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2024-09-18
Saltano i soldi del G7 a Kiev: sborserà l’Ue
Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, insieme a Volodymyr Zelensky, leader ucraino (Ansa)
Doccia fredda per l’aiuto da 50 miliardi all’Ucraina annunciato in occasione del summit dei leader dei Paesi del G7 in Puglia a metà giugno. Arriva dallo scoop apparso ieri in prima pagina sul Financial Times, che rivela il piano B approntato dalla Ue, qualora il piano A vacillasse, come in effetti sta accadendo. E il ruolo dell’Ungheria di Viktor Orbán, a cui il Ft attribuisce la pesante responsabilità dello stallo, è solo una foglia di fico per coprire il ruolo decisivo degli Usa nella vicenda.
Secondo le autorevoli indiscrezioni raccolte dal quotidiano londinese, la Ue si sta preparando a prestare, in totale autonomia, fino a 40 miliardi di euro all’Ucraina entro fine anno, facendo leva su un’autonoma capacità di indebitamento nell’ambito del proprio bilancio, utilizzando uno strumento di aiuti a Kiev già operativo da tempo che però cesserà di essere efficace tra quattro mesi. E non c’è tempo da perdere, perché si stima che le casse di Volodymyr Zelensky nel 2025 abbiano bisogno di 35 miliardi di euro. La necessità di correre a predisporre un piano alternativo ruota tutta intorno alla difficoltà tecnica - di cui ci avevamo riferito ripetutamente ancor prima del G7 pugliese - nell’utilizzare i fondi russi sequestrati all’inizio della guerra per finanziare gli aiuti all’Ucraina. Si tratta di 260 miliardi di euro, in gran parte detenuti nella Ue dal depositario centrale belga Euroclear, in grado di generare proventi annui netti intorno a 3 miliardi. Il piano A tuttora prevede che Ue e Usa si indebitino per 20 miliardi di dollari ciascuno e Uk, Canada e Giappone forniscano altri 10 miliardi, per erogare quindi a Kiev aiuti complessivi per 50 miliardi, sotto forma di prestiti e sussidi.
Spentasi la luce dei riflettori sul meeting all’ombra degli ulivi, tutto sembrava doversi limitare alla definizione di alcuni dettagli tecnici. Invece il diavolo sta nei dettagli. Poiché da Washington hanno preteso una elementare clausola di salvaguardia e cioè la certezza legale che i fondi russi, che sono la garanzia per ripagare le obbligazioni da emettere per finanziare l’Ucraina, restino sequestrati fino alla scadenza delle suddette obbligazioni. Altrimenti quale investitore comprerebbe titoli la cui garanzia rischia di volatilizzarsi da un momento all’altro? Negli Usa volevano essere sicuri di non rischiare il coinvolgimento del contribuente americano e passare pure dal voto del Congresso.
E qui entra in gioco Orbán, poiché il sequestro dei fondi russi fa parte di un pacchetto di sanzioni che deve essere rinnovato ogni sei mesi, con voto all’unanimità, finora sempre concesso anche dall’Ungheria. Gli Usa hanno logicamente richiesto il prolungamento di tale periodo, da almeno 36 mesi fino a 5 anni, perché non è sostenibile che ogni 6 mesi la garanzia dei fondi russi sequestrati rischi di svanire. Secondo le fonti del Ft, Orbán ha risposto che qualsiasi ipotesi di prolungamento della scadenza delle sanzioni sarà discussa solo dopo le elezioni Usa del 5 novembre e quindi la condizione richiesta da Washington non può, al momento, essere soddisfatta.
Da qui il piano di emergenza di Bruxelles, che per aumentare la portata (tra 20 e 40 miliardi di euro) dello strumento esistente di sostegno a Kiev può decidere a maggioranza qualificata, superando il veto del governo di Budapest. Ma questo è il nodo inestricabile di tutta l’operazione, noto sin dal principio, che prima o poi doveva venire al pettine. Infatti, esclusa l’ipotesi «suicida» della definitiva confisca di quei fondi, il sequestro, per sua natura, non può che essere provvisorio. Destinato a cessare quando - speriamo al più presto - ci saranno gli accordi di pace. In questo senso, la volontà di Orbán di rivotare ogni sei mesi ha una sua coerenza. Perché pensa e auspica che a breve tutto possa cambiare, e allora non hanno senso sanzioni con scadenze molto lunghe. Proprio per questo motivo, i proventi derivanti da quei fondi non possono essere considerati stabilmente al servizio di un debito che potrebbe avere durata di almeno 5 anni. È l’ABC della finanza che è stato considerato polvere da spazzare sotto il tappeto fino a quando ha prevalso il «fumo» dei proclami roboanti in favore di telecamere, ma che è emerso rapidamente quando si è arrivati all’«arrosto» dei testi legalmente vincolanti.
Se, con una mano, la Ue, tra mille difficoltà, cerca di indebolire finanziariamente Mosca, con l’altra continua a finanziare a piene mani l’industria russa del gas. Indebolitosi il flusso via tubo verso la Ue, non accenna invece a calare quello via nave sotto forma di gas naturale liquefatto (Gnl) che approda soprattutto nei terminali spagnoli, francesi e belgi e poi viene riesportato in tutta l’Ue, Italia compresa. Ed è proprio il Paese del neo commissario Teresa Ribera - a cui, per ironia della sorte, è stato affidato il portafoglio della concorrenza e della transizione «pulita» - a creare il maggiore imbarazzo, seguita a ruota dalla Francia.
Gli ultimi dati Eurostat segnalano importazioni Ue dalla Russia per 4 miliardi di euro nei primi sette mesi del 2024 (contro 5,5 dello stesso periodo del 2023) che, a causa del calo dei volumi importati complessivamente, portano comunque la quota russa dal 13,3% al 18,6%. Nel caso della Spagna siamo a una quota di Gnl russo importato che è salita dal 28% al 34%, per un valore di ben 1,4 miliardi pagati da Madrid a Mosca nei primi otto mesi, in aumento di 2,3 volte rispetto al 2023. Un boomerang per la Ue, che però ha salvato la Spagna - ricca di rigassificatori lungo le proprie coste - dalla fase più acuta della crisi dei prezzi del gas.
La Difesa stanzia 1,4 miliardi in più per il tank di Leonardo e Rheinmetall
L’Europa s’è messa l’elmetto, ha nominato il suo primo commissario alla Difesa (sarà il lituano Andrius Kubilius) e anche l’Italia sta giocando la sua parte nella stagione del riarmo, motivata dalla minaccia russa. Il nuovo Documento programmatico pluriennale 2024-2026 (Dpp), appena pubblicato, assegna infatti risorse ingenti a tre investimenti cruciali: quello sugli F-35, già previsto, che archivia definitivamente la fase delle sforbiciate in salsa pacifista; e quelli che includono risorse aggiuntive da indirizzare sul tank e sul cingolato da combattimento di Leonardo e Rheinmetall.
Nel prossimo triennio, Roma acquisterà altri 25 caccia di nuova generazione, per una spesa complessiva di 7 miliardi di euro. La flotta dei jet multiruolo passerà così da 90 a 115 velivoli, compresi quelli di tipo B, a decollo corto e atterraggio verticale. Tra l’altro, nell’intervista rilasciata ieri a Repubblica, il premier britannico, Keir Starmer, ha messo a tacere una volta per tutte la polemica sui tagli al programma di sviluppo della piattaforma di sesta generazione. Parliamo del caccia multiruolo stealth Tempest, alla cui realizzazione, dal dicembre 2022, collabora anche il Giappone, che ha fatto confluire nel cantiere i progetti per l’F-X della Mitsubishi. «Ho fatto colazione anche con Leonardo», ha spiegato l’inquilino di Downing Street, giunto in visita nella Capitale, «e ho detto chiaramente che il Tempest è un progetto molto importante. È vero, c’è una “strategic review” in corso, ma non toccherà piani simili».
Come ha notato per prima Rivista italiana difesa, però, la vera novità del Dpp sono gli stanziamenti per i blindati. Il carro da battaglia dell’esercito sarà finanziato con altri 1,4 miliardi, il che porterà il totale della somma impegnata a 5,5 miliardi, su un fabbisogno complessivo di 8,2 miliardi. Entro fine mese, si costituirà la joint venture Leonardo-Rheinmetall per la costruzione del mezzo. La base di partenza per il carro armato, stando al comunicato congiunto delle società risalente a luglio, dovrebbe essere il Panther dell’azienda tedesca, anche se il faldone preparato dal ministero della Difesa non vi fa cenno. Allo stesso modo, il documento non conferma se il modello del nuovo cingolato per la fanteria, nell’ambito del programma Armored infantry combat system, sarà l’Ifv Lynx. I fondi ad hoc aumentano di 1,2 miliardi, passando a 6,4 sul fabbisogno complessivo di 15.
Sono grandi manovre, che tuttavia soltanto in parte alimentano l’ambizione di una Difesa comune europea. Muove di sicuro in quella direzione la partnership tra Leonardo e Rheinmetall, mentre i piani per il caccia del futuro guardano ben oltre i confini dell’Unione: coinvolgono sia un Paese ormai separato da Bruxelles, come il Regno Unito, sia i nipponici, che per ovvi motivi geografici sono fuori pure dalla Nato, ma esercitano una funzione fondamentale in quell’area dell’Indo-Pacifico, nella quale si sta svolgendo un pericoloso risiko tra l’Occidente, i suoi alleati e la Cina.
Intanto, il dicastero di Guido Crosetto ha partorito una nuova nomina: su proposta del ministro, il cdm ha deliberato di assegnare al generale Luciano Antonio Portolano l’incarico di capo di stato maggiore della Difesa. Il 4 ottobre, il militare prenderà il posto dell’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, che a gennaio diventerà chairman del Comitato militare Nato. Cavo Dragone sarà pure consigliere di Crosetto per le relazioni con l’Alleanza atlantica. In questa fase, idilliache.
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Niente accordo sui 50 miliardi da ricavare dagli asset russi congelati: troppe difficoltà tecniche, compresa l’opposizione di Viktor Orbán a prorogare di 5 anni le sanzioni. Bruxelles vorrebbe intervenire erogandone 40, ma per farlo dovrà rinunciare all’unanimità dei 27.Ai cingolati 1,2 miliardi aggiuntivi, 7 agli F-35. Keir Starmer: «Avanti col progetto Tempest».Lo speciale contiene due articoliDoccia fredda per l’aiuto da 50 miliardi all’Ucraina annunciato in occasione del summit dei leader dei Paesi del G7 in Puglia a metà giugno. Arriva dallo scoop apparso ieri in prima pagina sul Financial Times, che rivela il piano B approntato dalla Ue, qualora il piano A vacillasse, come in effetti sta accadendo. E il ruolo dell’Ungheria di Viktor Orbán, a cui il Ft attribuisce la pesante responsabilità dello stallo, è solo una foglia di fico per coprire il ruolo decisivo degli Usa nella vicenda.Secondo le autorevoli indiscrezioni raccolte dal quotidiano londinese, la Ue si sta preparando a prestare, in totale autonomia, fino a 40 miliardi di euro all’Ucraina entro fine anno, facendo leva su un’autonoma capacità di indebitamento nell’ambito del proprio bilancio, utilizzando uno strumento di aiuti a Kiev già operativo da tempo che però cesserà di essere efficace tra quattro mesi. E non c’è tempo da perdere, perché si stima che le casse di Volodymyr Zelensky nel 2025 abbiano bisogno di 35 miliardi di euro. La necessità di correre a predisporre un piano alternativo ruota tutta intorno alla difficoltà tecnica - di cui ci avevamo riferito ripetutamente ancor prima del G7 pugliese - nell’utilizzare i fondi russi sequestrati all’inizio della guerra per finanziare gli aiuti all’Ucraina. Si tratta di 260 miliardi di euro, in gran parte detenuti nella Ue dal depositario centrale belga Euroclear, in grado di generare proventi annui netti intorno a 3 miliardi. Il piano A tuttora prevede che Ue e Usa si indebitino per 20 miliardi di dollari ciascuno e Uk, Canada e Giappone forniscano altri 10 miliardi, per erogare quindi a Kiev aiuti complessivi per 50 miliardi, sotto forma di prestiti e sussidi.Spentasi la luce dei riflettori sul meeting all’ombra degli ulivi, tutto sembrava doversi limitare alla definizione di alcuni dettagli tecnici. Invece il diavolo sta nei dettagli. Poiché da Washington hanno preteso una elementare clausola di salvaguardia e cioè la certezza legale che i fondi russi, che sono la garanzia per ripagare le obbligazioni da emettere per finanziare l’Ucraina, restino sequestrati fino alla scadenza delle suddette obbligazioni. Altrimenti quale investitore comprerebbe titoli la cui garanzia rischia di volatilizzarsi da un momento all’altro? Negli Usa volevano essere sicuri di non rischiare il coinvolgimento del contribuente americano e passare pure dal voto del Congresso.E qui entra in gioco Orbán, poiché il sequestro dei fondi russi fa parte di un pacchetto di sanzioni che deve essere rinnovato ogni sei mesi, con voto all’unanimità, finora sempre concesso anche dall’Ungheria. Gli Usa hanno logicamente richiesto il prolungamento di tale periodo, da almeno 36 mesi fino a 5 anni, perché non è sostenibile che ogni 6 mesi la garanzia dei fondi russi sequestrati rischi di svanire. Secondo le fonti del Ft, Orbán ha risposto che qualsiasi ipotesi di prolungamento della scadenza delle sanzioni sarà discussa solo dopo le elezioni Usa del 5 novembre e quindi la condizione richiesta da Washington non può, al momento, essere soddisfatta.Da qui il piano di emergenza di Bruxelles, che per aumentare la portata (tra 20 e 40 miliardi di euro) dello strumento esistente di sostegno a Kiev può decidere a maggioranza qualificata, superando il veto del governo di Budapest. Ma questo è il nodo inestricabile di tutta l’operazione, noto sin dal principio, che prima o poi doveva venire al pettine. Infatti, esclusa l’ipotesi «suicida» della definitiva confisca di quei fondi, il sequestro, per sua natura, non può che essere provvisorio. Destinato a cessare quando - speriamo al più presto - ci saranno gli accordi di pace. In questo senso, la volontà di Orbán di rivotare ogni sei mesi ha una sua coerenza. Perché pensa e auspica che a breve tutto possa cambiare, e allora non hanno senso sanzioni con scadenze molto lunghe. Proprio per questo motivo, i proventi derivanti da quei fondi non possono essere considerati stabilmente al servizio di un debito che potrebbe avere durata di almeno 5 anni. È l’ABC della finanza che è stato considerato polvere da spazzare sotto il tappeto fino a quando ha prevalso il «fumo» dei proclami roboanti in favore di telecamere, ma che è emerso rapidamente quando si è arrivati all’«arrosto» dei testi legalmente vincolanti.Se, con una mano, la Ue, tra mille difficoltà, cerca di indebolire finanziariamente Mosca, con l’altra continua a finanziare a piene mani l’industria russa del gas. Indebolitosi il flusso via tubo verso la Ue, non accenna invece a calare quello via nave sotto forma di gas naturale liquefatto (Gnl) che approda soprattutto nei terminali spagnoli, francesi e belgi e poi viene riesportato in tutta l’Ue, Italia compresa. Ed è proprio il Paese del neo commissario Teresa Ribera - a cui, per ironia della sorte, è stato affidato il portafoglio della concorrenza e della transizione «pulita» - a creare il maggiore imbarazzo, seguita a ruota dalla Francia.Gli ultimi dati Eurostat segnalano importazioni Ue dalla Russia per 4 miliardi di euro nei primi sette mesi del 2024 (contro 5,5 dello stesso periodo del 2023) che, a causa del calo dei volumi importati complessivamente, portano comunque la quota russa dal 13,3% al 18,6%. Nel caso della Spagna siamo a una quota di Gnl russo importato che è salita dal 28% al 34%, per un valore di ben 1,4 miliardi pagati da Madrid a Mosca nei primi otto mesi, in aumento di 2,3 volte rispetto al 2023. Un boomerang per la Ue, che però ha salvato la Spagna - ricca di rigassificatori lungo le proprie coste - dalla fase più acuta della crisi dei prezzi del gas.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ue-soldi-kiev-guerra-ucraina-2669222867.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-difesa-stanzia-14-miliardi-in-piu-per-il-tank-di-leonardo-e-rheinmetall" data-post-id="2669222867" data-published-at="1726612595" data-use-pagination="False"> La Difesa stanzia 1,4 miliardi in più per il tank di Leonardo e Rheinmetall L’Europa s’è messa l’elmetto, ha nominato il suo primo commissario alla Difesa (sarà il lituano Andrius Kubilius) e anche l’Italia sta giocando la sua parte nella stagione del riarmo, motivata dalla minaccia russa. Il nuovo Documento programmatico pluriennale 2024-2026 (Dpp), appena pubblicato, assegna infatti risorse ingenti a tre investimenti cruciali: quello sugli F-35, già previsto, che archivia definitivamente la fase delle sforbiciate in salsa pacifista; e quelli che includono risorse aggiuntive da indirizzare sul tank e sul cingolato da combattimento di Leonardo e Rheinmetall. Nel prossimo triennio, Roma acquisterà altri 25 caccia di nuova generazione, per una spesa complessiva di 7 miliardi di euro. La flotta dei jet multiruolo passerà così da 90 a 115 velivoli, compresi quelli di tipo B, a decollo corto e atterraggio verticale. Tra l’altro, nell’intervista rilasciata ieri a Repubblica, il premier britannico, Keir Starmer, ha messo a tacere una volta per tutte la polemica sui tagli al programma di sviluppo della piattaforma di sesta generazione. Parliamo del caccia multiruolo stealth Tempest, alla cui realizzazione, dal dicembre 2022, collabora anche il Giappone, che ha fatto confluire nel cantiere i progetti per l’F-X della Mitsubishi. «Ho fatto colazione anche con Leonardo», ha spiegato l’inquilino di Downing Street, giunto in visita nella Capitale, «e ho detto chiaramente che il Tempest è un progetto molto importante. È vero, c’è una “strategic review” in corso, ma non toccherà piani simili». Come ha notato per prima Rivista italiana difesa, però, la vera novità del Dpp sono gli stanziamenti per i blindati. Il carro da battaglia dell’esercito sarà finanziato con altri 1,4 miliardi, il che porterà il totale della somma impegnata a 5,5 miliardi, su un fabbisogno complessivo di 8,2 miliardi. Entro fine mese, si costituirà la joint venture Leonardo-Rheinmetall per la costruzione del mezzo. La base di partenza per il carro armato, stando al comunicato congiunto delle società risalente a luglio, dovrebbe essere il Panther dell’azienda tedesca, anche se il faldone preparato dal ministero della Difesa non vi fa cenno. Allo stesso modo, il documento non conferma se il modello del nuovo cingolato per la fanteria, nell’ambito del programma Armored infantry combat system, sarà l’Ifv Lynx. I fondi ad hoc aumentano di 1,2 miliardi, passando a 6,4 sul fabbisogno complessivo di 15. Sono grandi manovre, che tuttavia soltanto in parte alimentano l’ambizione di una Difesa comune europea. Muove di sicuro in quella direzione la partnership tra Leonardo e Rheinmetall, mentre i piani per il caccia del futuro guardano ben oltre i confini dell’Unione: coinvolgono sia un Paese ormai separato da Bruxelles, come il Regno Unito, sia i nipponici, che per ovvi motivi geografici sono fuori pure dalla Nato, ma esercitano una funzione fondamentale in quell’area dell’Indo-Pacifico, nella quale si sta svolgendo un pericoloso risiko tra l’Occidente, i suoi alleati e la Cina. Intanto, il dicastero di Guido Crosetto ha partorito una nuova nomina: su proposta del ministro, il cdm ha deliberato di assegnare al generale Luciano Antonio Portolano l’incarico di capo di stato maggiore della Difesa. Il 4 ottobre, il militare prenderà il posto dell’ammiraglio Giuseppe Cavo Dragone, che a gennaio diventerà chairman del Comitato militare Nato. Cavo Dragone sarà pure consigliere di Crosetto per le relazioni con l’Alleanza atlantica. In questa fase, idilliache.
La casa nel bosco a Palmoli dove viveva la famiglia Trevallion. Nel riquadro Nathan durante la firma del contratto della nuova casa (Ansa)
L’ordinanza dell’11 dicembre scorso del Tribunale dell’Aquila sembra un passo avanti verso la sottrazione dei bambini ai genitori. La legge prevede che questo provvedimento sia adottato quando il minore è in pericolo grave e immediato per la sua incolumità fisica o psichica, a causa di maltrattamenti, incuria, degrado familiare, dipendenze dei genitori (alcol, droghe) o violenza, e solo se il minore non può essere protetto in altro modo. Al termine dell’ordinanza di sei pagine, si legge che è necessaria una consulenza specialistica che compia «un’indagine personologica e psico-diagnostica del profilo di personalità di ciascun genitore dei minori per valutare: gli stili relazionali e comportamentali; le capacità e competenze genitoriali, nello specifico la capacità di riconoscimento dei bisogni psicologici del minore; l’attenzione progettuale alle esigenze di crescita». Andranno anche valutate le caratteristiche psichiche specifiche dei genitori e se le loro «capacità genitoriali siano recuperabili in tempi congrui», indicando «anche il percorso educativo che i genitori dovranno allo scopo intraprendere». Un compito da brividi, espresso anche con un linguaggio da brividi. La Ctu è stata affidata a Simona Ceccoli, psichiatra che opera presso Villa Letizia dell’Aquila, di proprietà del gruppo privato francese Almaviva Santé. Nella camera di consiglio, il presidente Cecilia Angrisano è stata affiancata dal giudice Roberto Ferrari e dai giudici onorari Simone Giovarruscio, psicologo abruzzese, e Alida Gabriela Alvaro, psicortereaputa teramana esperta di autismo e disturbi dell’apprendimento.
La casa «inidonea» resta un elemento chiave del tribunale nella tenere i bimbi in Istituto, nonostante una serie di offerte e concessioni da parte della famiglia e dei suoi legali. Nell’ultimo provvedimento si legge: «Non sono stati prodotti i documenti necessari previsti; non era stato prodotto il certificato di collaudo statico ed era pacifica l’assenza degli impianti elettrico, idrico e termico, dei quali non era quindi verificabile la conformità. Non erano state verificate le condizioni di salubrità dell’abitazione, con particolare riguardo all’umidità, incidente sullo sviluppo di patologie polmonari».
Anche il tema dell’educazione scolastica, man mano che i bambini stanno in istituto, sembra delinearsi in modo sempre più pesante, per i genitori. L’homeschooling in Italia è ammesso e perfettamente legale, ma è soggetto a precise verifiche scolastiche. Detta in soldoni, non parlare in italiano ai bambini, a casa o nel bosco, può diventare parecchio pericoloso per i genitori perché, poi, gli esami vertono innanzitutto su questo.
Il certificato di inidoneità alla terza classe della primaria per Utopia Rose (8 anni), presentato dai genitori ai servizi sociali, porta la firma della «Novalis Open School» di Brescia e non era stato contestato dai giudici. E lo stesso vale per un’attestazione della scuola pubblica di Castiglione Messer Marino (Chieti) sull’educazione parentale. L’ordinanza del 13 novembre non aveva contestato ai genitori alcuna lesione del diritto dei minori a ricevere un’educazione adeguata, ma si era focalizzata sulla mancanza di socialità. Il tribunale osserva ora che la carenza nell’educazione dei due bimbi sarebbe emersa una volta rinchiusi nella casa famiglia, a seguito di particolare osservazione.
Nell’ultima ordinanza viene anche segnalato come rilevante uno dei tanti comportamenti eccentrici della madre, la quale, dicono, «pretende che vengano mantenute dai figli abitudini e orari difformi dalle regole che disciplinano la vita degli altri minori ospiti della comunità, circostanza che fa dubitare dell’affermata volontà di cooperare stabilmente con gli operatori nell’interesse dei figli». Insomma, più questa donna si ribella agli assistenti sociali e più compromette il proprio diritto a essere madre.
Il Tribunale per i minorenni aquilano riferisce, poi, che i servizi sociali hanno trasmesso un certificato medico per ciascun minore, nel quale la pediatra evidenzia la necessità, «in considerazione della storia clinica e familiare», di effettuare una visita neuropsichiatrica infantile, «per una globale valutazione psicologica e comportamentale dei bambini», nonché esami del sangue «per una valutazione dello stato immunitario vaccinale». E qui i genitori, scrivono i giudici, «hanno di fatto rifiutato gli accertamenti indicati dalla pediatra, dichiarando che vi consentiranno solo se verrà loro corrisposto un compenso di 50.000 euro per ogni minore».
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