
Il governo di Emmanuel Macron vara un'imposta del 3% sui ricavi delle grandi compagnie tecnologiche. Gli Usa non la prendono bene e arrivano a ipotizzare ritorsioni e dazi contro Parigi. L'Italia ha varato una legge ancora più dura, ma la tiene nel congelatore.Ennesimo dito francese nell'occhio di Donald Trump. Il Parlamento di Parigi ha infatti deciso l'introduzione di una «digital tax» (3% sul fatturato) a carico delle imprese fornitrici di servizi a utenti e consumatori transalpini. Ma - inutile girarci intorno - nel mirino ci sono proprio i giganti web e social americani, e non a caso in Francia l'hanno ribattezzata tassa Gafa, cioè Google-Apple-Facebook-Amazon. La misura sarà diretta contro le imprese che fatturino più di 750 milioni di euro l'anno, di cui 25 in Francia. Come La Verità ha più volte raccontato nei mesi passati, la Francia aveva spinto da tempo in sede europea, fallendo però l'obiettivo di trovare un consenso all'Ecofin del marzo scorso. E così adesso Parigi ha deciso autonomamente questa sorta di fuga in avanti. E lo stesso Emmanuel Macron, propagandisticamente, ha inserito il gettito atteso da questa misura (400 milioni quest'anno, 650 il prossimo) nel pacchetto delle coperture per le misure sociali che ha assunto nel tentativo di placare la protesta dei gilet gialli. Inevitabile, a questo punto, il ruggito di Trump. Robert Lighthizer, che è trade representative degli Usa, cioè il vertice della loro politica commerciale, ha comunicato di aver aperto un'indagine formale sulla Web tax francese, su impulso diretto della Casa Bianca. È la stessa procedura di tutela delle aziende Usa sul mercato internazionale che ha innescato il contenzioso con la Cina, per capirci. L'attrezzo normativo a cui l'amministrazione Usa fa ricorso è la famosa sezione 301 del Trade act del 1974. In una nota durissima (pubblicata anche su Twitter dall'account ufficiale @Ustraderep), gli americani affermano che la «Francia sta scorrettamente mirando la tassa contro certe compagnie basate negli Usa». Concetto ribadito direttamente da Lighthizer: «Gli Stati Uniti sono molto preoccupati che la tassa sui servizi digitali colpisca ingiustamente le aziende Usa. Il Presidente ha stabilito che noi dobbiamo investigare sugli effetti di questa legge, e che dobbiamo stabilire se sia discriminatoria o irragionevole, e se essa crei un onere o una restrizione sul commercio americano». La nota si conclude ribadendo l'impegno Usa a raggiungere un'intesa globale in sede Ocse su come adeguare la tassazione internazionale a un'economia sempre più digitalizzata. Anche il ministro francese dell'Economia, Bruno Le Maire, ha risposto via Twitter: «Gli Usa hanno deciso di aprire una procedura contro la nostra tassa nazionale sui servizi digitali. Tra alleati, dobbiamo regolare le nostre differenze senza minacce. La Francia è uno Stato sovrano, e decide sovranamente le sue disposizioni fiscali». Così, con toni - letteralmente - sovranisti, la dichiarazione del ministro dell'antisovranista Macron. Ma, a ben vedere, Parigi ha poco da stare tranquilla: Trump ha mostrato in più occasioni di non scherzare su questi argomenti, e l'ipotesi di dazi americani mirati contro la Francia si fa a questo punto assolutamente concreta, e perfino prevedibile. E l'Italia? Da almeno due leggi di stabilità, la Web tax è stata inserita come principio. L'ultima volta è stata proprio l'Ue ha sollecitare l'inserimento della misura nella manovra, forzando la mano ai gialloblù nel corso dello spossante negoziato dell'autunno scorso tra Roma e Bruxelles. La norma avrebbe colpito a un livello ancora più basso di quella francese: anche qui era stata infatti prevista un'aliquota del 3%, e - come bersaglio - le imprese con un fatturato superiore ai 750 milioni, ma - ecco la differenza - sarebbe bastato un fatturato di 5,5 milioni in Italia (non 25 come in Francia). Attenzione, però: per partire serviva un decreto attuativo (atto normativo subordinato, da concertare tra Mef e Mise) da realizzare entro quattro mesi dall'entrata in vigore dell'ultima manovra. Il termine sarebbe quindi scaduto il 30 aprile scorso. Ma la scelta politica è stata quella di frenare, dopo il già ricordato flop dell'Ecofin di primavera. E alla Verità risulta che il provvedimento non sia in agenda. Ne aveva parlato esplicitamente diverse settimane fa Fabrizia Lapecorella, che dirige il dipartimento Finanze del Mef, e che aveva evocato una «riflessione tecnica» proprio a seguito «delle implicazioni del fallimento dell'accordo europeo all'Ecofin». La sensazione è che l'Italia voglia attendere il lavoro che l'Ocse dovrebbe concludere nel 2020 su un'ipotesi «comprehensive», cioè complessiva, d'insieme, di tassazione dei servizi e delle attività digitali, allineando un numero elevato di Paesi, evitando fughe in avanti e inevitabili inneschi di guerre commerciali bilaterali. Le Maire, con ottimismo, spera che già il G7 in programma a Chantilly la prossima settimana, nel quale si troverà faccia a faccia anche con la controparte americana, possa avvicinare le posizioni, ma l'atto unilaterale francese difficilmente indurrà gli Usa a toni distesi. Irritare Donald Trump produce conseguenze e per l'Italia non è davvero il momento di farlo.
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Nella sua prima intervista, il Papa si conferma non etichettabile: parla di disuguaglianze e cita l’esempio di Musk, ma per rimarcare come la perdita del senso della vita porti all’idolatria del denaro. E chiarisce: il sinodo non deve diventare il parlamento del clero.