
Il Sultano è l'ultimo spauracchio sventolato per attaccare i sovranisti e minacciare gli elettori. Peccato però che il crac di Ankara non abbia nulla a che fare con le ricette di Palazzo Chigi. Che, semmai, si ispirano più a Donald Trump. I cui successi non fanno notizia...L'ultimo argomento usato contro il governo ha la faccia di Recep Tayyip Erdogan. Occhio, scrivono i critici di Matteo Salvini e compagni: a fare i sovranisti e sostenere che prima vengono gli italiani si finisce come la Turchia. Moneta al tracollo, inflazione da paura, investitori in fuga, economia in caduta, se non libera quasi. Il parallelo ovviamente ha un suo fascino, perché a votare per la Lega è stato essenzialmente il ceto medio e il ceto medio non ha nessuna intenzione di finire in bancarotta. Sì, certo, è preoccupato per i troppi immigrati e ha paura dei delinquenti che gli entrano in casa per rubare, ma tiene ancor più ai propri risparmi che, se svaniscono a causa del crollo della valuta, fanno sparire anche il pericolo di essere vittima di una rapina.Accostare dunque Erdogan, nazionalista e difensore dei valori religiosi del proprio Paese, può dunque funzionare per frenare l'avanzata leghista e la irresistibile ascesa di Salvini? La risposta è no e per molte ragioni. La prima è che Erdogan e Salvini non hanno nulla da spartire, anche se a qualcuno torna comodo accostarli. Il primo è un dittatore, il secondo nonostante dal giorno dopo la vittoria alle elezioni sia paragonato a Mussolini, Hitler e ora a Erdogan, con i tiranni non ha nulla a che fare. E per la verità non ha nulla in comune neppure l'idea sovranista propugnata dal capo della Lega con le idee da Gran Muftì del leader turco. L'economia turca non va male perché Erdogan si è messo a predicare slogan tipo prima i turchi, basta immigrati e flat tax per tutti, ma perché l'economia ormai è un mercato aperto e non va d'accordo con un Paese chiuso, dove le opinioni valgono un arresto. La circolazione delle merci va di pari passo con la circolazione delle idee. Fare affari, lasciare libertà di impresa, aprire agli stranieri comporta necessariamente una maggior libertà. Ma Erdogan negli ultimi anni, per paura di essere fatto fuori da un colpo di Stato, è andato direttamente nella direzione opposta, limitando la libertà di stampa, arrestando gli oppositori, mettendo in galera gli insegnanti che non insegnano il suo verbo, cacciando i magistrati che non sono d'accordo e destituendo i generali che manifestano perplessità di fronte all'imposizione dello Stato d'emergenza. La Turchia di Mustafa Kemal Atatürk, quella che guardava all'Occidente, oggi non esiste più. Esiste la Turchia nazionalista, quella che guarda a Oriente e sogna il ritorno dell'impero ottomano, un impero già sconfitto dalla storia.Mettere Salvini ed Erdogan sullo stesso piano dunque non è un errore, è una scemenza. Come una scemenza è confondere il nazionalismo con un programma politico che restituisca il potere agli elettori e favorisca i propri cittadini invece degli stranieri. Che c'entra la Turchia con l'Italia? Ma allora perché non guardare al sovranista più sovranista di tutti, la cui economia sta andando a gonfie vele, cioè Donald Trump? Il presidente americano è arrivato con un programma che privilegiava il ceto medio colpito dalla crisi e ha sfondato. Non solo fra gli elettori americani, ma nel mondo. Il goffo e politicamente scorretto Trump, colui che chiude ai migranti e invoca i dazi, che manda al diavolo la diplomazia e si presenta ai vertici internazionali rovesciando il tavolo, anche a costo di far infuriare amici e alleati, non ha mandato in bancarotta gli Stati Uniti, né li ha isolati. No, gli Usa oggi sono più forti di prima, quando c'era il democratico e politicamente corretto Barack Obama, ed è Trump a dare le carte. Dopo un periodo di debolezza e di incertezza, l'America è di nuovo lo zio Sam. Certo, è l'America e non l'Italia e poteva permetterselo. Ma allora che dire di altre economie che hanno fatto lo stesso e che hanno detto prima i nostri cittadini? La Gran Bretagna con la Brexit doveva fallire e invece, sebbene il percorso di uscita dall'Unione europea non si sia ancora concluso e nessuno sappia dire con esattezza come e quando finirà, il Regno Unito non è né in bancarotta né abbandonato da tutti. La sterlina è scesa un po', ma il commercio e l'economia non sono andati a rotoli, anzi. La disoccupazione non desta preoccupazioni e il numero di persone con un reddito in crescita aumenta. Dunque, fare scelte che favoriscano il proprio Paese infischiandosene della Ue è stato un errore? Ha trasformato l'Inghilterra in qualche cosa di diverso dal Paese che conosciamo? La risposta ancora una volta è no. L'elenco dei Paesi che hanno messo al primo posto l'interesse dei propri cittadini, rispondendo picche alle ingiunzioni del politicamente corretto, può continuare con l'Ungheria o altri Paesi dell'Est Europa che dopo settant'anni di comunismo hanno scelto l'Occidente. Nessuno di loro risulta in bancarotta: magari non piaceranno ai compagni, ma di certo fanno felici le persone che vi vivono.Il sovranismo, la chiusura agli immigrati, il diritto alla difesa e a un fisco normale, dunque non hanno nulla a che vedere con la dittatura. Così come non c'è l'ha Salvini con Erdogan. Anzi, a dire il vero, gli amici del Gran Muftì di Ankara sono altri, che al presidente turco hanno fatto un regalo da 6 miliardi di euro per tenersi i profughi che in parte lui stesso, con le sue mire sulla Siria e l'Iraq, aveva contribuito a creare.
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Oggi, a partire dalle 10.30, l’hotel Gallia di Milano ospiterà l’evento organizzato da La Verità per fare il punto sulle prospettive della transizione energetica. Una giornata di confronto che si potrà seguire anche in diretta streaming sul sito e sui canali social del giornale.
Clicca qui sotto per consultare il programma completo dell'evento con tutti gli ospiti che interverranno sul palco.
Evento La Verità Lunedì 15 settembre 2025.pdf
Dopo l'apertura dei lavori affidata a Maurizio Belpietro, il clou del programma vedrà il direttore del quotidiano intervistare il ministro dell’Ambiente e della Sicurezza energetica, Gilberto Pichetto Fratin, chiamato a chiarire quali regole l’Italia intende adottare per affrontare i prossimi anni, tra il ruolo degli idrocarburi, il contributo del nucleare e la sostenibilità economica degli obiettivi ambientali. A seguire, il presidente della Regione Lombardia, Attilio Fontana, offrirà la prospettiva di un territorio chiave per la competitività del Paese.
La transizione non è più un percorso scontato: l’impasse europea sull’obiettivo di riduzione del 90% delle emissioni al 2040, le divisioni tra i Paesi membri, i costi elevati per le imprese e i nuovi equilibri geopolitici stanno mettendo in discussione strategie che fino a poco tempo fa sembravano intoccabili. Domande cruciali come «quale energia useremo?», «chi sosterrà gli investimenti?» e «che ruolo avranno gas e nucleare?» saranno al centro del dibattito.
Dopo l’apertura istituzionale, spazio alle testimonianze di aziende e manager. Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, dialogherà con Belpietro sulle opportunità di sviluppo del settore energetico italiano. Seguiranno gli interventi di Maria Rosaria Guarniere (Terna), Maria Cristina Papetti (Enel) e Riccardo Toto (Renexia), che porteranno la loro esperienza su reti, rinnovabili e nuova «frontiera blu» dell’offshore.
Non mancheranno case history di realtà produttive che stanno affrontando la sfida sul campo: Nicola Perizzolo (Barilla), Leonardo Meoli (Generali) e Marzia Ravanelli (Bf spa) racconteranno come coniugare sostenibilità ambientale e competitività. Infine, Maurizio Dallocchio, presidente di Generalfinance e docente alla Bocconi, analizzerà il ruolo decisivo della finanza in un percorso che richiede investimenti globali stimati in oltre 1.700 miliardi di dollari l’anno.
Un confronto a più voci, dunque, per capire se la transizione energetica potrà davvero essere la leva per un futuro più sostenibile senza sacrificare crescita e lavoro.
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