2024-11-27
Verdi in battaglia contro il fato sulle spalle del suo amato Manzoni
Brescia&Amisano/Teatro alla Scala
Chailly punta su un cast stellare per riaffidare, dopo 59 anni, l’inaugurazione della stagione a «La forza del destino» del Cigno di Busseto. Nel finale milanese irrompe la speranza, sulla scia dei «Promessi sposi».Il basso moscovita Alexander Vinogradov che interpreterà il Padre guardiano: «È evidente che il compositore avesse grande fede nell’umanità, ma anchein qualcosa di più grande. Da agnostico mi sembra che per il cristiano il punto cruciale sia accettare il disegno divino nella sua vita. Il membro del Club dei 27, Carlo Aversa, battezzato col nome dell’opera «maledetta»: «Dal cantante morto sul palco all’invasione della Polonia, le dicerie si sprecano. Temo di più i registi». Lo speciale contiene un articolo e due interviste.«Una musica che ci stacca da terra, che ci eleva. Pagine immense che quasi non si possono provare perché sono troppo alte, troppo al di sopra di noi». Riccardo Chailly, il direttore musicale che ha avuto il coraggio di riaffidare alla Forza del destino di Giuseppe Verdi il «capodanno» del teatro alla Scala, che al Piermarini casca il 7 dicembre, alza le mani. La parte finale del secondo atto è il suo punto debole. Davanti alla scena della Vergine degli angeli, ha raccontato ieri nella presentazione della Prima di Sant’Ambrogio, «qualsiasi intervento razionale di concertazione può solo interferire negativamente sulla parabola del viaggio timbrico di questo quadro». Dalla primissima prova al pianoforte all’ultima di questi ultimi giorni con il coro e l’orchestra, la voce di Anna Netrebko (Donna Leonora) ha commosso il cast e i tecnici presenti. Ed è solo uno dei momenti sublimi (Chailly ne identifica addirittura sette) di un titolo che, come accennavamo, richiede una certa temerarietà. Non solo perché per i fedeli alla scaramanzia, che in teatro può diventare religione, stiamo parlando della Morte nera delle opere, sospettata di essere portatrice di disgrazie e calamità. Ma soprattutto per la sua estrema complessità e ampiezza. Chailly, com’era prevedibile, ha scelto la versione del 1869 ripensata dal Cigno di Busseto proprio per la Scala (con la quale si era riappacificato dopo un quarto di secolo circa), sette anni dopo la prima inaugurazione assoluta al Teatro imperiale di San Pietroburgo. E la partitura selezionata è l’edizione critica curata per Ricordi da Philip Gossett e William Holmes nel 2005, nella forma integrale, per circa tre ore di musica. Un’abbondanza necessaria per mettere fine al digiuno del Piermarini che da ben 59 anni non inaugura una stagione con la Forza (bisogna tornare addirittura al 1965, grazie alla bacchetta di Gianandrea Gavazzeni). Un capolavoro che, al di là del 7 dicembre, Milano attende dal 2001 (quando Valery Gergiev diresse la versione di San Pietroburgo, mentre Riccardo Muti nel 1999 ridiede vita per l’ultima volta a quella scaligera). Per il Piermarini Verdi aggiunse la Sinfonia iniziale, la scena della ronda con il coro del terzo atto e il trio conclusivo dell’opera. Ed è proprio il finale «milanese» a cambiare completamente il senso della storia. La vicenda, in estrema sintesi, ruota attorno all’amore impossibile tra Donna Leonora e Don Alvaro (sulla scia del romanzo di Àngel de Saavedra, Alvaro o la forza del destino). Il libretto di Francesco Maria Piave, terminato da Antonio Ghislanzoni, ci porta nella Spagna del XVIII secolo. Il padre di Leonora non accetta la relazione tra la giovane e un meticcio. Scoperto il tentativo di fuga dei due amanti, il Marchese resta ucciso da un colpo accidentale partito dalla rivoltella gettata a terra da Don Alvaro (in scena il tenore Brian Jagde, che sostituisce Jonas Kaufmann). Una tragedia frutto del caso o di un destino beffardo che stravolge la vita dei due innamorati, ma anche quella di Don Carlo (interpretato dal baritono francese Ludovic Tézier), che dedicherà tutta la sua vita a una missione: uccidere la sorella e il suo compagno per vendicare il padre. Leonora, schiacciata dal senso di colpa, si ritira in un eremo. Alvaro fugge in Italia a combattere una guerra che non gli appartiene e diviene, fatalmente, amico di chi lo vuole uccidere. Nell’epilogo di San Pietroburgo (1862) la morte domina la scena, la speranza soccombe davanti a un fato irridente. E davanti alla maledizione che si materializza nell’uccisione della sua amata, Don Alvaro si getta da una rupe, nell’orrore generale, imprecando contro il cielo («Apriti o terra, mi ingoi l’inferno!... precipiti il cielo... pera la razza umana!»). Mentre nella versione scaligera (1869), pur dominata dal dolore, filtra un raggio di luce. È il Padre guardiano (ruolo che toccherà al basso russo Alexander Vinogradov) a indicare il cambio di prospettiva. La brutalità resta, ma è fuori scena, Leonora non è solo «morta», ma è «salita a Dio». Le bestemmie di Alvaro vengono sopite dal francescano che invita l’infelice alla conversione («Non imprecare umiliati... D’ira e furor sacrilego non profferir parola... Il suo morir ti apprenda la fede e la pietà»). Impossibile non vedere nel religioso i tratti del Fra Cristoforo ideato da Alessandro Manzoni, così come la figura tragicomica di Fra Melitone sembra parente del don Abbondio dei Promessi Sposi. «Quello è un libro vero; vero quanto la Verità», scriveva Verdi, «uno dei più gran libri che sieno usciti da cervello umano. E non è solo un libro, ma una consolazione per l’umanità». Una stima ricambiata dal celebre scrittore («A Giuseppe Verdi, gloria d’Italia, un decrepito scrittore lombardo», recitava un biglietto inviato all’amico). Nessuno sa cosa si dissero i due nel loro unico incontro a Milano, il 30 giugno del 1868 (a pochi mesi dal ritorno alla Scala), ma sembra quasi che in questo corpo a corpo con il destino Verdi abbia ricevuto da Manzoni l’arma della speranza. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/verdi-in-battaglia-contro-fato-2670151503.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="solo-chi-crede-in-dio-scrive-musica-cosi" data-post-id="2670151503" data-published-at="1732731686" data-use-pagination="False"> «Solo chi crede in Dio scrive musica così» Come suona Alessandro Manzoni in russo solo Alexander Vinogradov lo sa. Per provare a prender sonno, contando i giorni che lo separano dal suo primo Sant’Ambrogio scaligero, il basso moscovita, classe 1976, si sta affidando a una traduzione dei Promessi Sposi nella sua lingua natale. Poi, quando il sole sorge, il Maestro torna a indossare il saio del Padre guardiano della Forza del destino di Giuseppe Verdi, per le ultime prove. Di tutta la storia dell’opera è il personaggio che più si avvicina al Fra Cristoforo manzoniano. Se il nobile che si pente di un delitto e si fa cappuccino è il faro che illumina Renzo e Lucia e li aiuta a intravedere la Provvidenza di Dio quando l’oscurità sembra prevalere, è il superiore del convento francescano, nel libretto di Francesco Maria Piave e di Antonio Ghislanzoni, ad avere l’ultima parola. E a dare un senso a una tragedia apparentemente senza senso.Una settimana e poco più all’apertura del sipario. A che punto è il cantiere dell’opera e su cosa sta insistendo il direttore dei lavori, Riccardo Chailly?«Ogni giorno il Maestro ci raccomanda di essere fedeli alla partitura verdiana. Lui è molto preciso e invita noi cantanti a seguirlo su questa strada. Far parte di una compagnia di così alto livello è fantastico. Lavorare in mezzo agli amici è un privilegio e la Prima di Sant’Ambrogio in un capolavoro di Verdi è un sogno che si realizza. Una decina d’anni fa non sarebbe stato immaginabile perché la mia voce era ancora un po’ leggerina».Il 10 novembre 1862 questo titolo debuttava a San Pietroburgo. Massimo Mila, soprattutto nelle grandi scene di massa, scorgeva un’anticipazione del Boris Godunov di Modest Petrovic Musorgskij, C’è un po’ di Russia in quest’opera del Cigno di Busseto?«A dir la verità, io non la sento molto. A me, da russo che vive da anni a Berlino, quest’opera suona totalmente italiana. Anche perché il “Gruppo dei cinque” si sarebbe affermato subito dopo quell’inaugurazione. Il legame con il Boris invece è chiaro se ci concentriamo sull’importanza del coro».Prima ha fatto un accenno alla partitura. Quali sono le indicazioni più importanti che le fornisce Verdi?«Impossibile fare una scelta, sono tantissime e vanno rispettate tutte, tenendo presente però che il suono è vivo e nasce nell’azione, non sulla carta stampata. Ci sono ad esempio dei pianissimi che, se eseguiti alla lettera, renderebbero difficoltoso l’ascolto. Bisogna tenere conto di tutto, anche dell’evoluzione degli strumenti e dell’orchestra».Su che tipo di suono sta lavorando per il ruolo del Padre guardiano?«Ben legato, vibrante e vivo. Serve un giusto equilibrio: si devono sentire le radici del belcanto, tipiche del Nabucco, ma con un po’ più di peso. Senza però arrivare alla declamazione che ci si aspetta in Don Carlos o Aida».Nella scena finale in cui il francescano richiama Don Alvaro, invitandolo ad accettare il disegno divino («Non imprecare; umiliati a lui, ch’è giusto e santo»), Chailly ha parlato del «suono celestiale» che il compositore riesce a creare. E nel primo convegno che si è tenuto alla Scala per spiegare questo capolavoro ha svelato il segreto: oltre all’arpa, irrompe a sorpresa un clarinetto basso. Un suono grave che però ci eleva. E sembra esprimere la redenzione dell’anima.«Credo che sia un momento magico, incredibile. Il dialogo tra questo strumento e la voce del basso è l’intuizione di un vero genio. Non a caso si ritrova in altre due pagine mirabili: il monologo del Re Marke nel Tristano e Isotta di Richard Wagner e all’interno de Les Huguenots di Giacomo Meyerbeer».Il finale scaligero è opposto a quello di San Pietroburgo di soli sette anni prima. Se nella versione milanese Don Alvaro si converte, in quella russa l’amante infelice si suicida insultando l’uomo religioso e i suoi richiami («Imbecille... Un inviato dell’inferno son io»). Quale la convince di più?«Da agnostico devo ammettere che l’epilogo cristiano è il più credibile, da tutti i punti di vista. Musicalmente è un capolavoro, con quel pianissimo: forse uno dei più belli del compositore di Busseto. Per un uomo di fede credo che questo sia il punto fondamentale: accettare che la propria vita faccia parte di un piano di Dio, misterioso e buono. In questa prospettiva tutto ha senso, anche quando non lo riusciamo a capire».All’opposto «Se Dio non esiste, allora tutto è permesso», sosteneva Fëdor Dostoevskij.«Certamente, ma il mondo di Verdi mi dice qualcosa in più perché lì dentro la presenza di Dio è evidente. La sua musica mi fa capire che credeva davvero, al di là dei suoi giudizi sul clero. Lo sento, ma quasi non lo oso spiegare: il Cigno di Busseto aveva fede, sia nell’umanità, che in qualcosa di più grande».Alcune regie moderne riducono tutta questa complessa vicenda al tema del patriarcato, dato che Leonora fugge dal padre per amore e il fratello la insegue per lavare nel sangue il suo affronto. A Monaco il Padre guardiano non era altro che la reincarnazione della figura paterna (lo stesso cantante interpretava i due ruoli).«Non ho nulla contro le regie moderne, ma non sempre funzionano. Posso dirle che è stato il regista Leo Muscato a consigliarmi di leggere I Promessi sposi. Per cui aspettatevi un Padre guardiano piuttosto tradizionale, ma allo stesso tempo rivoluzionario, come la storia lascia intendere. E com’era lo stesso Fra Cristoforo». <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/verdi-in-battaglia-contro-fato-2670151503.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="quale-jella-la-forza-porta-bene" data-post-id="2670151503" data-published-at="1732731686" data-use-pagination="False"> «Quale jella, la “Forza” porta bene» Pronto, parlo con La Forza del destino?«Eccolo!».Dall’altro capo della cornetta non c’è un mitomane, ma uno stimato dentista di Parma: Carlo di nome, Aversa di cognome.Se le dico Viva Verdi?«Sempre viva!».Bravo, ma era troppo semplice. Vediamo come se la cava se cito il film che Mateo Zoni ha dedicato alla vostra «setta»: «Qual è l’opera di Giuseppe Verdi che porta sfortuna?»«Quella che è toccata a me. E ne vado fiero».«Lo sa anche lei che non si può dire», sarebbe stata la risposta corretta, ma prendiamo per buona anche la sua.Mettiamo in attesa la telefonata perché urge qualche chiarimento. In linea c’è un membro di una delle società più singolari ed esclusive al mondo: il «Club dei 27» (da non confondere con il «Club 27» di Kurt Cobain, Amy Winehouse, Jimi Hendrix e di tanti altri artisti coetanei nell’ora della morte). La confraternita è formata da soli uomini devoti al Cigno di Busseto. E il numero è chiusissimo: un affiliato per ogni opera del compositore che, come sancì Gabriele D’Annunzio, «pianse e amò per tutti» (Jerusalem e Aroldo escluse in quanto «rifacimenti», Messa da Requiem compresa). Per entrare nella congrega esiste solo una via: inviare la domanda e armarsi della tipica pazienza di chi investe nella nuda proprietà degli immobili. Sì, perché il sogno di essere ammessi si può avverare solo quando qualche aderente saluta questo mondo o - meglio - rinuncia al suo posto. Come forse si è intuito, chi fa il suo ingresso nella cerchia perde il suo vecchio nome e assume quello di una composizione verdiana. A vita.Piuttosto che nominare il titolo con il quale lei è stato «battezzato» dal Club, i melomani si farebbero torturare. Leviamoci subito il problema: lei crede a questa storia della sfiga? Solo per regolarci perché la Scala ha scelto la Forza per inaugurare la stagione.«Mi fece la stessa domanda Rajna Kabaivanska (leggendario soprano bulgaro, ndr) quando venne a trovarci nel “covo” qualche anno fa. “Come fai con quel nome, visto che sei campano?”».Aspetti un secondo... ma non siete tutti parmigiani docg?«Vivo a Parma da una vita, ma sono salernitano purosangue. Lei sta parlando con l’unico “terrone” del Club. Anzi no, pure Luisa è un meridionale».Prego? Ah, certo, Luisa Miller, devo farci l’abitudine. Il suo presidente, Enzo Petrolini, pardon… Un giorno di regno, mi ha raccontato che andate nelle aule a parlare di Verdi e i bambini impazziscono. Vi vedono arrivare e urlano: «Giovanna, Giovanna!».«Si capisce, Giovanna d’Arco a scuola è un vero idolo. Un bravissimo infermiere, oggi in pensione».Stiamo divagando. Il titolo innominabile si può pronunciare oppure no?«La superstizione dalle mie parti è di casa, ma non ho mai girato con il corno in tasca. Anzi, se vedo una scala ci passo sotto. Per cui le dico: a me La Forza del destino ha sempre portato fortuna. Certo, come ogni leggenda, anche questa a qualcosa di reale si aggrappa».Il fattaccio forse più incredibile: il baritono Leonard Warren che, il 4 marzo 1960, si accascia senza più rialzarsi sul palcoscenico del Metropolitan di New York dopo aver cantato, nel terzo atto, «Morir! Tremenda cosa!».«Non solo. Il librettista Francesco Maria Piave non riuscì a finire il lavoro. Morì in miseria dopo essere stato colpito da una paralisi, al termine di una serie di eventi sfortunati come l’arresto del fratello e la malattia mentale della madre. Se non bastasse, c’è chi sostiene che quando Adolf Hitler invase la Polonia quest’opera fosse in programma a Varsavia. E in Giappone sono arrivati a dire che una prova generale aveva causato un sisma…».Direi di tirare una riga. Parliamo di musica: come sono le aspettative del Club per la Prima di Sant’Ambrogio?«Altissime, il cast è stellare. A cominciare dal tridente delle meraviglie: Netrebko-Kaufmann-Tézier».Ma cosa mi dice? Jonas Kaufmann ha dato forfait.«Lo so, ma mica è colpa della Scala! Diamo il merito al teatro di aver ingaggiato il meglio, poi queste cose possono sempre accadere. E comunque, ce l’aspettavamo».Nel vostro scantinato avete anche la palla di vetro?«No, ma qualche soffiata arriva…».Al suo posto, nel ruolo di don Alvaro, è subentrato Brian Jagde.«Sperèmma al bén (speriamo bene, ndr), si dice da queste parti».Che fa? Passa al dialetto locale?«Qualche anno fa, a Parma, Jagde ebbe qualche difficoltà nella Tosca, però probabilmente era indisposto. Secondo la critica, viene comunque da una discreta Forza a Barcellona. Sempre per guardare il bicchiere mezzo pieno, Kaufmann è un grande tenore, ma forse è troppo baritonale per il ruolo di Don Alvaro. Per cui in bocca al lupo al sostituto!».Di Anna Netrebko non mi dice nulla? Ieri il sovrintendente Meyer ha ringraziato Dio, o la natura, perché non tutte le generazioni vantano artiste di questo calibro.«Andai appositamente a Londra per assistere al suo debutto come Donna Leonora. Presenza scenica, carisma, passa dai registi bassi a quelli alti con una morbidezza incredibile: non ha rivali. Non scordiamoci poi di Ludovic Tézier. Passò una bellissima serata nella nostra sede. Cantante grandioso e persona eccezionale».Il direttore Chailly è nelle vostre corde?«Non ha bisogno dei miei complimenti. Uno dei migliori della sua generazione, insieme ad Antonio Pappano».Capitolo regia. Anche Leo Muscato è stato gradito ospite di uno dei vostri misteriosi ritrovi del giovedì sera.«Su questo tema la maggior parte di noi è tradizionalista. In Verdi tutti gli elementi sono perfettamente legati: parola, musica, azione, ambientazione. Stravolgere la storia per raccontarne un’altra non è vietato, ma devi essere un genio. Tutte cose che comunque ha già detto il grande Riccardo Muti. Di Muscato mi fido: ha il senso della bellezza».Da quello che sappiamo, l’elemento della guerra, che attraversa i secoli e la storia dell’uomo, sarà centrale. Dal Settecento fino ai giorni nostri a girare sarà la ruota del destino.«Guardi, ci è toccato vedere Carmen ambientata in ospedale, Simon Boccanegra in un macello, con i quarti di bue appesi, Un ballo in maschera trasformato nell’elezione di Bill Clinton alla Casa Bianca. Per La Forza del destino non ci resta che fare gli scongiuri...».
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Lo spettacolo Gabriele d’Annunzio, una vita inimitabile, con Edoardo Sylos Labini e le musiche di Sergio Colicchio, ha debuttato su RaiPlay il 10 settembre e approda su RaiTre il 12, ripercorrendo le tappe della vita del Vate, tra arte, politica e passioni.
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