2021-07-01
De Sfroos fa un inno agli «spaesati», custodi del saper fare a rischio estinzione
Davide Van De Sfroos (Ansa)
La nuova canzone del cantautore laghée carezza le mani callose di artigiani, contadini, operai. Messi da parte nel mondo globale. «Mai suonare il clacson a vanvera». È uno dei suoi punti fermi, se strombazzi hai perso e il nervosismo ha vinto. Lo ha scritto anche in un libro. E allora? «Allora l'imperativo è resistere, andare oltre con la mente, volando dentro universi paralleli o addirittura perpendicolari». Davide Van De Sfroos è tornato e ci sta dicendo - senza usare la petulanza del clacson ma la dolcezza di una chitarra folk - che stiamo lasciando indietro un mondo, lo stiamo perdendo. È il mondo delle mani callose sostituite dalle dita da computer, è il mondo dei lavori artigianali di qualità spazzati via dalle cineserie assortite, è il mondo di chi ha inventato il nostro mondo. E adesso si sente inutile davanti alle fanfare della transizione digitale.Il cantautore comasco li ha chiamati Gli spaesati, li ha messi in fila dentro un video che da due giorni è nei circuiti mediatici; sono le avanguardie dell'album Maader folk in uscita a settembre a sette anni dall'ultimo lavoro in studio. Spaesati perché senza paese, poiché la loro fatica di apprendisti, camerieri, contadini, idraulici, operai, manovali, magazzinieri rischia di valere meno del reddito di cittadinanza. Spaesati perché nei loro piccoli borghi cominciano a cogliere, fortissima, la differenza generazionale e di passo con figli e nipoti. Spaesati perché in questi due anni le case accanto si sono popolate di animali strani con le camicie a quadretti e i bermuda silinconvallici: sono i cinghiali metropolitani in smartworking.Il video con i consueti richiami surreali (la bella del paese non fa passerella sul carro ma su un trattore ultimo modello, accanto alle mucche nella stalla è parcheggiata una moto) è un acquerello o forse pura poesia. Racconta il popolo nascosto nei paesi dell'eterna provincia italiana, quello che per i media non esiste più e per la politica è stato rottamato dalla nuova Via della Seta. «Ci chiamano paesani ma siamo gli spaesati./ Facciam lavori vecchi con sogni mal pagati/ lavori da ostinati che sembrano spariti./ Siam gli ultimi brandelli di una bandiera vera,/ che non sai più se c'è ma che una volta c'era». Quello di Van De Sfroos non è un grido d'allarme né di dolore, ma la nitida fotografia di una resistenza silenziosa che non ha bisogno del 25 aprile per raccogliersi attorno ai principi. Quattro minuti di sociologia in musica che mandano in pensione, come in uno strike, Massimo Recalcati, Tomaso Montanari e Massimo Cacciari. Altitudini culturali sulle quali Fedez e J-Ax, come l'uccellino Woodstock dei Peanuts, perderebbero sangue dal becco. Nati contromano, cresciuti controvento, vissuti in contropiede, oggi - fra blockchain, bitcoin e bolle liberal con le calze arcobaleno - gli spaesati si sentono un controsenso. Sono coloro che resistono fuori dalle mode e forse dal tempo, aggrappandosi a ciò che più li rassicura, al valore più detestato dai guru del globalismo uniforme e grigio: l'identità. «Ho voluto dare voce a un popolo apparentemente nascosto», spiega il cantautore, «ma che con antica fierezza si ostina a vivere e lavorare in modi che oggi possono sembrare anacronistici o solo folkloristici. Eppure gli spaesati tengono teso il filo della nostra storia non per beffare i tempi moderni, ma per rispetto di quelli antichi». Oggi il problema è che «riconosciamo il posto in cui viviamo ma abbiamo perso il codice per capire chi saremo». Un concetto enorme.Nella ballata c'è la risposta alla domanda da convegno degli artigiani scettici sulla globalizzazione industriale: «Ma lei l'ha mai provata la soddisfazione di costruire una sedia a regola d'arte o di assaggiare una bresaola non plastificata?». Nella ballata c'è il riassunto di un aneddoto che Davide conosce da sempre, poiché vive a Tremezzina, il paese dove è nata la motonautica da corsa italiana. Un giorno Giorgetto Giugiaro, in visita al cantiere di Tullio Abbate, vide uno stupendo modello di motoscafo e disse: «È meraviglioso ma migliorabile. Dove sono i progetti?». Con un filo di imbarazzo Tullio rispose: «Nessun problema, adesso li facciamo». Aveva realizzato il bolide vincente con il genio e le mani, con la cultura derivata da suo padre Guido (che disegnava le carene con i gessetti sull'asfalto davanti al bar), con la scienza dei suoi maestri d'ascia. Che oggi hanno i volti scavati e sapienti dei vecchi del video. Van De Sfroos era stato via. Ha combattuto e vinto contro i draghi della depressione, ha ritrovato la sua musica e il suo popolo. Ha cercato sé stesso vagando nelle ghost town di pietra a mezza montagna dove il lago è un'ipotesi lucente. E nelle miniere della Valtellina «per avvertire la forza vitale delle viscere della terra». Anche lui forse si sente un po' spaesato. E in attesa di avere risposte positive dal lungo tour estivo che comincia da Como il 10 luglio e si chiude il 4 settembre al Carroponte di Milano, continua a riparare la memoria pur sapendo che il mondo vorrebbe farne a meno. L'ultima vittoria del popolo nascosto è rimanere al suo posto, anzi dentro il suo cloud. E non arrendersi mai, in attesa dell'inevitabile che in qualche modo con Mario Draghi sta già accadendo. «Sembriamo senza tempo/ sembriamo senza pace./ Ma chiamerete noi quando andrà via la luce».
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(Totaleu)
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