2022-03-29
«Un viaggio nel tempo a Pozzuoli, così era il mio “Ritorno al futuro”»
Ernesto Gastaldi (ernestogastaldi.com)
Il grande sceneggiatore e regista Ernesto Gastaldi si racconta: «Potevo anticipare la pellicola Usa, ma Carlo Ponti disse no. Scrissi una versione di “C’era una volta in America” in cui il protagonista Noodles si suicidava nel fiume».Ernesto Gastaldi, classe 1934, un vulcano di idee che ha partorito un centinaio di sceneggiature e una decina di libri. Si starebbe per ore ad ascoltare le sue mirabolanti avventure nel cinema italiano che ha attraversato in lungo e in largo, spaziando tra tutti i generi. Per quindici anni ha frequentato Sergio Leone, con il quale condivideva la capacità di ammaliare il pubblico, non solo in una sala cinematografica.Quando ha conosciuto Leone? «Nel 1973, quando il direttore di produzione Piero Lazzari mi portò da lui, dicendomi: «Sei la maglia numero 23». «Che vuol dire?». «Vuol dire che ne ha già mandati via ventidue!». Fregnacce che si dicevano. La verità è che Sergio ne Il mio nome è Nessuno aveva cercato di fare l’Odissea in chiave western e non ci era riuscito. Quando arrivai io, aveva già rinunciato e voleva fare un altro film. Era rimasto quel titolo perché gli piaceva».La sceneggiatura l’hai scritta lei? «Sì, scrivevo le scene di notte e gliele leggevo di giorno. Lui le commentava e quando c’era un gruppo di scene un po’ corposo, chiamava mezzo cinema italiano e cominciava a raccontare come se girasse il film, con i suoi tempi micidialmente lunghi».Chi era presente? «Terence Hill, Luigi Magni, Damiano Damiani, Michele Lupo, che doveva fare lui la regia, e altra gente che non ricordo».Qualcuno si permetteva di obiettare? «Ma va’! Lui spiava le facce perché sosteneva che se le scene erano interessanti, la gente ascoltava con piacere, se sbadigliava o si distraeva, non funzionavano!».Perché fece fuori Michele Lupo? «Si era verificato un intoppo nella storia e Sergio disse: «Metto in palio tre milioni di lire per chi riesce a trovare una bella soluzione». C’eravamo io, suo cognato Fulvio Morsella, Michele Lupo, forse Terence Hill. Io tornai a casa e lo raccontai a mia moglie Mara che mi diede il suggerimento giusto. Poi Sergio non le diede i soldi, le regalò una pelliccia! Una volta raccontata questa cosa che mi sembrava semplice, Michele, non so perché, disse: «Non ho capito» e su questo «non ho capito» Sergio lo mandò via. Secondo me, aveva già deciso di mandarlo via prima...».E subentrò Tonino Valerii.«Non è entrato nessuno per parecchio tempo, con Terence Hill che pregava in ginocchio Sergio che lo facesse lui. Sergio mi diceva: «Io non dirigerò mai Trinità!», però Terence non lo sapeva, lo diceva solo a me. Io chiedevo a Lazzari: «Quando deve cominciare il film?». «Tra quattro settimane». «Come tra quattro settimane se non avete il regista?!». Mi venne in mente Tonino Valerii, mio compagno al centro sperimentale di cinematografia e aiuto regista di Leone in Per qualche dollaro in più. L’ha chiamato, anche se Tonino raccontava questa storia in un altro modo».Come la raccontava? «Tonino raccontava che un anno prima Sergio lo aveva contattato e lui aveva detto di no perché temeva quello che sarebbe successo: qualcuno avrebbe detto che il film era diretto da Leone».La polemica tra Valerii e Leone sulla paternità del film è sorta immediatamente? «No, è nata per colpa di George Lucas che ha detto a Sergio: «Il tuo miglior film è Il mio nome è Nessuno». Sergio non ha mai detto che l’ha girato lui, ma ha lasciato che gli altri lo pensassero. In realtà, Sergio girò due-tre sequenze in Spagna, tra l’altro le più brutte del film. Tonino sapeva che a Roma c’era Sergio che guardava i giornalieri. Immagina lo stress.. per cui Tonino fu fedele alla sceneggiatura e cercò di girare come lui. Per questo molti critici esclamarono: «Ma è Sergio Leone!». E invece era Tonino Valerii che imitava Sergio Leone così bene da trarli in inganno».Le hai più lo spirito dello sceneggiatore, consapevole che una volta consegnato il copione può capitare qualunque cosa? «Riccardo Freda girava L’orribile segreto del Dr. Hichcock. Era un genio, come può essere un genio uno che gioca a scacchi su quattro scacchiere: dirigeva tre troupe contemporaneamente che giravano tre pezzi dello stesso film, in una villa ai Parioli, e in dodici giorni lo ha finito. Mi chiamò verso la fine delle riprese e mi disse: «Ti dispiace se strappo le ultime pagine?». «Non mi frega niente, però non si capirà più niente». E lui: «Appunto!». Aveva ragione perché il film ha avuto gran successo proprio perché non si capiva nulla».Sempre con Leone produttore scrisse Un genio, due compari, un pollo.«Questo è uno dei copioni che è stato stravolto. Damiano Damiani non voleva dirigerlo, voleva fare un western suo. Il film era un po’ come La stangata, aveva un intreccio complesso, io cercai in tutti modi di spiegarglielo, lui non capiva, o non voleva capire, e lo trasformò in una farsa».Quanto tempo impiegava a scrivere una sceneggiatura? «Un mese, grosso modo. I lunghi capelli della morte di Antonio Margheriti lo scrivemmo in una notte io e Valerii perché avevamo portato il soggetto al produttore Felice Testa Gay, il quale ci aveva detto: «Se me l’aveste portato due settimane fa, avrei fatto questo, perché sto partendo con un film che non mi sembra vada bene. Se ci fosse un copione…». Io: «Ma c’è il copione!». «Allora portatemelo domani mattina». Scrivemmo tutta la notte...».Ha fatto anche il regista. Con il suo film d’esordio, Libido, codiretto nel 1965 con Vittorio Salerno, ha dato vita a un genere, il thriller erotico.«Libido, che era costato ventisei milioni di lire perché girato in bianco e nero, svegliò l’attenzione di Luciano Martino e Mino Loy che dissero: «Subito i gialli». Non c’era ancora Dario Argento. Poi seguirono Il dolce corpo di Deborah, Così dolce... così perversa e così via. Furono i venditori esteri a decretare il successo di Libido perché capirono che all’estero sarebbe funzionato. Gli stessi che mi impedirono di fare i film che avrei voluto fare, i film di fantascienza».È un genere che in Italia non ha mai attecchito.«Alla fine degli anni Sessanta, proposi una storia simile a Ritorno al futuro a Carlo Ponti: un ragazzo rimaneva incastrato in una specie di ciclo temporale e si ritrova indietro nel tempo, nel 1939, a Pozzuoli dove i suoi genitori stanno per sposarsi. C’erano delle gag su Sophia Loren, che la divertirono molto. La voce fuori campo diceva: «Vedete quelle due ragazzine con gli zoccoli, una sposerà il figlio del duce, ma non è questa la notizia...», come quando in Ritorno al futuro dicevano che Reagan era il presidente degli Stati Uniti e il commento era: «Allora John Wayne è il ministro della guerra!». Aveva lo stesso spirito, ma non è che hanno copiata la mia storia, non l’ha letta nessuno!».E Ponti? «Forse nemmeno lui. Dopo molti anni, quando tornò in Italia ed era uscito Ritorno al futuro, mi disse: «Ma dovevi battermi i pugni sul tavolo». «No, dovevo batterli su quella testa pelata!». Questa storia la raccontai a destra e a manca, l’unico che forse l’avrebbe fatta era Angelo Rizzoli, il vecchio commenda, che però morì tre giorni dopo».Cosa ha provato quando Stephen King nel romanzo Shining e poi Stanley Kubrick nel film omonimo hanno utilizzato l’espediente dello scrittore che batte a macchina sempre la stessa frase, da lei ideato ne Il tuo vizio è una stanza chiusa e solo io ne ho la chiave? «Non credo che l’abbia copiato da me, francamente. Non è così strano che due scrittori pensino questa cosa: scrivendo capita di rimanere incastrati su un’idea che non viene. Nessun colpo di genio».Se non fosse che quella frase diventa lo specchio della pazzia del protagonista, uno scrittore in entrambi i film.«Per fortuna l’ho scritto per primo, altrimenti sarebbe ovvio che l’avevo copiato!».Per C’era una volta in America Leone le diede da leggere il romanzo Mano armata di Harry Grey e le scrisse il trattamento basandosi su di esso? «Sono rimasto fedele al romanzo, che era bellissimo, non c’era bisogno di aggiungere granché. Il mio trattamento cominciava dalla fine con Noodles che scappava dalla polizia con una macchina e si buttava nell’Hudson. La macchina scendeva in fondo al fiume, dove galleggiavano cose moderne, poi la camera da presa inquadrava oggetti rococò, veniva su e si era nel 1929».Noodles sarebbe morto? «Sì. Era tutto logico nel libro, non è che Max faceva scambiare il suo cadavere con un altro per sparire dalla circolazione… Sergio non ha potuto girare la scena chiave. Prova a immaginarla: la polizia ammazza tutti meno uno, e già questo è un problema, poi dopo la carneficina devono bruciare i corpi e avere pronto un cadavere bruciato per far finta che Max sia morto, ma ti rendi conti? Questo è quello che racconta il film, Leone non lo fa vedere perché non si può far vedere una cosa simile».Mentre nel suo trattamento a Max cosa accadeva? «Moriva insieme a tutti gli altri, ovviamente. La mafia cerca Noodles per ucciderlo in quanto ha tradito il suo amico, denunciandolo per un traffico di alcolici. In realtà, pensava così di poterlo salvare. Max scappa e dopo trent’anni la mafia gli dice: «Abbiamo sempre saputo dov’eri, avremmo dovuto ucciderti trent’anni fa, non l’abbiamo fatto, adesso ci serve un favore. Vieni: fai quello che ti diciamo o ammazziamo tutta la tua famiglia». Noodles sa che deve pagare questo debito, quindi va, ammazza il politico, che ovviamente non è Max, poi scappa, facendosi prima riconoscere in modo che la mafia sia contenta, e si suicida buttandosi nell’Hudson. Fine della storia».Perché non scrisse la sceneggiatura? «Il trattamento lo scrissi nel 1977. Leone disse: «Domani andiamo negli Stati Uniti a incontrare Robert De Niro». Io non potevo partire perché mia moglie aveva appena partorito. Leone si offese: «Stai perdendo una grande occasione». Io gli risposi: «E tu perdi tre battute, tanto questo film se lo farai, sarà sceneggiato dagli americani, quindi rimarranno tre battute». De Niro nel frattempo è invecchiato perché sono passati altri sette anni prima che Leone realizzasse il film!».