
Colpite le reti energetiche, diversi morti e feriti tra i civili. Biden autorizza l’uso delle testate a lungo raggio. Tusk a Scholz: non fermi la Russia con una telefonata. Trudeau: la guerra può finire nei prossimi mesi.Mentre la diplomazia internazionale lavora per la fine del conflitto, la situazione sul campo è molto diversa: nella notte tra sabato e domenica la Russia ha scatenato sull’Ucraina una violenta offensiva, lanciando 120 missili e 90 droni. Si è trattato di uno dei più grandi attacchi dall’inizio della guerra. In diverse aree del Paese sono state colpite le reti energetiche, le centrali termiche, con blackout e incendi nella capitale che hanno costretto la popolazione a fuggire con il buio dalle proprie case e ripararsi nelle metropolitane. Tant’è che il governo ha annunciato restrizioni energetiche a livello nazionale (non usare più apparecchi elettrici insieme). Mentre scriviamo, secondo il Kyiv Independent, «l’attacco con missili e droni su larga scala lanciato dalla Russia ha provocato la morte di almeno sette civili e il ferimento di almeno 19 in più regioni del Paese». Inoltre, secondo quanto pubblicato su Facebook dallo Stato maggiore delle Forze armate ucraine, le truppe russe hanno colpito le posizioni delle Forze di difesa e le zone popolate dell’Ucraina con due missili e ben 112 bombe aeree guidate. I russi hanno effettuato più di 4.500 bombardamenti, 88 dei quali utilizzando razzi di segnalazione. In un messaggio video su Telegram il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha affermato che l’aviazione ha abbattuto «oltre 140 obiettivi aerei durante la notte e questa mattina, i terroristi russi hanno utilizzato vari tipi di droni, tra cui gli Shahed, nonché missili da crociera, balistici e aerobalistici, come gli Zircon, gli Iskander e i Kinzhal». Intanto, secondo quanto riporta il New York Times, Joe Biden ha autorizzato l’Ucraina a usare i missili a lungo raggio americani per colpire in Russia. Chi si illudeva che Vladimir Putin diminuisse la portata degli attacchi all’Ucraina è rimasto deluso ed è evidente che quanto accaduto l’altra notte è un messaggio molto chiaro a Zelensky, all’Ue, alla Nato e a Donald Trump che ha promesso di fermare anche questa guerra oltre a quella in Medio Oriente. Solo venerdì scorso il presidente ucraino in un’intervista radiofonica si era sbilanciato affermando: «Dobbiamo fare il possibile affinché questa guerra finisca l’anno prossimo attraverso mezzi diplomatici», dicendosi convinto che con un nuovo inquilino alla Casa Bianca il conflitto si può fermare. Ma come? Mosca si dichiara disposta a un negoziato, ma solo a condizione che venga riconosciuta l’attuale situazione sul campo. Questo includerebbe i territori che sono diventati parte della Russia dal 2014, come la Crimea e parte del Donbass orientale, oltre alle aree occupate militarmente dopo il 24 febbraio 2022: la fascia meridionale da Mariupol a Kherson, il 90% della regione di Zaporizhzhia e circa il 75% del Donbass. In totale, si tratta del 20% del territorio ucraino, che Kiev è determinata a riconquistare, considerando anche la possibilità di utilizzare come leva i territori occupati dall’Ucraina a Kursk. Resta aperta e irrisolta la questione dell’adesione dell’Ucraina alla Nato, considerata «irreversibile» da Zelensky, ma che Mosca vuole impedire. Grande preoccupazione per le centrali atomiche operative ucraine che ieri mattina hanno ridotto la produzione di elettricità a scopo precauzionale dopo i massicci raid russi in tutto il Paese e «mettendo ulteriormente sotto pressione la sicurezza nucleare», come si legge in una nota del direttore generale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica (Aiea) Rafael Mariano Grossi. Durante una conferenza stampa con i suoi omologhi di Australia e Giappone, Richard Marles e il Generale Nakatani, che ha incontrato a Darwin (Australia settentrionale) il segretario alla Difesa americano Llyod Austin, ha parlato del coinvolgimento delle truppe nordcoreane nei combattimenti in Ucraina: «Non abbiamo visto molti combattimenti finora, ma penso che li vedremo presto». Parlavamo del fronte diplomatico con il primo ministro polacco Donald Tusk che ha criticato l’iniziativa piuttosto improvvisata del cancelliere tedesco Olaf Scholz che ha avuto un colloquio con il presidente russo: «La diplomazia telefonica non fermerà Putin», ha detto Tusk. Il Primo ministro canadese Justin Trudeau in un colloquio con Bloomberg ha detto che il Canada è impegnato per la vittoria dell’Ucraina e vuole una rapida fine della guerra, cose che potrebbero accadere nei prossimi mesi ma siamo anche molto franchi: tutti gli alleati del mondo non potrebbero sostituire un ritiro completo del sostegno degli Stati Uniti all’Ucraina». Ursula von der Leyen, a Rio de Janeiro per partecipare al G20 ha ribadito il supporto dell’Ue: «Abbiamo visto gli orribili attacchi della notte scorsa della Russia contro l’Ucraina, con la precisa intenzione di distruggere le infrastrutture energetiche civili, con un incredibile costo di vite. Staremo al fianco dell’Ucraina fino a quando servirà». Infine, il ministero della Difesa ucraino, citato dai media fra cui Ukrinform, afferma che nelle ultime 24 ore sono stati uccisi 1.640 militari russi, portando il totale delle perdite russe a circa 720.880.
Anna Falchi (Ansa)
La conduttrice dei «Fatti vostri»: «L’ho sdoganato perché è un complimento spontaneo. Piaghe come stalking e body shaming sono ben altra cosa. Oggi c’è un perbenismo un po’ forzato e gli uomini stanno sulle difensive».
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Il capo del Consorzio, che celebra i 50 anni di attività, racconta i segreti di questo alimento, che può essere dolce o piccante.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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