È passato da poco mezzogiorno di mercoledì quando Giorgia Meloni prende la parola per le repliche a Palazzo Madama dopo aver relazionato sulla posizione italiana prima del Consiglio europeo tenutosi ieri. Tra le colleghe che avevano preso la parola c’era stata la senatrice del Partito democratico Tatjana Rojc, la quale aveva invitato in modo molto chiaro il premier a sostenere la proposta di superamento del voto all’unanimità in seno all’Ue, oggi previsto per le questioni più importanti.
Lo sbobinato - preso dal sito del Senato - delle parole del presidente del Consiglio può sembrare banale, ma si tratta di uno spartiacque politico paragonabile forse al respingimento della riforma del Mes: «Senatrice Rojc, non sono favorevole ad allargare il voto a maggioranza all’interno delle istituzioni europee. Certo, varrebbe per l’Ucraina e sarebbe utile per l’Ucraina, ma varrebbe anche per molti altri temi. E su molti altri temi le posizioni della maggioranza potrebbero essere abbastanza distanti dalle nostre e da quelle dei nostri interessi nazionali, e la mia priorità rimane difendere gli interessi nazionali italiani. Le rispondo quindi dicendo che non intendo formulare - come lei mi esortava a fare - una proposta di revisione dei Trattati nel senso di allargare il voto a maggioranza in luogo dell’unanimità».
Si potrebbe a ragione sostenere che quella del superamento dell’unanimità sia «la» battaglia decisiva del futuro prossimo delle istituzioni comunitarie. A rendere molto rilevanti le parole di Giorgia Meloni è anzitutto la loro opposizione alla formidabile spinta politica scaricata nel dibattito negli scorsi mesi. Gli esponenti più autorevoli di Commissione, Consiglio Ue e Parlamento si sono fatti interpreti di una narrativa martellante che può essere riassunta così: per diventare una forza politica efficace sullo scenario globale l’Unione europea non può rimanere ostaggio di ciascuno dei 27 Paesi che la formano. Siccome il diritto di veto previsto dai Trattati rende impossibili scelte coraggiose, è ora di un salto di qualità che porti al suo superamento definitivo. Solo così si potrà far decollare la difesa comune, potranno corpo i famosi «giganti europei» e il Vecchio continente potrà posizionarsi tra le potenze in grado di decidere i destini del mondo.
Siccome la realtà va decisamente da un’altra parte, e la cronaca si incarica quasi quotidianamente di mostrarci che sono le dimensioni statuali più forti economicamente, demograficamente e/o militarmente a scandire gli equilibri, la narrativa innesta la tipica marcia del «ci vuole più Europa». E solo a partire dall’estate 2025 gli appelli a superare il diritto di veto sono provenuti con improcrastinabile urgenza da Enrico Letta, Mario Draghi e Romano Prodi. Il quale, irridendo il principio di non contraddizione, ha recentemente spiegato come il voto all’unanimità (nato a tutela dei diritti incomprimibili di ciascun Paese) sia «antidemocratico» e vada dunque rimosso. Dal momento che anche per superare l’unanimità servirebbe... l’unanimità, ecco che vengono costruiti stati di eccezione su cui forzare le regole, sfruttando le «passerelle» già create negli anfratti delle norme: e quale miglior «caso» dell’ingresso dell’Ucraina? La domanda della senatrice democratica Rojc al premier era infatti molto precisa (non è il caso di rimuovere il diritto di veto ungherese e forse slovacco sull’ingresso di Kiev?), e sorprendentemente precisa è stata la risposta: no, altrimenti si crea il precedente e domani toccherà a noi subire scelte contro i nostri interessi senza poter fare nulla.
Le parole del presidente del Consiglio posizionano così uno dei grandi Paesi fondatori dell’Ue in modo frontale contro il superamento dell’unanimità invocato da più parti, e soprattutto in piena collisione con gli auspici dell’istituzione che più di ogni altra pesa nell’assetto italiano: il Quirinale.
Non è un mistero che Sergio Mattarella abbia più volte premuto con forza questo tasto: già tre anni fa, prima delle elezioni politiche del 2022, ebbe a dire che «il voto all’unanimità è una formula ampiamente superata. È stato ridotto, a suo tempo, ma in maniera minima, perché si trasforma in un diritto di veto che paralizza l’Unione in un momento in cui i mutamenti e le crisi sono continui e richiedono decisioni non diluite nel tempo per essere assunte».
Ben più recentemente, il capo di Stato ha ribadito la stessa linea considerando necessario il superamento del diritto di veto per far avanzare l’integrazione politica dell’Europa, attingendo a piene mani al canovaccio retorico dell’«edificio incompiuto». In sede comunitaria, a tal proposito, è stata anche avanzata l’idea di «ridurre» questo diritto privandone i potenziali nuovi membri dell’Ue, tra cui l’Ucraina.
Come tutti i veri problemi, la linea di faglia è prepolitica e attraversa gli schieramenti, a cominciare dal centrodestra italiano. Tant’è vero che ieri mattina il ministro degli Esteri Antonio Tajani, pur rivendicando sulla manovra la primazia della politica sui tecnici, non ha avuto problemi a esternare una contrapposizione non proprio trascurabile con il capo del suo governo: «Meloni ha detto la sua opinione, io penso invece che si debba fare qualche passo in avanti».
Uno scambio ovviamente privo di conseguenze sul breve, ma che ha il merito di illuminare una partita cruciale per la forma e il destino della rappresentanza. Se infatti l’iniziativa di un qualunque governo di un Paese membro legittimato dal voto su politica estera, fisco, spesa, temi etici, può essere resa nulla da una maggioranza di Paesi di orientamento opposto, avrebbe ancora senso poi lamentarsi dell’astensionismo?



