2022-12-11
Trump fu oscurato ben prima di Capitol Hill
La nuova tranche di documenti interni di Twitter resa pubblica da Elon Musk fa luce sulla censura social dell’allora presidente americano. L’assalto al Campidoglio non c’entra: erano settimane che venivano nascosti i suoi tweet. Spesso a chiederlo era l’Fbi.Continuano ad emergere prove della malsana collusione tra Twitter e la politica. L’altro ieri sera, Elon Musk ha rilasciato la terza tornata dei cosiddetti Twitter Files, affidandone la diffusione al giornalista Matt Taibbi. In particolare, la nuova tranche di documenti rivela il processo decisionale che portò la piattaforma di San Francisco a bloccare l’account di Donald Trump l’anno scorso. Al medesimo argomento saranno tra l’altro dedicati anche i documenti che verranno pubblicati tra le giornate di oggi e domani. Taibbi ha iniziato subito col dire che il processo di censura ai danni dell’allora presidente americano è cominciato molto tempo prima del grave assalto al Campidoglio, verificatosi il 6 gennaio 2021. «L’azienda disponeva di una vasta gamma di strumenti per manipolare la visibilità, la maggior parte dei quali sono stati lanciati contro Trump (e altri) prima del 6 gennaio», ha scritto il giornalista. «Con l’avvicinarsi delle elezioni, gli alti dirigenti - forse sotto la pressione delle agenzie federali, con le quali si sono sempre più incontrati con il passare del tempo - hanno progressivamente avuto difficoltà con le regole e hanno iniziato a parlare di violazioni come pretesti per fare ciò che probabilmente avrebbero fatto comunque», ha proseguito. Fu d’altronde l’8 ottobre 2020, circa un mese prima delle presidenziali di allora, che Twitter aprì un canale interno per controllare i post di «account d’alto profilo», dedicati alle elezioni. Secondo Taibbi, su questo fronte il vero potere decisionale era principalmente nelle mani dell’allora responsabile legale di Twitter, Vijaya Gadde, e del dirigente, Yoel Roth. «Quest’ultimo gruppo», precisa il giornalista, «era una Corte Suprema di moderazione ad alta velocità, che emetteva sentenze sui contenuti al volo, spesso in pochi minuti e sulla base di supposizioni, di istinti, persino di ricerche su Google, anche nei casi che coinvolgevano il presidente». Inoltre, cosa ancor più importante, Taibbi ha riferito che «durante questo periodo, i dirigenti stavano anche chiaramente collaborando con le forze dell’ordine federali e con le agenzie di intelligence per la moderazione dei contenuti relativi alle elezioni». Almeno in alcuni casi, era infatti proprio l’Fbi a segnalare all’azienda i tweet da mettere nel mirino. Attenzione: Taibbi non ha escluso che richieste di moderazione dei contenuti possano essere pervenute a Twitter anche da Trump o dal Partito repubblicano. Tuttavia il giornalista ha precisato che, nelle tranche di documenti pubblicati finora, di tali richieste non vi sarebbe traccia. Ma non è tutto. Un ulteriore aspetto da sottolineare è un certo doppiopesismo da parte della piattaforma di San Francisco. I dirigenti erano particolarmente occhiuti e pronti a segnalare i post di utenti conservatori che mettevano in dubbio l’integrità delle elezioni del 2020. Peccato che non fossero altrettanto severi con quegli utenti progressisti che, nei giorni precedenti alle presidenziali di allora, sostenevano che Trump avrebbe potuto «rubare le elezioni». Davanti alla teoria complottista secondo cui l’allora presidente americano avrebbe potuto sovvertire i risultati elettorali con l’aiuto della giudice suprema da lui nominata Amy Coney Barrett, i vertici di Twitter non solo non considerarono quei post come violazioni delle proprie policy, ma definirono anche tale tesi balzana come «comprensibile». Secondo Taibbi, «alcuni dirigenti volevano utilizzare il nuovo strumento di deamplificazione per limitare in modo silenzioso l’audience di Trump immediatamente», a cominciare da un tweet del 10 dicembre 2020: come si può quindi vedere, lo sforzo di Twitter contro l’allora presidente americano era partito settimane prima dei fattacci del Campidoglio. «Twitter, almeno nel 2020, stava implementando una vasta gamma di strumenti visibili e invisibili per frenare l’engagement di Trump, molto prima del 6 gennaio. Il ban arriverà dopo che altre strade saranno esaurite», ha concluso Taibbi. Andrebbe forse inoltre ricordato un altro «piccolo dettaglio»: dopo il blocco dell’account di Trump, hanno continuato a cinguettare comodamente su Twitter figure a dir poco controverse del calibro di Ali Khamenei e Nicolas Maduro. Tutto questo, mentre mercoledì scorso la Casa Bianca si è rifiutata di dire se, a ottobre 2020, il comitato elettorale di Joe Biden avesse o meno suggerito alla piattaforma di San Francisco che dietro lo scoop del New York Post su Hunter Biden ci fosse un hackeraggio: la giustificazione usata per censurare quell’articolo fu infatti che potesse essere il frutto proprio di un hackeraggio (che non era tuttavia mai stato dimostrato). D’altronde, a caldeggiare quella censura fu, tra gli altri, James Baker: ex legale dell’Fbi, recentemente licenziato da Musk e che i repubblicani vogliono interrogare alla Camera all’inizio dell’anno prossimo. Senza infine dimenticare che, secondo il sito Open Secrets, dipendenti e dirigenti di Twitter hanno significativamente finanziato il Partito democratico americano nei cicli elettorali del 2018 e del 2020. Dove sarebbe la trasparenza, di grazia, in tutto questo?