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2023-08-30
Le pretese agricole dell’Ucraina possono far saltare gli equilibri Ue
Raccolta del grano in Ucraina (Getty Images)
Dopo le parole di apertura del presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, sembrerebbe che si stia entrando in una nuova fase della guerra in Ucraina. Questa, con le cautele del caso, è un’ottima notizia, dà uno spiraglio a un possibile avvio della soluzione del conflitto. Ma ogni cambiamento tuttavia porta con sé diversi risvolti e alcuni di questi potrebbero cambiare dinamiche e relazioni. Come già scritto dalla Verità, infatti, l’eventuale armistizio avrà inevitabilmente un prezzo. Sul piatto sicuramente l’ingresso in Europa che potrebbe avvenire in tempi record e anche quello nella Nato, più rischioso perché agita maggiormente il Cremlino.
Un’intervista rilasciata dal ministro dell’Agricoltura ucraino, Mykola Solskyi al Corriere della Sera, rende lo scenario più chiaro. La richiesta del titolare dell’Agricoltura è chiara: «Bruxelles tolga i limiti all’export dei nostri prodotti». Il ministro ha spiegato dettagliatamente quanto sia importante la crisi dell’agricoltura ucraina: «Dobbiamo tenere conto che i russi hanno occupato il 25 per cento del nostro territorio. Nel 2021 avevamo prodotto 110 milioni di tonnellate di grano e nel 2023 soltanto 72. Le cause sono note: la presenza dei soldati nemici nelle nostre regioni agricole; i contadini non hanno fondi per investire nelle nuove produzioni e si sono trovati a lavorare in condizioni molto difficili. Dobbiamo far fronte a una situazione di estrema gravità». Il tema è assai caro al governo di Kiev e il ministro si era già espresso su questo lo scorso aprile: «Quasi un anno fa, la Commissione europea ha lanciato l’iniziativa Solidarity lanes per stabilire rotte alternative per l’esportazione di prodotti agricoli ucraini e l’importazione di beni essenziali nelle condizioni del blocco del porto marittimo. Questo è stato un enorme sostegno dall’Europa e questa decisione ha contribuito a proteggere gli interessi critici degli agricoltori ucraini. Continuiamo a lavorare per avvicinare i nostri mercati, sosteniamo una sana concorrenza e comprendiamo che gli alleati dovrebbero essere a proprio agio con la cooperazione. Purtroppo, la guerra ha apportato le proprie modifiche», dice Solskyi.
Il problema esiste, ma è anche vero che alzare la posta in Europa su questi temi creerebbe certamente tensioni con gli altri Paesi membri. Basti pensare che negli ultimi mesi già ci sono stati parecchi problemi, specialmente con Polonia e Ungheria. I due Stati membri dell’Ue hanno infatti subito pesantemente la grande abbondanza di grano ucraino a prezzi stracciati, tanto che i produttori sono stati costretti a svendere i loro prodotti. L’emergenza è nata e cresciuta a dismisura come effetto del successo delle corsie di solidarietà volute dalla Commissione europea per favorire l’esportazione dei cereali ucraini e degli altri prodotti agroalimentari all’indomani del blocco dei porti sul Mar Nero. Proprio un mese fa il ministro dell’Agricoltura polacco ha annunciato che Varsavia avrebbe introdotto da sé un divieto unilaterale sui prodotti agricoli importati dall’Ucraina se l’Unione europea non avesse deciso di estendere le misure di protezione già in vigore. Il divieto era per altro già stato introdotto sia dalla Polonia che dall’Ungheria lo scorso 15 aprile. Nello specifico, l’accumulo di scorte di grano ha causato nei due Paesi Ue il crollo dei prezzi, scatenando le proteste dei lavoratori agricoli, ma al coro di proteste si erano unite anche Romania, Bulgaria e Slovacchia.
Tutto questo in un contesto in cui gli agricoltori europei sono in agitazione a causa della legge Natura. La Nature restoration law mira a proteggere almeno il 20% della superficie terrestre e marina dell’Ue entro il 2030, ma secondo gli agricoltori la legge rappresenta una minaccia alla produzione europea e alla sicurezza alimentare. Il Copa-Cogeca, sindacato che comprende i rappresentanti degli agricoltori e delle cooperative agricole europee, vuole che la Commissione europea ritiri la legge, sostenendo che ridurrà le aree destinate alle attività agricole, forestali e orticole. In Olanda le proteste più forti. Alla «ribellione» di allevatori e agricoltori alle regole della transizione verde in Europa è diventata politica si aggiunge la decisione del governo che ha calcolato che sarebbe necessario ridurre di un terzo gli animali allevati, chiudendo circa 11.200 allevamenti.
Insomma, la situazione per l’agricoltura europea è già tesa di per sé e le richieste avanzate dall’Ucraina rischiano di sparigliare ancora di più le carte in tavola. Solskyi nell’intervista ha aggiunto: «Noi ci battiamo contro ogni limite alla produzione e all’export della nostra produzione agricola. I nostri contadini si trovano in una situazione talmente gravosa e penalizzante che andrebbero aiutati, non osteggiati. Stiamo lavorando per ottenere le sovvenzioni europee per l’export dei nostri prodotti in Paesi lontani in Africa, Asia e America Latina. La nostra proposta è ufficiale e in corso di discussione al Parlamento di Bruxelles». Per ora non ci sono state reazioni alle dichiarazioni del ministro dell’Agricoltura ucraino, ma il tema è destinato a diventare un argomento fortemente divisivo in un’Europa che non ha fatto che sostenere l’Ucraina dall’inizio del conflitto. Ora, tutti si augurano che la guerra finisca presto, ma a quale costo? E soprattutto, chi pagherà?
Inseguire l’illusione di una «pace giusta» prolunga all’infinito l’agonia della guerra
Pace sì, ma «pace giusta». Questo è il concetto costantemente espresso da tutti i responsabili politici dei Paesi della Nato quando si sentono costretti a dare una qualche risposta a quanti, sempre più numerosi, si chiedono angosciosamente se, come e quando si possa finalmente porre fine alla guerra che ormai da oltre un anno e mezzo si combatte tra Russia e Ucraina. Ma cosa deve intendersi per «pace giusta»? Secondo il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, (almeno fino all’altro ieri) la «pace giusta» potrebbe essere solo quella che vedesse il totale, immediato e incondizionato ritiro delle truppe russe dai territori dell’Ucraina occupati a seguito dell’invasione del 24 febbraio 2022, come pure dalla Crimea, occupata e poi mantenuta dalla Russia, in modo sostanzialmente pacifico, fin dal 2014. E su questa posizione (sempre fino almeno all’altro ieri) sono apparsi, più o meno esplicitamente, appiattiti i leader dell’Occidente. Tra essi, anche il presidente Sergio Mattarella, secondo cui la «pace giusta» non potrebbe che fondarsi «sul rispetto del diritto internazionale» e non potrebbe quindi, mai, essere «raggiunta ai danni di chi è stato aggredito». Questo significa, però, che la pace non potrebbe che conseguire alla piena e totale vittoria militare di quello, tra i contendenti, dalla parte del quale si assume che si trovi la ragione. Il che appare ben difficilmente conciliabile con il principio costituzionale del rifiuto della guerra «come mezzo di soluzione della controversie internazionali», al quale lo stesso Mattarella ha già fatto riferimento.
Prescindiamo, tuttavia, da tale incongruenza e diamo, inoltre, per ammesso che tutta la ragione stia da una parte e tutto il torto dall’altra. Ciò non basterebbe, però, a rendere meritevole di condivisione il suindicato concetto di «pace giusta». Esso, infatti, è viziato in radice da un’insanabile contraddizione logica, che consiste nell’indebito trasferimento della nozione di «giustizia» dal campo delle controversie giudiziarie a quello dei conflitti bellici. In una controversia giudiziaria esiste un giudice che è terzo rispetto alle due parti in lite e al quale è rimesso il potere. E la decisione che porrà fine alla lite sarà «giusta» solo se e in quanto rispondente alle norme di legge che, nella fattispecie, debbono trovare applicazione. Nulla di simile si riscontra, invece, in un conflitto bellico, la cui soluzione, per sua natura, non può avere nulla a che vedere con il torto o la ragione, ma dipende soltanto dall’esito del diretto confronto di forza tra belligeranti. La «pace giusta» non può, quindi, essere in alcun modo assimilabile alla «sentenza giusta», ma ricava la sua «giustizia» dalla sola condizione, necessaria e sufficiente, che ponga fine a una guerra che sia divenuta (quando non lo sia stata fin dall’inizio) «ingiusta», cioè priva di qualsivoglia ragionevole scopo. Il che si verifica quando uno dei contendenti venga a trovarsi in irrimediabile svantaggio nei confronti dell’altro, ovvero quando fra i due si sia determinata un’insuperabile situazione di stallo, non avendo nessuno dei due la forza sufficiente per vincere la resistenza dell’altro; ipotesi, quest’ultima, che sembrerebbe quella realizzatasi appunto nel conflitto russo-ucraino. Nell’una o nell’altra di tali condizioni la prosecuzione delle ostilità sarebbe, all’evidenza, del tutto priva di ragionevolezza e, per ciò stesso, «ingiusta», in quanto produttrice di un danno che sarebbe, invece, doveroso evitare.
Va da sé, naturalmente, che il riconoscere quando, di fatto, ci si trovi in presenza di una delle condizioni in questione dipende da un’infinità di fattori, oggettivi e soggettivi, il cui apprezzamento è quanto di più opinabile si possa immaginare, essendo, fra l’altro, in larga parte dipendente dalla scala di valori sulla base dei quali ciascuno dei contendenti valuta la convenienza o meno dei sacrifici umani e materiali che la prosecuzione delle ostilità richiederebbe, a fronte dei risultati ragionevolmente sperabili. Quel che dev’essere chiaro, però, è che solo da una tale valutazione, da operarsi in concreto, e non dall’astratta esigenza di una riaffermazione, a qualsiasi costo, del vero o presunto «diritto» di una parte nei confronti dell’altra, può scaturire il giudizio circa la «giustezza» o meno di una pace che ponga fine al conflitto. Ed è appena il caso di aggiungere che per «pace» deve qui intendersi non tanto quella che sia consacrata in un formale trattato (cosa divenuta ormai desueta), quanto piuttosto quella che consista in un qualsiasi accordo, scritto o non scritto, che, in uno modo o nell’altro, faccia cessare, di fatto, le ostilità.
Purtroppo, a questo tipo di ragionamento i governanti occidentali appaiono del tutto refrattari. Essi sembrano piuttosto ispirarsi al principio affermato, nel corso della seconda guerra mondiale, dai «tre grandi» (Roosevelt, Churchill e Stalin), secondo cui il conflitto, essendo finalizzato (nella propaganda) al trionfo del bene sul male, non sarebbe potuto terminare se non con la resa incondizionata della Germania, che del male rappresentava l’incarnazione. Il bel risultato fu quello di rafforzare enormemente, nell’immediato, la presa del regime nazista sulla popolazione tedesca e di consentire poi, all’Urss, l’occupazione e l’asservimento di tutta l’Europa orientale e di buona parte della Germania; situazione protrattasi fino alla caduta del muro di Berlino, nel 1989. E deve aggiungersi che, rispetto al passato, vi è oggi la non trascurabile differenza che per perseguire la resa incondizionata della Russia occorrerebbe mettere in conto anche l’eventuale scatenamento dell’apocalisse nucleare. Ma di una tale prospettiva tutti sembrano essersi allegramente dimenticati. Dio non voglia che qualcuno o qualcosa la richiami alla memoria.
Ombre sulla lotta ai corrotti di Kiev
Mentre le operazioni militari proseguono senza sosta, Volodymyr Zelensky continua a muoversi anche sul piano diplomatico. L’obiettivo del presidente ucraino, più volte dichiarato, è l’adesione dell’Ucraina all’Unione europea. Percorso tutt’altro che semplice. Anche perché la Commissione Ue, che nel giugno del 2022 ha accettato l’Ucraina come candidato ufficiale, ha però fatto intendere che l’iter sarà piuttosto lungo: attualmente si parla del 2030. Di più: per accogliere l’Ucraina come ventottesimo Stato membro, Bruxelles ha dettato a Kiev diverse condizioni. Nello specifico sette, tra cui la riforma del sistema giudiziario, un’adeguata legislazione sui media, la limitazione del potere degli oligarchi, il rispetto dei diritti delle minoranze e una seria politica anticorruzione.
Lo scorso giugno Zelensky ha per così dire sostenuto il primo esame: il commissario europeo all’Allargamento e alla politica di vicinato, Olivér Várhelyi, ha dichiarato che l’Ucraina ha finora soddisfatto due soli requisiti su sette, ossia la riforma della giustizia e la legislazione sui media. Per il resto, c’è ancora parecchia strada da fare.
Per accelerare le operazioni, Zelensky ha quindi messo nel mirino la lotta alla corruzione. Si tratta di una problematica particolarmente urgente: secondo l’ultimo indice di percezione della corruzione, stilato da Transparency international, l’Ucraina è tra i fanalini di coda della classifica. Tra i più recenti scandali, del resto, c’è quello che ha colpito Yuri Aristov, deputato di Servitore del popolo (il partito del presidente), pizzicato alle Maldive in un albergo a cinque stelle. Dopo le dichiarazioni al vetriolo «contro si arricchisce con la guerra», adesso Zelensky ha intenzione di passare ai fatti: presto sarà votata in Parlamento una legge che propone di equiparare la corruzione in tempo di guerra all’alto tradimento. «Penso che sarà uno strumento molto serio», ha dichiarato il presidente ucraino, «per far sì che nessuno ci pensi nemmeno più alla corruzione».
All’apparenza si tratta di un deterrente formidabile. Ma il diavolo, come al solito, si nasconde nei dettagli. Come documentato da Politico, due alti funzionari ucraini, che hanno scelto di rimanere anonimi per ovvi motivi, hanno riferito che «all’interno delle agenzie anticorruzione dell’Ucraina si teme che il piano di Zelensky sottrarrà alla loro supervisione i casi di corruzione più importanti e li passerà al Servizio di sicurezza (Sbu), che risponde direttamente al presidente». La preoccupazione, più in particolare, è che la nuova legge consenta alla Sbu di insabbiare i casi di corruzione che coinvolgono i funzionari di massimo livello. Detto in parole povere: si pensa che Zelensky possa eliminare la corruzione semplicemente intralciando le indagini ed evitando che se ne parli. Un po’ come nascondere la polvere sotto il tappeto.
La vede così anche Vitaly Shabunin, direttore dell’Antac, un’Ong ucraina che monitora i casi di corruzione: la Sbu, ha spiegato, «indagherà sugli stessi casi della Nabu, cioè l’ufficio nazionale anticorruzione dell’Ucraina». Il che significa, ha aggiunto, «che le prove dei casi “sensibili” verranno distrutte». Insomma, la durezza della proposta, in realtà, potrebbe essere nient’altro che uno specchietto per allodole. D’altronde, per quanto Zelensky si stia sforzando per risolvere l’annosa questione, i suoi cittadini sembrano piuttosto insoddisfatti: secondo un sondaggio pubblicato a inizio agosto dal think tank ucraino Ilko Kucheriv democratic initiatives foundation, il 77% degli ucraini vede proprio nel presidente il primo responsabile della continua corruzione che infesta il governo e le amministrazioni militari locali. A ottobre, intanto, l’Unione europea valuterà di nuovo i progressi fatti dall’Ucraina. Un esame di riparazione in cui Zelensky difficilmente potrà cavarsela con una legge che sa molto, forse troppo, di propaganda.
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Il ministro Solskyi batte cassa in vista di una possibile intesa: «Bruxelles tolga i limiti all’export del nostro grano». Ma Polonia e Ungheria non accettano altre deroghe. E il settore è in ebollizione anche in Olanda.I proclami dei leader dei Paesi Nato continuano a vincolare la fine delle ostilità a un’ipotetica vittoria totale sul campo.Due alti funzionari rivelano a «Politico»: «Dietro le promesse di Zelensky c’è il rischio di un insabbiamento dei casi che riguardano i pezzi più grossi». E una Ong conferma.Lo speciale contiene tre articoli.Dopo le parole di apertura del presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, sembrerebbe che si stia entrando in una nuova fase della guerra in Ucraina. Questa, con le cautele del caso, è un’ottima notizia, dà uno spiraglio a un possibile avvio della soluzione del conflitto. Ma ogni cambiamento tuttavia porta con sé diversi risvolti e alcuni di questi potrebbero cambiare dinamiche e relazioni. Come già scritto dalla Verità, infatti, l’eventuale armistizio avrà inevitabilmente un prezzo. Sul piatto sicuramente l’ingresso in Europa che potrebbe avvenire in tempi record e anche quello nella Nato, più rischioso perché agita maggiormente il Cremlino. Un’intervista rilasciata dal ministro dell’Agricoltura ucraino, Mykola Solskyi al Corriere della Sera, rende lo scenario più chiaro. La richiesta del titolare dell’Agricoltura è chiara: «Bruxelles tolga i limiti all’export dei nostri prodotti». Il ministro ha spiegato dettagliatamente quanto sia importante la crisi dell’agricoltura ucraina: «Dobbiamo tenere conto che i russi hanno occupato il 25 per cento del nostro territorio. Nel 2021 avevamo prodotto 110 milioni di tonnellate di grano e nel 2023 soltanto 72. Le cause sono note: la presenza dei soldati nemici nelle nostre regioni agricole; i contadini non hanno fondi per investire nelle nuove produzioni e si sono trovati a lavorare in condizioni molto difficili. Dobbiamo far fronte a una situazione di estrema gravità». Il tema è assai caro al governo di Kiev e il ministro si era già espresso su questo lo scorso aprile: «Quasi un anno fa, la Commissione europea ha lanciato l’iniziativa Solidarity lanes per stabilire rotte alternative per l’esportazione di prodotti agricoli ucraini e l’importazione di beni essenziali nelle condizioni del blocco del porto marittimo. Questo è stato un enorme sostegno dall’Europa e questa decisione ha contribuito a proteggere gli interessi critici degli agricoltori ucraini. Continuiamo a lavorare per avvicinare i nostri mercati, sosteniamo una sana concorrenza e comprendiamo che gli alleati dovrebbero essere a proprio agio con la cooperazione. Purtroppo, la guerra ha apportato le proprie modifiche», dice Solskyi.Il problema esiste, ma è anche vero che alzare la posta in Europa su questi temi creerebbe certamente tensioni con gli altri Paesi membri. Basti pensare che negli ultimi mesi già ci sono stati parecchi problemi, specialmente con Polonia e Ungheria. I due Stati membri dell’Ue hanno infatti subito pesantemente la grande abbondanza di grano ucraino a prezzi stracciati, tanto che i produttori sono stati costretti a svendere i loro prodotti. L’emergenza è nata e cresciuta a dismisura come effetto del successo delle corsie di solidarietà volute dalla Commissione europea per favorire l’esportazione dei cereali ucraini e degli altri prodotti agroalimentari all’indomani del blocco dei porti sul Mar Nero. Proprio un mese fa il ministro dell’Agricoltura polacco ha annunciato che Varsavia avrebbe introdotto da sé un divieto unilaterale sui prodotti agricoli importati dall’Ucraina se l’Unione europea non avesse deciso di estendere le misure di protezione già in vigore. Il divieto era per altro già stato introdotto sia dalla Polonia che dall’Ungheria lo scorso 15 aprile. Nello specifico, l’accumulo di scorte di grano ha causato nei due Paesi Ue il crollo dei prezzi, scatenando le proteste dei lavoratori agricoli, ma al coro di proteste si erano unite anche Romania, Bulgaria e Slovacchia. Tutto questo in un contesto in cui gli agricoltori europei sono in agitazione a causa della legge Natura. La Nature restoration law mira a proteggere almeno il 20% della superficie terrestre e marina dell’Ue entro il 2030, ma secondo gli agricoltori la legge rappresenta una minaccia alla produzione europea e alla sicurezza alimentare. Il Copa-Cogeca, sindacato che comprende i rappresentanti degli agricoltori e delle cooperative agricole europee, vuole che la Commissione europea ritiri la legge, sostenendo che ridurrà le aree destinate alle attività agricole, forestali e orticole. In Olanda le proteste più forti. Alla «ribellione» di allevatori e agricoltori alle regole della transizione verde in Europa è diventata politica si aggiunge la decisione del governo che ha calcolato che sarebbe necessario ridurre di un terzo gli animali allevati, chiudendo circa 11.200 allevamenti. Insomma, la situazione per l’agricoltura europea è già tesa di per sé e le richieste avanzate dall’Ucraina rischiano di sparigliare ancora di più le carte in tavola. Solskyi nell’intervista ha aggiunto: «Noi ci battiamo contro ogni limite alla produzione e all’export della nostra produzione agricola. I nostri contadini si trovano in una situazione talmente gravosa e penalizzante che andrebbero aiutati, non osteggiati. Stiamo lavorando per ottenere le sovvenzioni europee per l’export dei nostri prodotti in Paesi lontani in Africa, Asia e America Latina. La nostra proposta è ufficiale e in corso di discussione al Parlamento di Bruxelles». Per ora non ci sono state reazioni alle dichiarazioni del ministro dell’Agricoltura ucraino, ma il tema è destinato a diventare un argomento fortemente divisivo in un’Europa che non ha fatto che sostenere l’Ucraina dall’inizio del conflitto. Ora, tutti si augurano che la guerra finisca presto, ma a quale costo? E soprattutto, chi pagherà?<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ucraina-grano-europa-zelensky-tregua-2664612534.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="inseguire-lillusione-di-una-pace-giusta-prolunga-allinfinito-lagonia-della-guerra" data-post-id="2664612534" data-published-at="1693341168" data-use-pagination="False"> Inseguire l’illusione di una «pace giusta» prolunga all’infinito l’agonia della guerra Pace sì, ma «pace giusta». Questo è il concetto costantemente espresso da tutti i responsabili politici dei Paesi della Nato quando si sentono costretti a dare una qualche risposta a quanti, sempre più numerosi, si chiedono angosciosamente se, come e quando si possa finalmente porre fine alla guerra che ormai da oltre un anno e mezzo si combatte tra Russia e Ucraina. Ma cosa deve intendersi per «pace giusta»? Secondo il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, (almeno fino all’altro ieri) la «pace giusta» potrebbe essere solo quella che vedesse il totale, immediato e incondizionato ritiro delle truppe russe dai territori dell’Ucraina occupati a seguito dell’invasione del 24 febbraio 2022, come pure dalla Crimea, occupata e poi mantenuta dalla Russia, in modo sostanzialmente pacifico, fin dal 2014. E su questa posizione (sempre fino almeno all’altro ieri) sono apparsi, più o meno esplicitamente, appiattiti i leader dell’Occidente. Tra essi, anche il presidente Sergio Mattarella, secondo cui la «pace giusta» non potrebbe che fondarsi «sul rispetto del diritto internazionale» e non potrebbe quindi, mai, essere «raggiunta ai danni di chi è stato aggredito». Questo significa, però, che la pace non potrebbe che conseguire alla piena e totale vittoria militare di quello, tra i contendenti, dalla parte del quale si assume che si trovi la ragione. Il che appare ben difficilmente conciliabile con il principio costituzionale del rifiuto della guerra «come mezzo di soluzione della controversie internazionali», al quale lo stesso Mattarella ha già fatto riferimento. Prescindiamo, tuttavia, da tale incongruenza e diamo, inoltre, per ammesso che tutta la ragione stia da una parte e tutto il torto dall’altra. Ciò non basterebbe, però, a rendere meritevole di condivisione il suindicato concetto di «pace giusta». Esso, infatti, è viziato in radice da un’insanabile contraddizione logica, che consiste nell’indebito trasferimento della nozione di «giustizia» dal campo delle controversie giudiziarie a quello dei conflitti bellici. In una controversia giudiziaria esiste un giudice che è terzo rispetto alle due parti in lite e al quale è rimesso il potere. E la decisione che porrà fine alla lite sarà «giusta» solo se e in quanto rispondente alle norme di legge che, nella fattispecie, debbono trovare applicazione. Nulla di simile si riscontra, invece, in un conflitto bellico, la cui soluzione, per sua natura, non può avere nulla a che vedere con il torto o la ragione, ma dipende soltanto dall’esito del diretto confronto di forza tra belligeranti. La «pace giusta» non può, quindi, essere in alcun modo assimilabile alla «sentenza giusta», ma ricava la sua «giustizia» dalla sola condizione, necessaria e sufficiente, che ponga fine a una guerra che sia divenuta (quando non lo sia stata fin dall’inizio) «ingiusta», cioè priva di qualsivoglia ragionevole scopo. Il che si verifica quando uno dei contendenti venga a trovarsi in irrimediabile svantaggio nei confronti dell’altro, ovvero quando fra i due si sia determinata un’insuperabile situazione di stallo, non avendo nessuno dei due la forza sufficiente per vincere la resistenza dell’altro; ipotesi, quest’ultima, che sembrerebbe quella realizzatasi appunto nel conflitto russo-ucraino. Nell’una o nell’altra di tali condizioni la prosecuzione delle ostilità sarebbe, all’evidenza, del tutto priva di ragionevolezza e, per ciò stesso, «ingiusta», in quanto produttrice di un danno che sarebbe, invece, doveroso evitare. Va da sé, naturalmente, che il riconoscere quando, di fatto, ci si trovi in presenza di una delle condizioni in questione dipende da un’infinità di fattori, oggettivi e soggettivi, il cui apprezzamento è quanto di più opinabile si possa immaginare, essendo, fra l’altro, in larga parte dipendente dalla scala di valori sulla base dei quali ciascuno dei contendenti valuta la convenienza o meno dei sacrifici umani e materiali che la prosecuzione delle ostilità richiederebbe, a fronte dei risultati ragionevolmente sperabili. Quel che dev’essere chiaro, però, è che solo da una tale valutazione, da operarsi in concreto, e non dall’astratta esigenza di una riaffermazione, a qualsiasi costo, del vero o presunto «diritto» di una parte nei confronti dell’altra, può scaturire il giudizio circa la «giustezza» o meno di una pace che ponga fine al conflitto. Ed è appena il caso di aggiungere che per «pace» deve qui intendersi non tanto quella che sia consacrata in un formale trattato (cosa divenuta ormai desueta), quanto piuttosto quella che consista in un qualsiasi accordo, scritto o non scritto, che, in uno modo o nell’altro, faccia cessare, di fatto, le ostilità. Purtroppo, a questo tipo di ragionamento i governanti occidentali appaiono del tutto refrattari. Essi sembrano piuttosto ispirarsi al principio affermato, nel corso della seconda guerra mondiale, dai «tre grandi» (Roosevelt, Churchill e Stalin), secondo cui il conflitto, essendo finalizzato (nella propaganda) al trionfo del bene sul male, non sarebbe potuto terminare se non con la resa incondizionata della Germania, che del male rappresentava l’incarnazione. Il bel risultato fu quello di rafforzare enormemente, nell’immediato, la presa del regime nazista sulla popolazione tedesca e di consentire poi, all’Urss, l’occupazione e l’asservimento di tutta l’Europa orientale e di buona parte della Germania; situazione protrattasi fino alla caduta del muro di Berlino, nel 1989. E deve aggiungersi che, rispetto al passato, vi è oggi la non trascurabile differenza che per perseguire la resa incondizionata della Russia occorrerebbe mettere in conto anche l’eventuale scatenamento dell’apocalisse nucleare. Ma di una tale prospettiva tutti sembrano essersi allegramente dimenticati. Dio non voglia che qualcuno o qualcosa la richiami alla memoria. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ucraina-grano-europa-zelensky-tregua-2664612534.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="ombre-sulla-lotta-ai-corrotti-di-kiev" data-post-id="2664612534" data-published-at="1693341168" data-use-pagination="False"> Ombre sulla lotta ai corrotti di Kiev Mentre le operazioni militari proseguono senza sosta, Volodymyr Zelensky continua a muoversi anche sul piano diplomatico. L’obiettivo del presidente ucraino, più volte dichiarato, è l’adesione dell’Ucraina all’Unione europea. Percorso tutt’altro che semplice. Anche perché la Commissione Ue, che nel giugno del 2022 ha accettato l’Ucraina come candidato ufficiale, ha però fatto intendere che l’iter sarà piuttosto lungo: attualmente si parla del 2030. Di più: per accogliere l’Ucraina come ventottesimo Stato membro, Bruxelles ha dettato a Kiev diverse condizioni. Nello specifico sette, tra cui la riforma del sistema giudiziario, un’adeguata legislazione sui media, la limitazione del potere degli oligarchi, il rispetto dei diritti delle minoranze e una seria politica anticorruzione. Lo scorso giugno Zelensky ha per così dire sostenuto il primo esame: il commissario europeo all’Allargamento e alla politica di vicinato, Olivér Várhelyi, ha dichiarato che l’Ucraina ha finora soddisfatto due soli requisiti su sette, ossia la riforma della giustizia e la legislazione sui media. Per il resto, c’è ancora parecchia strada da fare. Per accelerare le operazioni, Zelensky ha quindi messo nel mirino la lotta alla corruzione. Si tratta di una problematica particolarmente urgente: secondo l’ultimo indice di percezione della corruzione, stilato da Transparency international, l’Ucraina è tra i fanalini di coda della classifica. Tra i più recenti scandali, del resto, c’è quello che ha colpito Yuri Aristov, deputato di Servitore del popolo (il partito del presidente), pizzicato alle Maldive in un albergo a cinque stelle. Dopo le dichiarazioni al vetriolo «contro si arricchisce con la guerra», adesso Zelensky ha intenzione di passare ai fatti: presto sarà votata in Parlamento una legge che propone di equiparare la corruzione in tempo di guerra all’alto tradimento. «Penso che sarà uno strumento molto serio», ha dichiarato il presidente ucraino, «per far sì che nessuno ci pensi nemmeno più alla corruzione». All’apparenza si tratta di un deterrente formidabile. Ma il diavolo, come al solito, si nasconde nei dettagli. Come documentato da Politico, due alti funzionari ucraini, che hanno scelto di rimanere anonimi per ovvi motivi, hanno riferito che «all’interno delle agenzie anticorruzione dell’Ucraina si teme che il piano di Zelensky sottrarrà alla loro supervisione i casi di corruzione più importanti e li passerà al Servizio di sicurezza (Sbu), che risponde direttamente al presidente». La preoccupazione, più in particolare, è che la nuova legge consenta alla Sbu di insabbiare i casi di corruzione che coinvolgono i funzionari di massimo livello. Detto in parole povere: si pensa che Zelensky possa eliminare la corruzione semplicemente intralciando le indagini ed evitando che se ne parli. Un po’ come nascondere la polvere sotto il tappeto. La vede così anche Vitaly Shabunin, direttore dell’Antac, un’Ong ucraina che monitora i casi di corruzione: la Sbu, ha spiegato, «indagherà sugli stessi casi della Nabu, cioè l’ufficio nazionale anticorruzione dell’Ucraina». Il che significa, ha aggiunto, «che le prove dei casi “sensibili” verranno distrutte». Insomma, la durezza della proposta, in realtà, potrebbe essere nient’altro che uno specchietto per allodole. D’altronde, per quanto Zelensky si stia sforzando per risolvere l’annosa questione, i suoi cittadini sembrano piuttosto insoddisfatti: secondo un sondaggio pubblicato a inizio agosto dal think tank ucraino Ilko Kucheriv democratic initiatives foundation, il 77% degli ucraini vede proprio nel presidente il primo responsabile della continua corruzione che infesta il governo e le amministrazioni militari locali. A ottobre, intanto, l’Unione europea valuterà di nuovo i progressi fatti dall’Ucraina. Un esame di riparazione in cui Zelensky difficilmente potrà cavarsela con una legge che sa molto, forse troppo, di propaganda.
Il motore è un modello di ricavi sempre più orientato ai servizi: «La crescita facile basata sulla forbice degli interessi sta inevitabilmente assottigliandosi, con il margine di interesse aggregato in calo del 5,6% nei primi nove mesi del 2025», spiega Salvatore Gaziano, responsabile delle strategie di investimento di SoldiExpert Scf. «Il settore ha saputo, però, compensare questa dinamica spingendo sul secondo pilastro dei ricavi, le commissioni nette, che sono cresciute del 5,9% nello stesso periodo, grazie soprattutto alla focalizzazione su gestione patrimoniale e bancassurance».
La crescita delle commissioni riflette un’evoluzione strutturale: le banche agiscono sempre più come collocatori di prodotti finanziari e assicurativi. «Questo modello, se da un lato genera profitti elevati e stabili per gli istituti con minori vincoli di capitale e minor rischio di credito rispetto ai prestiti, dall’altro espone una criticità strutturale per i risparmiatori», dice Gaziano. «L’Italia è, infatti, il mercato in Europa in cui il risparmio gestito è il più caro», ricorda. Ne deriva una redditività meno dipendente dal credito, ma con un tema di costo per i clienti. La «corsa turbo» agli utili ha riacceso il dibattito sugli extra-profitti. In Italia, la legge di bilancio chiede un contributo al settore con formule che evitano una nuova tassa esplicita.
«È un dato di fatto che il governo italiano stia cercando una soluzione morbida per incassare liquidità da un settore in forte attivo, mentre in altri Paesi europei si discute apertamente di tassare questi extra-profitti in modo più deciso», dice l’esperto. «Ad esempio, in Polonia il governo ha recentemente aumentato le tasse sulle banche per finanziare le spese per la Difesa. È curioso notare come, alla fine, i governi preferiscano accontentarsi di un contributo una tantum da parte delle banche, piuttosto che intervenire sulle dinamiche che generano questi profitti che ricadono direttamente sui risparmiatori».
Come spiega David Benamou, responsabile investimenti di Axiom alternative investments, «le banche italiane rimangono interessanti grazie ai solidi coefficienti patrimoniali (Cet1 medio superiore al 15%), alle generose distribuzioni agli azionisti (riacquisti di azioni proprie e dividendi che offrono rendimenti del 9-10%) e al consolidamento in corso che rafforza i gruppi leader, Unicredit e Intesa Sanpaolo. Il settore in Italia potrebbe sovraperformare il mercato azionario in generale se le valutazioni rimarranno basse. Non mancano, tuttavia, rischi come un moderato aumento dei crediti in sofferenza o gli choc geopolitici, che smorzano l’ottimismo».
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Il 29 luglio del 2024, infatti, Axel Rudakubana, cittadino britannico con genitori di origini senegalesi, entra in una scuola di danza a Southport con un coltello in mano. Inizia a colpire chiunque gli si pari davanti, principalmente bambine, che provano a difendersi come possono. Invano, però. Rudakubana vuole il sangue. Lo avrà. Sono 12 minuti che durano un’eternità e che provocheranno una carneficina. Rudakubana uccide tre bambine: Alice da Silva Aguiar, di nove anni; Bebe King, di sei ed Elsie Dot Stancombe, di sette. Altri dieci bimbi rimarranno feriti, alcuni in modo molto grave.
Nel Regno Unito cresce lo sdegno per questo ennesimo fatto di sangue che ha come protagonista un uomo di colore. Anche Michael dice la sua con un video di 12 minuti su Facebook. Viene accusato di incitamento all’odio razziale ma, quando va davanti al giudice, viene scagionato in una manciata di minuti. Non ha fatto nulla. Era frustrato, come gran parte dei britannici. Ha espresso la sua opinione. Tutto è bene quel che finisce bene, quindi. O forse no.
Due settimane dopo, infatti, il consiglio di tutela locale, che per legge è responsabile della protezione dei bambini vulnerabili, gli comunica che non è più idoneo a lavorare con i minori. Una decisione che lascia allibiti molti, visto che solitamente punizioni simili vengono riservate ai pedofili. Michael non lo è, ovviamente, ma non può comunque allenare la squadra della figlia. Di fronte a questa decisione, il veterano prova un senso di vergogna. Decide di parlare perché teme che la sua comunità lo consideri un pedofilo quando non lo è. In pochi lo ascoltano, però. Quasi nessuno. Il suo non è un caso isolato. Solamente l’anno scorso, infatti, oltre 12.000 britannici sono stati monitorati per i loro commenti in rete. A finire nel mirino sono soprattutto coloro che hanno idee di destra o che criticano l’immigrazione. Anche perché le istituzioni del Regno Unito cercano di tenere nascoste le notizie che riguardano le violenze dei richiedenti asilo. Qualche giorno fa, per esempio, una studentessa è stata violentata da due afghani, Jan Jahanzeb e Israr Niazal. I due le si avvicinano per portarla in un luogo appartato. La ragazza capisce cosa sta accadendo. Prova a fuggire ma non riesce. Accende la videocamera e registra tutto. La si sente pietosamente dire «mi stuprerai?» e gridare disperatamente aiuto. Che però non arriva. Il video è terribile, tanto che uno degli avvocati degli stupratori ha detto che, se dovesse essere pubblicato, il Regno Unito verrebbe attraversato da un’ondata di proteste. Che già ci sono. Perché l’immigrazione incontrollata sull’isola (e non solo) sta provocando enormi sofferenze alla popolazione locale. Nel Regno, certo. Ma anche da noi. Del resto è stato il questore di Milano a notare come gli stranieri compiano ormai l’80% dei reati predatori. Una vera e propria emergenza che, per motivi ideologici, si finge di non vedere.
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Una fotografia limpida e concreta di imprese, giustizia, legalità e creatività come parti di un’unica storia: quella di un Paese, il nostro, che ogni giorno prova a crescere, migliorarsi e ritrovare fiducia.
Un percorso approfondito in cui ci guida la visione del sottosegretario alle Imprese e al Made in Italy Massimo Bitonci, che ricostruisce lo stato del nostro sistema produttivo e il valore strategico del made in Italy, mettendo in evidenza il ruolo della moda e dell’artigianato come forza identitaria ed economica. Un contributo arricchito dall’esperienza diretta di Giulio Felloni, presidente di Federazione Moda Italia-Confcommercio, e dal suo quadro autentico del rapporto tra imprese e consumatori.
Imprese in cui la creatività italiana emerge, anche attraverso parole diverse ma complementari: quelle di Sara Cavazza Facchini, creative director di Genny, che condivide con il lettore la sua filosofia del valore dell’eleganza italiana come linguaggio culturale e non solo estetico; quelle di Laura Manelli, Ceo di Pinko, che racconta la sua visione di una moda motore di innovazione, competenze e occupazione. A completare questo quadro, la giornalista Mariella Milani approfondisce il cambiamento profondo del fashion system, ponendo l’accento sul rapporto tra brand, qualità e responsabilità sociale. Il tema di responsabilità sociale viene poi ripreso e approfondito, attraverso la chiave della legalità e della trasparenza, dal presidente dell’Autorità nazionale anticorruzione Giuseppe Busia, che vede nella lotta alla corruzione la condizione imprescindibile per la competitività del Paese: norme più semplici, controlli più efficaci e un’amministrazione capace di meritarsi la fiducia di cittadini e aziende. Una prospettiva che si collega alla voce del presidente nazionale di Confartigianato Marco Granelli, che denuncia la crescente vulnerabilità digitale delle imprese italiane e l’urgenza di strumenti condivisi per contrastare truffe, attacchi informatici e forme sempre nuove di criminalità economica.
In questo contesto si introduce una puntuale analisi della riforma della giustizia ad opera del sottosegretario Andrea Ostellari, che illustra i contenuti e le ragioni del progetto di separazione delle carriere, con l’obiettivo di spiegare in modo chiaro ciò che spesso, nel dibattito pubblico, resta semplificato. Il suo intervento si intreccia con il punto di vista del presidente dell’Unione Camere Penali Italiane Francesco Petrelli, che sottolinea il valore delle garanzie e il ruolo dell’avvocatura in un sistema equilibrato; e con quello del penalista Gian Domenico Caiazza, presidente del Comitato «Sì Separa», che richiama l’esigenza di una magistratura indipendente da correnti e condizionamenti. Questa narrazione attenta si arricchisce con le riflessioni del penalista Raffaele Della Valle, che porta nel dibattito l’esperienza di una vita professionale segnata da casi simbolici, e con la voce dell’ex magistrato Antonio Di Pietro, che offre una prospettiva insolita e diretta sui rapporti interni alla magistratura e sul funzionamento del sistema giudiziario.
A chiudere l’approfondimento è il giornalista Fabio Amendolara, che indaga il caso Garlasco e il cosiddetto «sistema Pavia», mostrando come una vicenda giudiziaria complessa possa diventare uno specchio delle fragilità che la riforma tenta oggi di correggere. Una coralità sincera e documentata che invita a guardare l’Italia con più attenzione, con più consapevolezza, e con la certezza che il merito va riconosciuto e difeso, in quanto unica chiave concreta per rendere migliore il Paese. Comprenderlo oggi rappresenta un'opportunità in più per costruire il domani.
Per scaricare il numero di «Osservatorio sul Merito» basta cliccare sul link qui sotto.
Merito-Dicembre-2025.pdf
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