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2025-04-03
Ucciso dai cittadini di Gaza il boia di Hamas che ammazzò i dissidenti anti tagliagole
Ansa
Nella Striscia di Gaza diventa sempre più tesa la situazione tra Hamas e la popolazione civile. Ieri il gruppo jihadista ha ammesso sul suo canale Telegram che lunedì uno dei responsabili degli omicidi dei sette gazawi che avevano partecipato alle proteste degli scorsi giorni è stato prima rapito e poi ammazzato in pieno giorno a colpi di arma da fuoco da alcuni uomini.
Ad oggi non si sa chi siano ma, secondo quanto raccontano gli stessi uomini dell’organizzazione terroristica, i sospetti si dirigono sui familiari o amici di Uday Al Rubai, 22 anni, residente nel quartiere Tel Al Hawa di Gaza City. Al Rubai, lo scorso 29 aprile, era stato rapito dall’organizzazione terroristica dopo aver incitato alle manifestazioni e torturato brutalmente per quattro ore. Il giovane stato trascinato con una corda al collo nella città di Gaza, picchiato su tutto il corpo con mazze e spranghe di ferro davanti ai passanti e, mentre stava morendo, è stato consegnato alla sua famiglia insieme a un biglietto: «Questo è quello che succede a chi critica Hamas».
Hamas, dopo il ritrovamento del cadavere del proprio miliziano, in una dichiarazione ha minacciato la popolazione: «L’uccisione di un cittadino senza giustificazione giudiziaria e da parte di soggetti non autorizzati costituisce un’uccisione extragiudiziale e richiede un’azione punitiva. Siamo in contatto con i servizi di sicurezza per adottare una serie di misure volte a mantenere la stabilità sul fronte interno, data la difficoltà di far rispettare la legge, gli attacchi deliberati e le persecuzioni in corso da parte del nemico». La popolazione, però, pare non dare ascolto alle minacce e ieri pomeriggio centinaia di cittadini di Beit Lahia (Nord di Gaza) hanno di nuovo protestato per chiedere la fine della guerra e l’espulsione di Hamas.
Sempre nella giornata di ieri, il ministro della Difesa israeliano, Israel Katz, ha annunciato l’espansione dell’operazione militare nella Striscia di Gaza preceduta da una serie di attacchi notturni. L’Idf ha confermato che aviazione e artiglieria hanno colpito obiettivi legati ad Hamas in più punti della Striscia. L’offensiva di terra prevede l’evacuazione su larga scala dei civili dalle aree interessate dai combattimenti, la neutralizzazione di Hamas e delle sue infrastrutture e l’occupazione di nuovi territori, che saranno integrati nelle zone di sicurezza israeliane per proteggere militari e comunità civili.
«Invito i residenti di Gaza ad agire ora per rimuovere Hamas e restituire tutti gli ostaggi. Questo è l’unico modo per porre fine alla guerra», ha dichiarato Katz. L’Idf e lo Shin Bet hanno detto in una dichiarazione congiunta di aver effettuato un attacco contro gli operativi terroristici di Hamas nell’area di Jabalia dopo aver avvisato per tempo i civili. I media palestinesi hanno riferito di almeno dieci morti nell’attacco e hanno affermato che l’obiettivo era una clinica dell’Unrwa.
Ma perché una clinica dell’Onu è stata oggetto di un attacco israeliano? L’Idf ha reso noto che era usato come base terroristica: «Gli agenti si trovavano in un complesso di comando e controllo che fungeva da infrastruttura terroristica e da punto di incontro centrale per l’organizzazione terroristica. Inoltre, l’edificio è stato utilizzato dal battaglione Jabalia per portare avanti i piani di attacco contro i civili israeliani e le forze dell’Idf». Benjamin Netanyahu ha rilasciato una dichiarazione sulle intensificazioni delle operazioni israeliane nella Striscia di Gaza e ha annunciato che Israele assumerà il controllo di un ulteriore corridoio: «Nella Striscia di Gaza abbiamo cambiato marcia. L’Idf sta prendendo territorio, colpendo i terroristi e distruggendo infrastrutture. E noi stiamo facendo qualcos’altro: stiamo prendendo il Corridoio Morag», che è situato tra Rafah e Khan Yunis.
Sale sempre di più la tensione tra Stati Uniti, Israele e Iran dopo che la leadership di Teheran non ha dato seguito alle richieste di Donald Trump (appoggiate da molti Paesi dell’area, uno su tutti l’Arabia Saudita) che non intende consentire agli iraniani di dotarsi di armi nucleari. In tal senso Emmanuel Macron ha chiesto la convocazione di una riunione straordinaria del Gabinetto di sicurezza sul programma nucleare iraniano e sulla possibilità che gli Stati Uniti e Israele attacchino i suoi impianti nucleari. Il segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Pete Hegseth, ha disposto il dispiegamento di ulteriori aerei da guerra per potenziare la presenza navale del Pentagono in Medio Oriente, secondo quanto dichiarato martedì dallo stesso dipartimento della Difesa. Sebbene la nota ufficiale menzionasse solo genericamente il rafforzamento delle forze aeree, fonti statunitensi che hanno parlato con Reuters a condizione di anonimato hanno riferito che almeno quattro bombardieri B-2 sono stati trasferiti in una base militare congiunta anglo-americana sull’isola di Diego Garcia, nell’Oceano Indiano - una posizione strategica da cui è possibile raggiungere rapidamente lo Yemen o l’Iran.
Secondo Bloomberg, Hegseth ha anche ordinato al gruppo d’attacco della portaerei Carl Vinson di dirigersi nella regione: la nave arriverà dopo aver completato le esercitazioni nell’Indo-Pacifico. Inoltre «il dipartimento sta prolungando il dispiegamento del gruppo d’attacco della portaerei Harry Truman nella regione», ha affermato il portavoce del Pentagono, Sean Parnell. Tutto lascia presagire che qualcosa di grosso sia in preparazione magari prima nello Yemen e poi in Iran.
La Grecia copia Israele e fa lo Scudo d’Achille
L’Unione europea ha esortato tutti i suoi Stati membri a riarmarsi. E la Grecia ha risposto all’appello. Ieri, durante la riunione plenaria del Parlamento di Atene, il premier Kyriakos Mitsotakis ha annunciato un maxi stanziamento di 25 miliardi di euro per la Difesa. «Il prezzo della libertà è la vigilanza costante, diceva Thomas Jefferson», è stato l’incipit del suo lungo discorso in cui ha spiegato ai deputati l’ambizioso piano di riarmo della Grecia. Per una nazione di soli 10 milioni di abitanti, in effetti, si tratta di un investimento molto consistente. Anzi, come ha specificato con enfasi lo stesso Mitsotakis, si parla nientemeno che della «più drastica trasformazione delle forze armate nella storia moderna».
Illustrando i dettagli del progetto, il primo ministro ha dichiarato che questo vasto potenziamento della Difesa è necessario per «rimanere forti e indipendenti in un mondo che cambia a ritmi imprevedibili» e «in un contesto internazionale incerto». L’obiettivo del governo, ha proseguito Mitsotakis, «è che la Grecia disponga in pochi anni di uno dei sistemi di difesa più avanzati d’Europa». Secondo il quotidiano ellenico Kathimerini, il piano avrà una durata di 12 anni.
Questi 25 miliardi, peraltro, saranno stanziati dopo che la Grecia ha già raddoppiato le spese ordinarie per la Difesa, portandole quest’anno a oltre 6 miliardi di euro. Senza contare che, come ha rivendicato Mitsotakis in Parlamento, «per la prima volta in 14 anni, gli ufficiali delle forze armate hanno visto aumentare i loro stipendi e i loro benefit». Un’attenzione, quella per la Difesa, che non è affatto una novità per Atene, che da tempo destina al settore più del 3% del proprio Pil. E la motivazione è anche semplice da intuire: la minacciosa vicinanza della Turchia, rivale storica della Grecia, che nel frattempo ha allestito il secondo esercito più forte della Nato dopo quello degli Stati Uniti.
«La filosofia del nuovo programma», ha poi spiegato Mitsotakis, «riguarda innanzitutto l’introduzione di nuove tecnologie. Ciò che chiamavamo “Difesa” significa molto più che semplice sorveglianza delle frontiere: vi rientrano le minacce ibride come i flussi migratori, campagne di disinformazione, attacchi informatici». Oltre a specificare che il progetto di riarmo non comporterà «eccessi di spesa», il premier ellenico ha sottolineato che un altro punto caratterizzante del piano sarà «la partecipazione dell’industria greca del settore a tutti i programmi che il ministero della Difesa avvierà nei prossimi anni».
La volontà di potenziare la propria industria domestica, tuttavia, non esclude per il momento il ricorso ad armamenti stranieri. Per quanto riguarda la marina militare, ad esempio, il quotidiano Kathimerini ha rivelato che il governo di Atene starebbe trattando l’acquisto di due fregate Fremm italiane, ossia la Virginio Fasan (F 591) e la Carlo Bergamini (F 590), per cui sarebbe stato stanziato un budget di 580 milioni di euro.
Ma uno dei punti più interessanti del piano di riarmo, che non a caso Mitsotakis ha definito come «il progetto più emblematico», riguarda senz’altro l’allestimento di un sistema di difesa aerea all’avanguardia. Il premier ne ha già svelato il nome: si chiamerà «Scudo di Achille», costerà circa 2,8 miliardi di euro e, pertanto, sarà «probabilmente il più significativo investimento dei prossimi anni». Stando sempre a Kathimerini, questo scudo dagli echi omerici sarà dotato delle più sofisticate tecnologie anti drone, antiaeree e antimissile balistico. Una sorta di Iron dome in salsa ellenica. E, infatti, non è un caso che lo Scudo di Achille sarà prodotto proprio da aziende israeliane (si parla di Iai, Rafael ed Elbit), che doteranno le forze armate greche di sistemi missilistici terra-aria ad alto, medio e corto raggio (Hsam, Msam), oltre a una rete radar avanzata.
L’annuncio di Mitsotakis, del resto, è arrivato poco dopo la sua recente visita a Gerusalemme, dove ha discusso con Benjamin Netanyahu di progetti di produzione congiunta di armi tra Grecia e Israele.
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Ieri altre proteste della popolazione contro i jihadisti. L’Idf intensifica gli attacchi nella Striscia, Netanyahu: «Ora cambiamo marcia». Sale la tensione tra Usa e Iran.Atene stanzia 25 miliardi per rifare la Difesa e per comprare da Gerusalemme un sistema come l’Iron dome.Lo speciale contiene due articoli.Nella Striscia di Gaza diventa sempre più tesa la situazione tra Hamas e la popolazione civile. Ieri il gruppo jihadista ha ammesso sul suo canale Telegram che lunedì uno dei responsabili degli omicidi dei sette gazawi che avevano partecipato alle proteste degli scorsi giorni è stato prima rapito e poi ammazzato in pieno giorno a colpi di arma da fuoco da alcuni uomini.Ad oggi non si sa chi siano ma, secondo quanto raccontano gli stessi uomini dell’organizzazione terroristica, i sospetti si dirigono sui familiari o amici di Uday Al Rubai, 22 anni, residente nel quartiere Tel Al Hawa di Gaza City. Al Rubai, lo scorso 29 aprile, era stato rapito dall’organizzazione terroristica dopo aver incitato alle manifestazioni e torturato brutalmente per quattro ore. Il giovane stato trascinato con una corda al collo nella città di Gaza, picchiato su tutto il corpo con mazze e spranghe di ferro davanti ai passanti e, mentre stava morendo, è stato consegnato alla sua famiglia insieme a un biglietto: «Questo è quello che succede a chi critica Hamas».Hamas, dopo il ritrovamento del cadavere del proprio miliziano, in una dichiarazione ha minacciato la popolazione: «L’uccisione di un cittadino senza giustificazione giudiziaria e da parte di soggetti non autorizzati costituisce un’uccisione extragiudiziale e richiede un’azione punitiva. Siamo in contatto con i servizi di sicurezza per adottare una serie di misure volte a mantenere la stabilità sul fronte interno, data la difficoltà di far rispettare la legge, gli attacchi deliberati e le persecuzioni in corso da parte del nemico». La popolazione, però, pare non dare ascolto alle minacce e ieri pomeriggio centinaia di cittadini di Beit Lahia (Nord di Gaza) hanno di nuovo protestato per chiedere la fine della guerra e l’espulsione di Hamas.Sempre nella giornata di ieri, il ministro della Difesa israeliano, Israel Katz, ha annunciato l’espansione dell’operazione militare nella Striscia di Gaza preceduta da una serie di attacchi notturni. L’Idf ha confermato che aviazione e artiglieria hanno colpito obiettivi legati ad Hamas in più punti della Striscia. L’offensiva di terra prevede l’evacuazione su larga scala dei civili dalle aree interessate dai combattimenti, la neutralizzazione di Hamas e delle sue infrastrutture e l’occupazione di nuovi territori, che saranno integrati nelle zone di sicurezza israeliane per proteggere militari e comunità civili.«Invito i residenti di Gaza ad agire ora per rimuovere Hamas e restituire tutti gli ostaggi. Questo è l’unico modo per porre fine alla guerra», ha dichiarato Katz. L’Idf e lo Shin Bet hanno detto in una dichiarazione congiunta di aver effettuato un attacco contro gli operativi terroristici di Hamas nell’area di Jabalia dopo aver avvisato per tempo i civili. I media palestinesi hanno riferito di almeno dieci morti nell’attacco e hanno affermato che l’obiettivo era una clinica dell’Unrwa.Ma perché una clinica dell’Onu è stata oggetto di un attacco israeliano? L’Idf ha reso noto che era usato come base terroristica: «Gli agenti si trovavano in un complesso di comando e controllo che fungeva da infrastruttura terroristica e da punto di incontro centrale per l’organizzazione terroristica. Inoltre, l’edificio è stato utilizzato dal battaglione Jabalia per portare avanti i piani di attacco contro i civili israeliani e le forze dell’Idf». Benjamin Netanyahu ha rilasciato una dichiarazione sulle intensificazioni delle operazioni israeliane nella Striscia di Gaza e ha annunciato che Israele assumerà il controllo di un ulteriore corridoio: «Nella Striscia di Gaza abbiamo cambiato marcia. L’Idf sta prendendo territorio, colpendo i terroristi e distruggendo infrastrutture. E noi stiamo facendo qualcos’altro: stiamo prendendo il Corridoio Morag», che è situato tra Rafah e Khan Yunis.Sale sempre di più la tensione tra Stati Uniti, Israele e Iran dopo che la leadership di Teheran non ha dato seguito alle richieste di Donald Trump (appoggiate da molti Paesi dell’area, uno su tutti l’Arabia Saudita) che non intende consentire agli iraniani di dotarsi di armi nucleari. In tal senso Emmanuel Macron ha chiesto la convocazione di una riunione straordinaria del Gabinetto di sicurezza sul programma nucleare iraniano e sulla possibilità che gli Stati Uniti e Israele attacchino i suoi impianti nucleari. Il segretario alla Difesa degli Stati Uniti, Pete Hegseth, ha disposto il dispiegamento di ulteriori aerei da guerra per potenziare la presenza navale del Pentagono in Medio Oriente, secondo quanto dichiarato martedì dallo stesso dipartimento della Difesa. Sebbene la nota ufficiale menzionasse solo genericamente il rafforzamento delle forze aeree, fonti statunitensi che hanno parlato con Reuters a condizione di anonimato hanno riferito che almeno quattro bombardieri B-2 sono stati trasferiti in una base militare congiunta anglo-americana sull’isola di Diego Garcia, nell’Oceano Indiano - una posizione strategica da cui è possibile raggiungere rapidamente lo Yemen o l’Iran.Secondo Bloomberg, Hegseth ha anche ordinato al gruppo d’attacco della portaerei Carl Vinson di dirigersi nella regione: la nave arriverà dopo aver completato le esercitazioni nell’Indo-Pacifico. Inoltre «il dipartimento sta prolungando il dispiegamento del gruppo d’attacco della portaerei Harry Truman nella regione», ha affermato il portavoce del Pentagono, Sean Parnell. Tutto lascia presagire che qualcosa di grosso sia in preparazione magari prima nello Yemen e poi in Iran.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/ucciso-cittadini-gaza-boia-hamas-2671665919.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-grecia-copia-israele-e-fa-lo-scudo-dachille" data-post-id="2671665919" data-published-at="1743661114" data-use-pagination="False"> La Grecia copia Israele e fa lo Scudo d’Achille L’Unione europea ha esortato tutti i suoi Stati membri a riarmarsi. E la Grecia ha risposto all’appello. Ieri, durante la riunione plenaria del Parlamento di Atene, il premier Kyriakos Mitsotakis ha annunciato un maxi stanziamento di 25 miliardi di euro per la Difesa. «Il prezzo della libertà è la vigilanza costante, diceva Thomas Jefferson», è stato l’incipit del suo lungo discorso in cui ha spiegato ai deputati l’ambizioso piano di riarmo della Grecia. Per una nazione di soli 10 milioni di abitanti, in effetti, si tratta di un investimento molto consistente. Anzi, come ha specificato con enfasi lo stesso Mitsotakis, si parla nientemeno che della «più drastica trasformazione delle forze armate nella storia moderna». Illustrando i dettagli del progetto, il primo ministro ha dichiarato che questo vasto potenziamento della Difesa è necessario per «rimanere forti e indipendenti in un mondo che cambia a ritmi imprevedibili» e «in un contesto internazionale incerto». L’obiettivo del governo, ha proseguito Mitsotakis, «è che la Grecia disponga in pochi anni di uno dei sistemi di difesa più avanzati d’Europa». Secondo il quotidiano ellenico Kathimerini, il piano avrà una durata di 12 anni. Questi 25 miliardi, peraltro, saranno stanziati dopo che la Grecia ha già raddoppiato le spese ordinarie per la Difesa, portandole quest’anno a oltre 6 miliardi di euro. Senza contare che, come ha rivendicato Mitsotakis in Parlamento, «per la prima volta in 14 anni, gli ufficiali delle forze armate hanno visto aumentare i loro stipendi e i loro benefit». Un’attenzione, quella per la Difesa, che non è affatto una novità per Atene, che da tempo destina al settore più del 3% del proprio Pil. E la motivazione è anche semplice da intuire: la minacciosa vicinanza della Turchia, rivale storica della Grecia, che nel frattempo ha allestito il secondo esercito più forte della Nato dopo quello degli Stati Uniti. «La filosofia del nuovo programma», ha poi spiegato Mitsotakis, «riguarda innanzitutto l’introduzione di nuove tecnologie. Ciò che chiamavamo “Difesa” significa molto più che semplice sorveglianza delle frontiere: vi rientrano le minacce ibride come i flussi migratori, campagne di disinformazione, attacchi informatici». Oltre a specificare che il progetto di riarmo non comporterà «eccessi di spesa», il premier ellenico ha sottolineato che un altro punto caratterizzante del piano sarà «la partecipazione dell’industria greca del settore a tutti i programmi che il ministero della Difesa avvierà nei prossimi anni». La volontà di potenziare la propria industria domestica, tuttavia, non esclude per il momento il ricorso ad armamenti stranieri. Per quanto riguarda la marina militare, ad esempio, il quotidiano Kathimerini ha rivelato che il governo di Atene starebbe trattando l’acquisto di due fregate Fremm italiane, ossia la Virginio Fasan (F 591) e la Carlo Bergamini (F 590), per cui sarebbe stato stanziato un budget di 580 milioni di euro. Ma uno dei punti più interessanti del piano di riarmo, che non a caso Mitsotakis ha definito come «il progetto più emblematico», riguarda senz’altro l’allestimento di un sistema di difesa aerea all’avanguardia. Il premier ne ha già svelato il nome: si chiamerà «Scudo di Achille», costerà circa 2,8 miliardi di euro e, pertanto, sarà «probabilmente il più significativo investimento dei prossimi anni». Stando sempre a Kathimerini, questo scudo dagli echi omerici sarà dotato delle più sofisticate tecnologie anti drone, antiaeree e antimissile balistico. Una sorta di Iron dome in salsa ellenica. E, infatti, non è un caso che lo Scudo di Achille sarà prodotto proprio da aziende israeliane (si parla di Iai, Rafael ed Elbit), che doteranno le forze armate greche di sistemi missilistici terra-aria ad alto, medio e corto raggio (Hsam, Msam), oltre a una rete radar avanzata. L’annuncio di Mitsotakis, del resto, è arrivato poco dopo la sua recente visita a Gerusalemme, dove ha discusso con Benjamin Netanyahu di progetti di produzione congiunta di armi tra Grecia e Israele.
Trump blocca il petrolio del Venezuela. Domanda elettrica, una questione di sicurezza nazionale. Le strategie della Cina per l’Artico. Auto 2035, l’Ue annacqua ma ormai il danno è fatto.
Dinanzi a tale insipienza strategica, i popoli non rimangono impassibili. Già alla vigilia del vertice dei 27, Politico aveva pubblicato i risultati di un sondaggio, secondo il quale sia in Francia sia in Germania sono aumentati quelli che vorrebbero «ridurre significativamente» il sostegno monetario all’Ucraina. I tedeschi che chiedono tagli drastici sono il 32%, percentuale cui va sommato il 14% di quanti si accontenterebbero di una qualsiasi stretta. Totale: 46%. I transalpini stufi di sborsare, invece, sono il 37% del totale. Per la Bild, l’opinione pubblica di Berlino è ancora più netta sull’opportunità di continuare a inviare armi al fronte: il 58% risponde di no. Infine, una rilevazione di Rtl e Ntv ha appurato che il 75% dei cittadini boccia l’operato del cancelliere Friedrich Merz, principale fautore della poi scongiurata «rapina» dei fondi di Mosca. Non è un caso che, stando almeno alle ricostruzioni del Consiglio Ue proposte da Repubblica, Emmanuel Macron e Giorgia Meloni abbiano motivato le proprie riserve sul piano con la difficoltà di far digerire ai Parlamenti nazionali, quindi agli elettori, una mozza così azzardata. Lo scollamento permanente dalla realtà che caratterizza l’operato della Commissione, a quanto pare, risponde alla filosofia esposta da Sergio Mattarella a proposito del riarmo a tappe forzate: è impopolare, ma è necessario.
La disputa sulle sovvenzioni a Zelensky - e speriamo siano a Zelensky, ovvero al bilancio del Paese aggredito, anziché ai cessi d’oro dei suoi oligarchi corrotti - ha comunque generato pure un’altra forma di divaricazione: quella tra i fatti e le rappresentazioni mediatiche.
I fatti sono questi: Ursula von der Leyen, spalleggiata da Merz, ha subìto l’ennesimo smacco; l’Unione ha ripiegato all’unanimità sugli eurobond, sebbene Ungheria, Slovacchia e Repubblica Ceca siano state esentate dagli obblighi contributivi, perché abbandonare i lavori senza alcun accordo, oppure con un accordo a maggioranza qualificata, sarebbe stato drammatico; alla fine, l’Europa si è condannata all’ennesimo salasso. E la rappresentazione?
La Stampa ieri è partita per Plutone: titolava sulla «svolta» del debito comune, descritta addirittura come un «compromesso storico». Il corrispondente da Bruxelles, Marco Bresolin, in verità ha usato toni più sobri, sottolineando la «grande delusione» di chi avrebbe voluto «punire la Russia» e riconoscendo il successo del premier belga, Bart De Wever, ostile all’impiego degli asset; mentre l’inviato, Francesco Malfetano, dava atto alla Meloni di aver pianificato «la sua mossa più efficace». Sul Corriere, il fiasco di Merz si è trasformato in una «vittoria a metà». Repubblica ha borbottato per la «trappola» tesa dal cancelliere e a Ursula. Ma Andrea Bonanni, in un editoriale, ha lodato l’esito «non scontato» del Consiglio. L’Europa, ha scritto, «era chiamata a sostituirsi a Washington per consentire a Kiev di continuare la resistenza contro l’attacco russo. Lo ha fatto. Doveva trovare i soldi. Li ha trovati ricorrendo ancora una volta a un prestito comune, come fece al tempo dell’emergenza Covid». Un trionfo. Le memorie del regimetto pandemico avranno giocato un ruolo, nel convincere le firme di largo Fochetti che, «stavolta», l’Ue abbia «battuto un colpo».
Un colpo dev’essere venuto ai leader continentali. Costoro, compiuto il giro di boa, forse si convinceranno a smetterla di sabotare le trattative. Prova ne sia la sveglia di Macron, che ha avvisato gli omologhi: se fallisce la mediazione Usa, tocca agli europei aprire un canale con Vladimir Putin. Tutto sommato, avere gli asset in ostaggio può servire a scongiurare l’incubo dell’Ue: sparire di scena.
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Volodymyr Zelensky (Ansa)
La soluzione del prestito dunque salva capra e cavoli, ovvero gli interessi di chi ritiene giusto dover alimentare con aiuti e armi la resistenza di Kiev e anche quelli di quanti temevano la reazione russa all’uso dei fondi. Una mediazione soddisfacente per tutti, dunque? Non esattamente, visto che la soluzione escogitata non è affatto gratis. Già: mentre i vertici della Ue si fanno i complimenti per aver raggiunto un’intesa, a non congratularsi dovrebbero essere i cittadini europei, perché l’accordo raggiunto non è gratis, ma graverà ancora una volta sulle tasche dei contribuenti. Lasciate perdere per un momento come e quando l’Ucraina sarà in grado di restituire il prestito che le verrà concesso. Se Kiev fosse un comune cittadino nessuna banca la finanzierebbe, perché agli occhi di qualsiasi istituto di credito non offrirebbe alcuna garanzia di restituzione del mutuo concesso. Per molti anni gli ucraini non saranno in grado di restituire ciò che ricevono. Dunque, i soldi che la Ue si prepara a erogare rischiano di essere a fondo perduto, cioè di non ritornare mai nelle tasche dei legittimi proprietari, cioè noi, perché il prestito non è garantito da Volodymyr Zelensky, in quanto il presidente ucraino non ha nulla da offrire in garanzia, ma dall’Europa, vale a dire da chi nel Vecchio continente paga le tasse.
Lasciate perdere che, con la corruzione che regna nel Paese, parte dei soldi che diamo a Kiev rischia di sparire nelle tasche di una serie di politici e burocrati avidi prima ancora di arrivare a destinazione. E cancelliamo pure dalla memoria le immagini dei cessi d’oro fatti installare dai collaboratori mano lesta del presidente ucraino: rubinetti, bidet, vasca e tutto il resto lo abbiamo pagato noi, con i nostri soldi. Il grande reset della realtà, per come si è fin qui palesata, tuttavia non può cancellare quello che ci aspetta.
Il prestito della Ue, come ogni finanziamento, non è gratis: quando voi fate il mutuo per la casa, oltre a rimborsare mese dopo mese parte del capitale, pagate gli interessi. Ma in questo caso il tasso non sarà a carico di chi riceve i soldi, come sempre capita, ma - udite, udite - di chi li garantisce, ovvero noi. Politico, sito indipendente, ha calcolato che ogni anno la Ue sarà costretta a sborsare circa 3 miliardi di interessi, non proprio noccioline. Chi pagherà? È ovvio: non sarà lo Spirito Santo, ma ancora noi. Dividendo la cifra per il numero di abitanti all’interno della Ue si capisce che ogni cittadino dovrà mettere mano al portafogli per 220 euro, neonati e minorenni inclusi. Se poi l’aliquota la si vuol applicare sopra una certa soglia di età, si arriva a 300.
Ecco, la pace sia con voi la pagheremo cara e probabilmente pagheremo cari anche i 90 miliardi concessi all’Ucraina, perché quasi certamente Kiev non li restituirà mai e toccherà a noi, intesi come Ue, farcene carico. Piccola noticina: com’è che, quando servivano soldi per rilanciare l’economia e i salari, Bruxelles era contraria e adesso, se c’è da far debito per sostenere l’Ucraina, invece è favorevole? Il mistero delle scelte Ue continua. Ma soprattutto, si capisce che alla base di ogni decisione, a differenza di ciò che ci hanno raccontato per anni, non ci sono motivazioni economiche, ma solo politiche.
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Kirill Budanov (Ansa)
Sicuramente nei potenziali colloqui è prevista la partecipazione americana, ma potrebbero aggiungersi anche gli europei, visto che si trovano sul suolo americano. Il presidente ucraino, nell’annunciare questa opportunità, ha dichiarato che Washington «ha proposto il seguente formato: Ucraina, America, Russia e, dato che ci sono rappresentanti dell’Europa, probabilmente anche l’Europa». E in tal caso a prendere parte sarebbero i consiglieri per la sicurezza nazionale. Pare però che la decisione finale spetti a Zelensky: sarà l’Ucraina a stabilire la configurazione della riunione in base all’esito dell’incontro di venerdì tra i negoziatori americani, la delegazione ucraina e quella europea. E per questo il presidente ucraino, che si mostra già scettico, ha comunicato che ne parlerà con Rustem Umerov. D’altronde, Zelensky ha spiegato che deve ancora essere aggiornato sui risultati raggiunti a Miami: «Il nostro team si metterà in contatto con me: mi comunicheranno l’esito del primo blocco di dialogo e poi capiremo cosa fare». Poco dopo ha riferito che la proposta americana potrebbe essere accettata qualora faciliti lo scambio di prigionieri e sia il preludio di un incontro «tra i leader». Ha poi avvertito che Washington deve chiarire «se c’è una via diplomatica», altrimenti, in caso contrario «ci sarà una pressione totale» su Mosca.
Ma prima dell’eventuale trilaterale o quadrilaterale, ieri l’inviato americano, Steve Witkoff, il genero di Donald Trump, Jared Kushner, e il segretario di Stato americano, Marco Rubio, la cui presenza però, quando siamo andati in stampa, non era ancora confermata, si sono incontrati a Miami con la delegazione russa guidata da Kirill Dmitriev. L’inviato del presidente russo, Vladimir Putin, prima dei colloqui, ha condiviso su X un video girato durante la precedente missione in Florida, scrivendo: «In viaggio per Miami. Mentre i guerrafondai continuano a fare gli straordinari per indebolire il piano di pace degli Stati Uniti per l’Ucraina, mi sono ricordato di questo video della mia precedente visita. La luce che irrompe attraverso le nuvole temporalesche». Più tardi, mentre era in viaggio verso la Florida, ha aggiunto che la Russia è «pronta a collaborare con gli Stati Uniti nell’Artico».
Ma oltre agli interessi già noti in quell’area, Mosca avrebbe altri obiettivi. In una versione che stride con la visione della Casa Bianca, sei fonti vicine all’intelligence americana hanno infatti rivelato a Reuters che la Russia mira a conquistare tutta l’Ucraina e i Paesi dell’ex Unione sovietica. Il membro democratico della Commissione intelligence della Camera, Mike Quigley, interpellato dall’agenzia britannica, ha dichiarato: «Le informazioni di intelligence hanno sempre indicato che Putin vuole di più. Gli europei ne sono convinti. I polacchi ne sono assolutamente convinti. I baltici pensano di essere i primi». Che tra i target russi ci siano gli Stati baltici ne è certo anche il capo del servizio segreto militare ucraino, Kirill Budanov. In un’intervista rilasciata a LB.ua. ha annunciato che «il piano originale» di Mosca prevedeva «di iniziare le operazioni» di conquista «nel 2030», ma «ora i piani sono stati modificati e rivisti per anticipare la tempistica al 2027».
Guardando invece al presente, l’apertura dello zar russo a un cessate il fuoco in Ucraina qualora si tenessero le elezioni non è stata apprezzata dal leader di Kiev. Zelensky ha detto che «non spetta a Putin decidere quando e in quale forma si terranno le elezioni in Ucraina». Tuttavia, ha già comunicato che il ministero degli Esteri è al lavoro per organizzare il voto all’estero. Immediata è stata la risposta del Cremlino, con il suo portavoce Dmitry Peskov che ha bollato Zelensky come «confuso» e «contradditorio» dato che ha già chiesto il sostegno americano proprio per garantire che le eventuali elezioni si svolgano in sicurezza.
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