
Il premier polacco replica giocando a ping pong. Siluro da Ecr: «Torni lo Stato di diritto».Dopo il voltafaccia della Silicon Valley, la retromarcia di Jeff Bezos e il salto della quaglia di Mark Zuckerberg, un altro eroe della sinistra sembra abbia tradito i suoi compagni. Stiamo parlando di Donald Tusk. Ex presidente del Consiglio europeo (2014-2019), fustigatore di populisti, europeista doc, è stato letteralmente portato sugli scudi quando, nel 2023, ha vinto le elezioni polacche battendo i «cattivi» di Diritto e giustizia (Pis). O meglio: a vincere erano stati i conservatori di Jaroslaw Kaczynski, che con il loro 35% avevano prevalso sul 30% raccolto da Piattaforma civica di Tusk. Ma poi, grazie all’appoggio di altre forze, il sodale di Ursula von der Leyen è tornato al potere, con tanto di spumanti stappati da Bruxelles fino a Strasburgo.Eppure, di grattacapi, il buon Tusk ne ha creati parecchi al fronte unico progressista. E continua a farlo. L’altro ieri, accogliendo a Danzica Ursula e gli altri commissari europei, ha ribadito - per l’ennesima volta - che «la Polonia non attuerà il Patto Ue sui migranti». Doccia gelata. Ma non è tutto: l’eroe della sinistra al caviale, salutato come il salvatore della democrazia, è finito sotto la lente d’ingrandimento dei giudici per essersene bellamente infischiato dello Stato di diritto.Che cosa è successo di preciso? Bogdan Swieczkowski, il presidente della Corte costituzionale polacca, ha presentato una formale denuncia contro Tusk. L’accusa è grave: aver organizzato un colpo di Stato. I pubblici ministeri polacchi hanno accolto la denuncia: il viceprocuratore generale, Michal Ostrowski, ha avviato un’indagine su Tusk, i relatori dei due rami del Parlamento, il capo del Centro legislativo del governo, nonché svariati giudici e procuratori. In un documento di circa 60 pagine, il presidente della Corte costituzionale sostiene che Tusk e i suoi alleati, a partire dal 13 dicembre 2023 (giorno di insediamento del governo), avrebbero formato un «gruppo criminale organizzato» che mira alla «modifica dell’ordinamento costituzionale della Repubblica di Polonia». «Ho deciso di avviare un’indagine su un colpo di Stato e sull’uso di minacce e violenza illegale per influenzare gli organi costituzionali della legge, come il Tribunale costituzionale, il Consiglio nazionale della magistratura (Krs), la Corte suprema, i tribunali comuni e il Consiglio nazionale di radiodiffusione», ha dichiarato Ostrowski. «Il mio obiettivo», ha proseguito il viceprocuratore, «è quello di chiarire in modo oggettivo e approfondito le circostanze descritte nella denuncia. Non sto giudicando in anticipo l’esito, ma è mio dovere condurre le procedure di raccolta delle prove in modo calmo e oggettivo in una questione così grave». Insomma, secondo l’accusa, Tusk avrebbe dato avvio a una militarizzazione di tutti gli apparati di Stato, media inclusi. Per molto meno, un premier di destra sarebbe stato spedito direttamente a Norimberga.In ogni caso, Tusk ha tentato in tutti i modi di sminuire l’indagine: «Dai, abbiamo cose più importanti a cui pensare», ha dichiarato il primo ministro polacco in un video diffuso sui social, in cui lo si vede giocare a ping pong, deridendo quindi la Procura generale. Kaczynski, invece, si è detto soddisfatto dell’operato dei pm che hanno aperto il fascicolo sull’ipotesi di colpo di Stato: «Questo è il modo in cui una serie di azioni che violano apertamente la legge e la Costituzione dovrebbero essere classificate», ha scritto su X il leader di Pis. Dal canto suo, pur non parlando di golpe, il presidente della Repubblica, Andrzej Duda, non ha avuto remore ad accusare il governo di Tusk di «palesi violazioni costituzionali». A prendere posizione contro il rampollo di Bruxelles è stato anche il Gruppo dei conservatori europei (Ecr): i due copresidenti, Nicola Procaccini e Patryk Jaki, hanno dichiarato di «sostenere pienamente l’indagine in corso per chiarire le accuse».
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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