2019-11-29
Una violenza gratuita ogni due minuti. In banlieue si uccide per uno sguardo
Uno psichiatra infantile lancia l'allarme: in Francia si assiste a un'ondata di aggressioni per futili motivi. I responsabili sono spesso ragazzi magrebini disposti ad attaccare chiunque con i pretesti più banali.In Francia, dove le statistiche etniche sono proibite per legge e la morsa del politicamente corretto sui media è stringente, si è ormai consolidata una neolingua per descrivere la realtà in modo edulcorato. Quando, per esempio, in una notizia di cronaca compare una «banda di giovani», si può star certi che si avrà a che fare con una gang etnica. Jeune è ormai sinonimo di ragazzo della banlieue di origine magrebina o subsahariana. Il che la dice lunga su quanto l'emergenza delle periferie multietniche sia anche e soprattutto un problema giovanile. Lo si vede bene dalle cronache quotidiane. A settembre, per l'apertura delle scuole, Le Parisien raccontava le storie di alcuni ragazzi delle banlieue impossibilitati a recarsi in classe perché l'edificio si trovava nel «territorio» di qualche gang rivale. Nelle prime due settimane di corsi, nella sola Ile-de-France, si sono avute risse a Vigneux-sur-Seine, Champigny-sur-Marne e Saint-Denis. A dicembre 2018 le autorità avevano denunciato ben 80 attacchi ai licei. Se nelle scuole va così, nelle strade è peggio: i casi di attacchi violentissimi per futili motivi non si contano più. La banlieue si configura come un vero e proprio «dispositivo disciplinare», direbbe Michel Foucault, volto a creare giovani teppisti. Alcuni dei quali, poi, evolveranno in jihadisti. Sulla questione ha provato a fare il punto un libro appena uscito in Francia: Sur la violence gratuite en France (L'Artilleur), di Maurice Berger, che non è un libellista sovranista ma un tecnico: psichiatra infantile, docente alla Scuola nazionale della magistratura, dal 2014 lavora in un Centre éducatif renforcé (Cer), cioè una struttura per minori delinquenti multirecidivi pensata come alternativa al carcere. Ebbene, per Berger in Francia avvengono 777 atti di violenza gratuita al giorno (dati del 2017), ovvero uno ogni due minuti. Per «violenza gratuita» si intende un attacco non motivato da ragioni venali, cioè le classiche aggressioni per uno sguardo di troppo o per mero divertimento, ma che a volte possono essere mortali. Ora, anche se il titolo e il sottotitolo (Adolescenti iperviolenti, testimonianze e analisi) del saggio di Berger sono piuttosto neutri, all'interno l'autore è chiaro: «Nel 2013, il 60% dei bambini minori di 12 anni ospedalizzati nel mio servizio antiviolenza erano di origine magrebina, così come l'88% degli adolescenti ammessi al Cer nel 2018». Quindi sì, «da un punto di vista medico epidemiologico, c'è dunque un legame tra violenze gratuite e immigrazione». I numeri sono inequivocabili, è impossibile negarli. E allora si prendono altre scorciatoie, ad esempio con la denuncia della povertà o della ghettizzazione dei giovani di origine immigrata. Ma Berger non ci sta: «No, la violenza gratuita non è dovuta alla precarietà: come minimo il 50% dei genitori dei minori violenti lavora e non ha problemi finanziari […] dare 3.000 euro al mese a tutte le famiglie in situazione di precarietà non diminuirà per nulla il numero delle violenze gratuite». Quanto alla scusa del ghetto, l'autore chiarisce: «Si viene chiusi in un ghetto dagli altri», mentre nella logica clanica dei quartieri immigrati «la costrizione è interiore», sono i giovani a non voler lasciare le banlieue, cioè il loro «territorio». E allora come è spiegabile tale violenza? Berger dà una serie di spiegazioni, come ad esempio l'esposizione a violenze coniugali entro i primi due anni di vita, che concerne tra il 62 e il 69% dei giovani violenti. Altre motivazioni, però, sono più connotate in senso etnoculturale. Ad esempio, «un numero importante di famiglie di giovani violenti è incapace di vivere se non in grande prossimità gli uni con gli altri e dunque di allontanarsi dai quartieri difficili». È in questione, insomma, il «funzionamento clanico» dei gruppi familiari che Berger riconduce a una specificità magrebina e musulmana. Il che comporta alcune conseguenze secondarie di una certa gravità, come ad esempio la frequenza dei matrimoni tra consanguinei, che ricorre nel 20% dei giovani ospitati al Cer, ma che, secondo un'inchiesta di Reproductive Health, riguarda il 70% dei matrimoni in Pakistan, il 67% in Arabia Saudita, il 64% negli Emirati Arabi, il 39% in Tunisia, il 34% in Algeria e il 28% in Marocco. Secondo Lancet, tale pratica raddoppia il rischio di malattie genetiche nella comunità pachistana in Gran Bretagna. Tra queste malattie genetiche, molte riguardano deficit intellettivi, andando quindi ad aumentare il carattere problematico di molti di questi giovani. La struttura clanica delle famiglie si rispecchia poi nella «comunità» del quartiere: i giovani violenti non sanno stare da soli, ragionano sempre in termini di bande, di gang, adagiandosi così su un piatto conformismo. È qui che si sviluppa quella che Walter Laqueur, nel suo Gli ultimi giorni dell'Europa, chiamava «la cultura della posa cool», in base alla quale «per questi giovani è quasi come una droga stare in giro per le strade dopo la scuola, fare spese e vestirsi in modo elegante, gustare le conquiste sessuali, i party alla droga e la musica e cultura hip hop». È in questa cultura del branco, basata su un machismo esagerato (allo stesso tempo misogino e matriarcale: quasi tutti i giovani violenti esprimono il desiderio di andare a vivere «vicino alla mamma») che si sviluppa l'abitudine alla violenza gratuita, che è una forma di dominio del territorio. È quella che il sociologo e geografo Christophe Guilluy, nel suo Fractures françaises, chiama la guerre des yeux: «I piccoli delinquenti hanno sempre cercato di marcare il territorio imponendo allo “straniero" di abbassare gli occhi. […] La posta in gioco di questa “guerra degli occhi" non è anodina: si tratta di determinare chi domina e chi è dominato, una questione essenziale in ambiente popolare, specialmente tra i giovani uomini». La violenza, così come l'illegalità, è del resto ampiamente tollerata in banlieue, se non come scelta di vita, almeno come fase di passaggio giovanile. Poi, dicono i più anziani, «ci si riprende». Chiosa Berger: «Un professionista del Cer di origine algerina e ben informato mi spiega cosa significa “riprendersi": arriva un salafita alla ricerca di giovani in perdizione e indica loro che possono commettere atti illegali a condizione di non andare in moschea durante il periodo in cui li commettono». È la storia dei vari Salah Abdeslam, passati disinvoltamente dalle giornate vuote, tra hashish e Playstation, al rigorismo religioso con esito stragista. Le due dimensioni esistenziali, del resto, talvolta finiscono per convivere maldestramente. Nel loro La tentation radicale, inchiesta condotta su 7000 liceali francesi di ogni estrazione, Olivier Galland e Anne Muxel hanno mostrato come un 24% dei ragazzi intervistati non condannasse totalmente l'attacco a Charlie Hebdo e un 13% quello del Bataclan. Percentuali che crescono vertiginosamente nei liceali definiti «più tolleranti alla devianza e alla violenza» (58 e 34%), tra gli studenti nati all'estero (41 e 21%) e tra gli alunni musulmani (45 e 24%). Nelle banlieue, insomma, sono sempre di più i ragazzini che crescono pensando che il terrorismo stragista non abbia tutti i torti. Ma per uccidere, a molti di loro, basta anche meno della jihad: anche solo uno sguardo di troppo.