nostro esilio, per allestire una grande mostra. Fra le carte che conservavo in un cassetto è spuntato quello scatto. Era nascosto ed è diventato il manifesto dell'esposizione e della storia degli esuli».Cosa immortala quella foto?«Fu scattata davanti a casa dei miei nonni a Pola, prima di lasciarla per sempre insieme con mio zio, mia nonna e mia zia. Era un'usanza e noi l'abbiamo rispettata. Ricordo che preparai la mia valigetta e presi un ombrello. Poi mi avvicinarono un cartello con scritto “Esule giuliana". E il numero degli abitanti di Pola in quel momento: 30.000. Più uno, cioè io. Era il 6 luglio 1946».Dopo cosa accadde?«Sono partita con la mia mamma alla volta di Cagliari. Mio padre era già stato portato via dalla polizia di Tito nel 1945. Me la ricordo bene quella giornata. Arrivarono gli agenti, bussarono alla porta e mamma andò ad accoglierli. In casa c'era anche il mio papà. Ci dissero che non era successo nulla, che era una semplice formalità. Era primavera, e così mio padre prima di andare via indossò solo una sciarpa. Da quel giorno non abbiamo più saputo nulla di lui».Neppure una traccia?«Abbiamo cominciato a cercarlo ovunque, mia zia andò in bici fino a Capo d'Istria e Trieste nella speranza di ritrovarlo. Ma è stato tutto inutile. Dopo pochi giorni un conoscente ci raccontò di aver visto un poliziotto di Tito con la sciarpa di mio padre al collo». Così avete abbandonato la vostra terra?«Dopo poco più di un anno abbiamo lasciato Pola. Con la mia mamma ci siamo trasferite a Cagliari, dove vivevano alcuni parenti. Lei cominciò a lavorare come parrucchiera in un salone, io sono rimasta in Sardegna per otto mesi. Nel febbraio del 1947, con la nave Toscana, mia nonna e i miei zii riuscirono a raggiungere Bolzano, e qui con il tempo hanno aperto un'orologeria. Così anche io li ho raggiunti e sono rimasta con loro. Mentre mia madre si è fermata a Cagliari, si è risposata e ha avuto altri due figli».Ricorda esattamente quando lasciò Pola?«Ricordo il fotografo che voleva mettermi in posa a ogni costo per il famoso scatto, mentre io ero imbronciata. Ricordo anche il vestitino rosa che aveva cucito mia zia. Ricordo la casa, il giardino. Ma sono tutti ricordi vaghi, perché avevo solo quattro anni e mezzo. Non capivo ancora cosa fosse successo alla mia famiglia, né per quale ragione fossi costretta a lasciare la mia casa».Quali emozioni prova quando guarda quell'immagine?«Riguardando la foto oggi mi viene in mente solo quel momento, anche se sono consapevole che sia diventata un simbolo per molte altre persone».Come ha vissuto la sua giovinezza strappata dal focolare?«L'ho trascorsa tutta a Bolzano. Sono riuscita a trovare lavoro come interprete all'Enpas, perché conosco molto bene il tedesco. Sono andata in pensione giovane, come orfana di guerra ed esule giuliana. Ho tanti ricordi positivi ma in Alto Adige ho passato anni duri, per i primi tempi senza una casa sicura. Poi piano piano le cose sono migliorare, anche se la vita non è stata semplice e sempre ricca di sacrifici. Ma ci sono stati anche momenti molto felici: mi sono fidanzata, poi sposata e ho avuto due figlie. Insieme con mio marito ci siamo trasferiti prima a Milano e poi a Rovereto, dove siamo rimasti».Come ha superato i ricordi tragici della sua infanzia?«In famiglia abbiamo sempre parlato di queste cose. Abbiamo sempre pensato che papà prima o poi sarebbe tornato a casa. Mia nonna per anni ha continuato a conservare per lui un pezzo di pane. Lo lasciava sul tavolo ogni sera. A Bolzano vivevano molti altri profughi di Pola, ci incontravamo spesso per parlare dei nostri ricordi. Per sentirci a casa».Nella sua vita lei si è impegnata molto per raccontare la storia degli esuli giuliani e delle foibe. Soprattutto nelle scuole…«Faccio parte dell'Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia, e fino a qualche anno fa sono andata nelle scuole di Trento e Rovereto per raccontare ai giovani la nostra storia. I ragazzi mi sono sempre sembrati molto interessati. Facevano tante domande e noi testimoniavamo quello che ci era successo. Fino a poco tempo fa nessuno sapeva niente di questo brutto capitolo».Quale messaggio vuole diffondere?«Il messaggio è che i giovani devono conoscere la storia. Bisogna superare l'ignoranza, affinché periodi brutti e tragici come quelli che abbiamo subito non si ripetano più. Tante famiglie senza colpa hanno vissuto esperienze terribili».Secondo lei perché per lungo tempo delle foibe si è parlato così poco nel nostro Paese?«Penso sia stata una scelta politica. Non si è voluto parlare perché era più comodo nascondere alcune cose».Poi cosa è cambiato?«È cresciuta la consapevolezza. Grazie al nostro museo della Guerra è stata allestita una mostra che ha raccontato la vicenda. Inoltre sono stati organizzati numerosi convegni. Tutto ciò lentamente ha riacceso l'interesse intorno a questi avvenimenti».E poi ci sono state le vostre testimonianze dirette...«Oggi molte cose si conoscono anche grazie ai nostri racconti, che hanno avuto il merito di riaccendere la luce. Le scuole ci hanno invitati tante volte, e ringraziati. Abbiamo avuto un buon riscontro, e questo ci ha fatto piacere. Le persone hanno cominciato a capire cosa abbiamo passato».La memoria quindi è fondamentale?«Assolutamente sì, serve perché cose del genere non capitino mai più. Aiuta a far capire come davvero sono andate le cose e a insegnare ai giovani quali errori sono stati commessi».Negli ultimi tempi si parla di odio, soprattutto sui social. Lei è mai stata minacciata?«Personalmente non ho mai ricevuto minacce, anzi ho avuto il piacere di ricevere una cittadinanza onoraria che però non ho accettato. Non mi piace mettermi in mostra. Nel 2006 ho anche ricevuto una pergamena dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e una medaglia in memoria del sacrificio fatto da mio padre per la patria. Non mi fa piacere essere sotto i riflettori».Un altro simbolo di un capitolo atroce della storia, la senatrice a vita Liliana Segre, riceve molte minacce...«Si tratta di una cosa terribile, assurda. Che occorre denunciare a tutti i livelli».In Senato è stata istituita una Commissione che vuole combattere proprio queste e altre forme di odio. Può essere utile?«Non voglio entrare nel merito, io sono fuori dalla politica. Preferisco non esprimere opinioni».Tornando alla cittadinanza onoraria del Comune di Bassano del Grappa, perché ha rifiutato?«Non ho accettato perché non era il caso di farlo. Non sono mai stata a Bassano e non vedo il motivo per il quale dovrei diventarne cittadina onoraria. Ho scritto al sindaco, ho ringraziato e spiegato le mie ragioni. Sono stata onorata di questa iniziativa, se sarò in condizioni andrò anche a conoscere il primo cittadino. Ma non voglio essere strumentalizzata». Pensa ci sia stata una strumentalizzazione?«C'erano delle beghe in Consiglio comunale, mi hanno messa in competizione con la Segre. Ma io ho un'altra storia. Io sono stata solo testimone di una tragedia, lei è finita in un campo di concentramento. Non si possono paragonare due situazioni terribili e diverse come queste, non si tratta di una gara».Negli ultimi anni c'è forse stata meno attenzione riguardo alla storia. Testimonianze come le vostre possono compensare la lacuna?«Sicuramente sì, possiamo colmare la disattenzione. La storia è fondamentale».Nella sua infanzia c'è qualcosa che, a dispetto di tutto, la fa sorridere?«Sì, sono i giochi con gli amici e la spensieratezza. Ma sono più impressi in me gli allarmi, il frastuono dei bombardamenti, le corse, il ricordo del rifugio bagnato e buio. Quando sento rumori a mezzogiorno mi torna in mente la paura. Il tempo smussa le tragedie ma non le può cancellare».
Obbligazionario incerto a ottobre. La Fed taglia il costo del denaro ma congela il Quantitative Tightening. Offerta di debito e rendimenti reali elevati spingono gli operatori a privilegiare il medio e il breve termine.
Alice ed Ellen Kessler nel 1965 (Getty Images)
Invece di cultura e bellezza, la Rai di quegli anni ha promosso spettacoli ammiccanti, mediocrità e modelli ipersessualizzati.
Il principe saudita Mohammad bin Salman Al Sa'ud e il presidente americano Donald Trump (Getty)
Il progetto del corridoio fra India, Medio Oriente ed Europa e il patto difensivo con il Pakistan entrano nel dossier sulla normalizzazione con Israele, mentre Donald Trump valuta gli effetti su cooperazione militare e stabilità regionale.
Le trattative in corso tra Stati Uniti e Arabia Saudita sulla possibile normalizzazione dei rapporti con Israele si inseriscono in un quadro più ampio che comprende evoluzioni infrastrutturali, commerciali e di sicurezza nel Medio Oriente. Un elemento centrale è l’Imec, ossia il corridoio economico India-Medio Oriente-Europa, presentato nel 2023 come iniziativa multinazionale finalizzata a migliorare i collegamenti logistici tra Asia meridionale, Penisola Arabica ed Europa. Per Riyad, il progetto rientra nella strategia di trasformazione economica legata a Vision 2030 e punta a ridurre la dipendenza dalle rotte commerciali tradizionali del Golfo, potenziando collegamenti ferroviari, marittimi e digitali con nuove aree di scambio.
La piena operatività del corridoio presuppone relazioni diplomatiche regolari tra Arabia Saudita e Israele, dato che uno dei tratti principali dovrebbe passare attraverso porti e nodi logistici israeliani, con integrazione nelle reti di trasporto verso il Mediterraneo. Fonti statunitensi e saudite hanno più volte collegato la normalizzazione alle discussioni in corso con Washington sulla cooperazione militare e sulle garanzie di sicurezza richieste dal Regno, che punta a formalizzare un trattato difensivo bilaterale con gli Stati Uniti.
Nel 2024, tuttavia, Riyad ha firmato in parallelo un accordo di difesa reciproca con il Pakistan, consolidando una cooperazione storicamente basata su forniture militari, addestramento e supporto politico. Il patto prevede assistenza in caso di attacco esterno a una delle due parti. I governi dei due Paesi lo hanno descritto come evoluzione naturale di rapporti già consolidati. Nella pratica, però, l’intesa introduce un nuovo elemento in un contesto regionale dove Washington punta a costruire una struttura di sicurezza coordinata che includa Israele.
Il Pakistan resta un attore complesso sul piano politico e strategico. Negli ultimi decenni ha adottato una postura militare autonoma, caratterizzata da un uso esteso di deterrenza nucleare, operazioni coperte e gestione diretta di dossier di sicurezza nella regione. Inoltre, mantiene legami economici e tecnologici rilevanti con la Cina. Per gli Stati Uniti e Israele, questa variabile solleva interrogativi sulla condivisione di tecnologie avanzate con un Paese che, pur indirettamente, potrebbe avere punti di contatto con Islamabad attraverso il patto saudita.
A ciò si aggiunge il quadro interno pakistano, in cui la questione israelo-palestinese occupa un ruolo centrale nel dibattito politico e nell’opinione pubblica. Secondo analisti regionali, un eventuale accordo saudita-israeliano potrebbe generare pressioni su Islamabad affinché chieda rassicurazioni al partner saudita o adotti posizioni più assertive nei forum internazionali. In questo scenario, l’esistenza del patto di difesa apre la possibilità che il suo richiamo possa essere utilizzato sul piano diplomatico o mediatico in momenti di tensione.
La clausola di assistenza reciproca solleva inoltre un punto tecnico discusso tra osservatori e funzionari occidentali: l’eventualità che un’azione ostile verso Israele proveniente da gruppi attivi in Pakistan o da reticolati non statali possa essere interpretata come causa di attivazione della clausola, coinvolgendo formalmente l’Arabia Saudita in una crisi alla quale potrebbe non avere interesse a partecipare. Analoga preoccupazione riguarda la possibilità che operazioni segrete o azioni militari mirate possano essere considerate da Islamabad come aggressioni esterne. Da parte saudita, funzionari vicini al dossier hanno segnalato la volontà di evitare automatismi che possano compromettere i negoziati con Washington.
Sulle relazioni saudita-statunitensi, la gestione dell’intesa con il Pakistan rappresenta quindi un fattore da chiarire nei colloqui in corso. Washington ha indicato come priorità la creazione di un quadro di cooperazione militare prevedibile, in linea con i suoi interessi regionali e con le esigenze di tutela di Israele. Dirigenti israeliani, da parte loro, hanno riportato riserve soprattutto in relazione alle prospettive di trasferimenti tecnologici avanzati, tra cui sistemi di difesa aerea e centrali per la sorveglianza delle rotte commerciali del Mediterraneo.
Riyadh considera la normalizzazione con Israele parte di un pacchetto più ampio, che comprende garanzie di sicurezza da parte statunitense e un ruolo definito nel nuovo assetto economico regionale. Il governo saudita mantiene l’obiettivo di presentare il riconoscimento di Israele come passo inserito in un quadro di stabilizzazione complessiva del Medio Oriente, con benefici economici e infrastrutturali per più Paesi coinvolti. Tuttavia, la gestione del rapporto con il Pakistan richiede una definizione più precisa delle implicazioni operative del patto di difesa, alla luce del nuovo equilibrio a cui Stati Uniti e Arabia Saudita stanno lavorando.
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