2024-07-14
Grazie a Verdi e Germania l’Ue ha infilato l’auto elettrica nella bocca del Dragone
Frans Timmermans (Getty Images)
L’ideologia ecologista ha portato Bruxelles a dipendere dalle materie prime cinesi. I dazi sono arrivati tardi e i tedeschi per evitare ritorsioni spingono gli affari di Pechino.Chiamiamolo pure cortocircuito elettrico. Anzi, cortocircuito sulle auto elettriche. È quello nel quale si è infilata l’Europa, ormai da tempo, autorelegandosi a un ruolo da comprimario nella svolta tanto desiderata da Bruxelles che dovrebbe portare nel giro di qualche anno all’addio ai motori a combustione (entro il 2035) e a trasporti alimentati esclusivamente da veicoli a batteria. Tralasciando la irrealizzabilità del progetto, il punto è un altro e riguarda le strategie Ue, o meglio la mancanza di strategia da parte dell’Unione. Che prima si è data delle tempistiche strettissimi per realizzare una rivoluzione destinata a mettere in discussione produzioni che generano miliardi di fatturato e milioni di posti di lavoro e poi si è accorta che non aveva le materie prime per realizzarla. Ha visto cioè che accorciando in modo così repentino i tempi si era legata mani e piedi ai Paesi asiatici e alla Cina. Partendo però da una posizione di netto svantaggio. Per la carenza di materie prime (dal litio per arrivare alle terre rare fino al silicio e alla grafite, Pechino detiene una quota pari a circa il 70% della produzione globale) necessarie per la transizione e l’iper-regolamentazione del Vecchio Continente che contrasta con «la libertà di inquinare», la carenza di regole sulla sicurezza e la dignità del lavoro e gli aiuti di Stato a pioggia dei quali possono beneficiare le imprese dell’automotive di Pechino. Tutte cose note. Il problema oggi è che quegli stessi partiti, in particolare i Verdi, che avevano spinto una visione ideologica e folle dei progetti Green, nonostante un voto europeo che li ha fortemente bocciati (proprio su questi temi), rischiano di acquisire ancor più potere, posti chiave e forza decisionale con il probabile secondo mandato di Ursula von der Leyen. Il perché è molto semplice ed è tutto politico. I Verdi infatti potrebbero risultare decisivi nel sostituire i tanti franchi tiratori di Popolari, socialisti e liberali che sono pronti a voltare le spalle alla politica tedesca. E quindi rischiano di uscire addirittura rafforzati da un voto che invece li aveva visti tra i grandi sconfitti della tornata elettorale di giugno. Un giusto premio, insomma, per aver infilato l’industria europea in un labirinto ambientalista senza uscita. Tant’è che vistasi alle strette Bruxelles ha deciso, in colpevole ritardo, di introdurre dazi che colpiscono le esportazioni di auto elettriche prodotte in Cinai: su tutte Byd al 17,4%, Geely al 19,9%, Saic al 37,6%. Bella mossa. L’Europa prima si è legata mani e piedi alla Cina e poi si è messa a fare la guerra al Paese dal quale dipende. Tant’è che la Germania, il Paese che numeri alla mano rischia di essere il più colpito dalle reazioni di Pechino, ha cercato in tutti i modi di «minimizzare» la misura restrittiva di Bruxelles. Il cancelliere Olaf Scholz ci ha provato in tutti i modi a negoziare un cambio di strategia. Ma con scarsi risultati. Non ci è riuscita nella forma, ma di certo Berlino continuerà a provarci dal punto di vista sostanziale. Esemplificativo quello che sta succedendo con il colosso cinese Catl (Contemporary amperex technology Co.), il più grande produttore mondiale di batterie per veicoli elettrici che ha deciso di lanciare un fondo da 1,5 miliardi di dollari con l’obiettivo di espandere la sua catena di approvvigionamento all’estero e sopratutto in Europa. Naturale che, come riportato dal Sole 24 Ore, si sia rivolto ai grandi fondi sovrani che hanno tutto l’interesse a partecipare all’operazione, mentre fa abbastanza riflettere e dà anche l’idea di quanto Bruxelles si sia infilata in un cul de sac, il fatto che tra i clienti pronti ad aderire ci siano grandi gruppi dell’automotive europeo come Mercedes-Benz. Ma come, viene da chiedersi, l’Europa arranca nella transizione green perché non ha le materie prime che servono per «metterla a terra», tant’è che progetta di costruire circa 40 gigafactory nei prossimi anni e ha già messo dei dazi sulle auto cinesi, e poi i grandi player del Vecchio Continente finanziano il progetto di espansione in Europa del colosso di Pechino delle batterie che per gestire il fondo userà la Lochpine Capital, una società con sede a Hong Kong che era stata costituita nel 2023 dalla stessa Catl. Oltre a essere palese il controsenso. È anche evidente la difficoltà che ha l’Unione Europe di uscire dalla trappola che si è creata con le sue stesse mani. Servirebbe un cambio di passo. E se questo cambio di passo pensiamo di farlo attribuendo poteri e posti chiave agli architetti di questo disastro strategico e programmatico, cioè i Verdi, è evidente che siamo completamente allo sbando.
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