2018-07-15
Un Papa nero potrà salvare l’Africa da scafisti e preti in maglietta rossa
Il continente, che oggi rappresenta una speranza per tutto il mondo cattolico, sconta da sempre mali endogeni. L'esempio di Daniele Comboni, il santo il cui motto certi uomini di Chiesa dovrebbero ricordare.L'Africa è nella mia testa e nel mio cuore sin da quando, ancora bambino, vedevo un frate francescano che a piedi scalzi, magrissimo, con la bisaccia sulla spalla, girava per raccogliere offerte per i bambini dell'Etiopia. Poi le riviste missionarie, la passione per Daniele Comboni, e la consapevolezza, raggiunta recentemente, che l'Africa rappresenti oggi una speranza per tutto il mondo cattolico, essendo il luogo in cui la fede continua a conquistare nuove menti e nuovi cuori.Come molti altri cattolici europei sono tra coloro che sperano che avremo un giorno un Papa nero, come cantavano i Pitura Freska, nel 1997, in dialetto veneziano. Se poi potessi scegliere io, avrei anche già il nome: il cardinal Robert Sarah, perfetta incarnazione di ciò che di meglio possono dare l'Europa ex cristiana (Sarah deve la sua fede ai missionari francesi) e l'Africa di oggi, con il suo innato senso religioso.Detto questo, proprio lo studio di Daniele Comboni e dell'Africa del suo tempo, mi rende particolarmente odioso il razzismo al contrario di molta sinistra odierna, così come la narrazione dominante secondo cui tutti i mali dell'Africa sarebbero colpa dell'Occidente, da scontare oggi attraverso una accoglienza indiscriminata e dissennata.La verità storica è che l'Africa sconta da sempre anzitutto mali endogeni, di cui gli africani sono gli unici responsabili, così come noi europei siamo gli unici colpevoli di tante nostre disgrazie. Prendiamo per esempio la schiavitù: si parla sempre del ruolo avuto dagli schiavisti europei, inglesi in primis, senza ricordare però che ben prima della cosiddetta «tratta occidentale» (cioè quella che ha portato a circa 11 milioni di africani schiavizzati soprattutto nelle Americhe), esisteva la tratta interafricana, cioè quella in cui i protagonisti erano proprio gli africani, che si schiavizzavano tra di loro e che, ad un certo punto della storia, trovarono nuovi acquirenti: gli europei, appunto.Per quanto riguarda la schiavitù, dunque, l'Africa, che ancora oggi conosce questo dramma, ha le sue colpe, così come gli schiavisti occidentali hanno le loro. Verrebbe da chiedersi: non accadeva allora ciò che avviene oggi? Non è forse vero che anche ai nostri tempi ci sono schiavisti africani che gestiscono la tratta di carne umana in combutta e in accordo con le mafie nostrane di vario genere e con gli interessi nascosti del grande capitale occidentale?Partecipando ad un convegno in un ateneo cattolico romano, nel 2015, Samia Nkrumah, parlamentare ghanese e figlia del primo presidente della repubblica ghanese, affermava: «Mio padre diceva sempre che l'Africa è ricchissima e gli africani sono poveri: dobbiamo riuscire a controllare la nostra economia e metterla al servizio del welfare degli africani, sganciandoci dai meccanismi dei prestiti internazionali». Pensava la stessa cosa san Daniele Comboni, colui che ha regalato al continente nero scuole, ospedali e università che l'Africa non aveva mai conosciuto. Daniele Comboni aveva un motto, che i preti amanti della maglietta rossa, compreso il comboniano Alex Zanotelli, dovrebbero ricordare: «Salvare l'Africa con l'Africa!». Fu il manifesto di tutta la sua vita. Ma chi era costui?Daniele Comboni nasce a Limone sul Garda, tra il Trentino e il bresciano, il 15 marzo 1831, quarto di otto figli, in una famiglia piuttosto povera. Nel 1842 entra nell'Istituto fondato da don Nicola Mazza, in particolare per gli orfani e i poveri. Oltre che a costoro, don Mazza ospita nel suo istituto dei giovani africani: vuole farli studiare e poi rimandarli in patria, perché aiutino il loro Paese. Proprio dopo averli conosciuti, Comboni inizia a sognare questa terra lontana, soprattutto il Sudan, o Nigrizia, come veniva chiamato allora, in mano all'Egitto musulmano di Mohammed Alì. A 26 anni Comboni parte per l'Africa per la prima volta. Il primo viaggio dura dal 1857 al 1859. Il secondo viaggio in Africa - che gli appare subito, come all'esploratore italiano Pellegrino Matteucci, «terra inospitale» e nello stesso tempo «sirena incantatrice» -, va dal 1860 al 1861 e ha come fine quello di acquistare, a nome di don Mazza, giovani ex schiavi liberati, per portarli a Verona, istruirli e rimandarli in patria. Nel 1864, mentre prega nella basilica di San Pietro a Roma, Comboni concepisce un «piano per salvare l'Africa», che contiene le linee guida della sua futura azione di apostolato e della fondazione dell'Istitituto maschile (1867) e di quello femminile, nel 1871. Per Comboni occorre salvare l'Africa con Cristo e con gli africani; occorre costruire scuole, ospedali, università, per loro e con loro. Occorre, soprattutto, liberarli da alcuni mali che li mantengono nel sottosviluppo.Comboni ha in testa almeno quattro obiettivi. Il primo: occorre cambiare la «femminil società africana», visto che uno dei grandi mali endogeni dell'Africa, animista e islamica, è la condizione della donna, sottomessa, tra le altre cose, alla poligamia. In Africa, scrive, la «donna non è persona, ma è cosa di commercio e di capriccio, non altrimenti che una pecora o capra, cara al padrone soltanto se porta utile e diletto». Poligamia e promiscuità sessuale, così diffuse in Africa, nota Comboni, portano alla nascita di tanti bambini che nessuno desidera, e che finiscono poi abbandonati, orfani e schiavi.Il secondo obiettivo è contrastare il fatto che gli africani dormono spesso all'aperto, o in caverne, o in case di paglia e di fango, inconsistenti, fragilissime, fetide, malsane, zeppe di ragni, serpenti e insetti nocivi, esponendosi più facilmente alle malattie, alle infezioni, al freddo e al caldo. Nelle città non vi sono né scuole, né ospedali, né fognature, e l'acqua putrida favorisce le infezioni.Il terzo obiettivo, raggiungibile, come tutti gli altri, anzitutto attraverso l'evangelizzazione, è sconfiggere la superstizione e il fatalismo, che rendono questi popoli incapaci di cercare rimedi, di affrontare attivamente le difficoltà di fonte alle pestilenze, alle malattie, alle carestie. Comboni lamenta di non trovare in tutta l'Africa un «medico che conosca i primi elementi di medicina e di chirurgia». A quest'epoca le potenze europee si sono in parte impegnate a contrastare la schiavitù, con una dichiarazione condivisa al congresso di Vienna. Ma i suoi veri avversari sono missionari protestanti come Livingstone e Stanley, e missionari cattolici come madre Javouhey, Libermann, Marion de Bresillac, Massaia, l'arcivescovo Lavigerie, fondatore della Società dei missionari d'Africa, e, con l'ausilio di Leone XIII, della Societè antiesclavagiste, don Nicola Oliveri, don Nicola Mazza, padre Ludovico da Casoria… e molti altri. Anche l'Egitto, ufficialmente, contrasta la tratta degli schiavi, ma poi, di nascosto, la protegge o la ignora. A cinquant'anni Comboni è un uomo che si è speso senza misura: conosce varie lingue, ha viaggiato attraverso le foreste e i deserti, ha vinto numerose malattie, ha bussato alle corti europee, ha trovato il favore del papa Pio IX e di don Giovanni Bosco; si è conquistato l'appoggio e la stima di capi di Stato musulmani e, lui austriacante, di italiani garibaldini e anticlericali come Romolo Gessi e Luigi Pennazzi.Nella sua evangelizzazione ha costruito scuole ed ospedali, insegnando a scrivere, a praticare i mestieri grazie all'esempio di falegnami, muratori, sarti, calzolai, fabbri, contadini, spesso venuti direttamente dall'Italia; inoltre ha cercato di «introdurre il modello familiare cattolico», il rispetto della donna e dei figli, la fedeltà coniugale.Ora, pochi anni prima della conferenza di Berlino del 1884, festeggia il suo compleanno a Khartoum con dignitari turchi ed egiziani, consoli d'Austria e di Francia. Ma è consumato dalle fatiche e dalle malattie. Di lì a poco, il 10 ottobre 1881, anche il suo fisico eccezionale cede definitivamente e Comboni muore. Ha dato la sua vita, come avrebbe voluto, per la «rigenerazione dell'Africa», con l'Africa. Facendo nel modo migliore possibile ciò che i veri missionari hanno sempre fatto e continuano a fare.
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