2018-07-18
Trump si siede al tavolo dei talebani e decide pure il futuro delle nostre truppe
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La politica militare di Donald Trump, più ancora della politica estera della quale è diretta espressione e applicazione, segue il principio guida che l'allora candidato Trump rivelò in un celebre colloquio con l'editorial board del Washington Post. Disse allora: «Sarò "unpredictable"», assumendo l'imprevedibilità, il carattere non banale e non convenzionale delle decisioni e delle priorità, come punto di riferimento. Adesso ha deciso di dialogare direttamente con i talebani per uscire dal pantano afgano portato avanti da Barack Obama. Il cambio di passo impatterà sulla presenza dei militari italiani anche in Iraq e nel Mediterraneo.Lo speciale contiene tre articoli.La sua amministrazione, in materia di difesa e sicurezza, è infatti chiamata a risolvere un rebus ai limiti dell'impossibile, tenendo insieme tre esigenze opposte.Primo: porre rimedio al ritiro generalizzato, a un «withdrawal» non solo militare, ma politico e perfino morale, che, negli otto anni dell'amministrazione Obama, ha disastrosamente fatto arretrare gli Usa da tutti i teatri decisivi, creando un «vacuum»immediatamente occupato da altri attori: Iran, Russia, Cina, e per altro verso il terrore islamista. Trump, di tutta evidenza, vuole mostrare che l'America è tornata, e sa difendere il suo interesse nazionale riprendendosi il centro del ring.Secondo: fare i conti con una scarsità di risorse che però non consente un impegno massiccio, simultaneo, convenzionale su troppi versanti contemporaneamente. All'inizio del 2017, cioè all'alba dell'amministrazione Trump, si contavano già cinque fronti aperti: Siria, Iraq, Afghanistan, Somalia, Yemen.Terzo: tenere presente che Trump è stato eletto sulla base di una piattaforma che dice «America First». Il che non vuol direisolazionismo, come hanno erroneamente ritenuto in troppi: significa invece che ogni protagonismo internazionale non deve essere «gratuito», ma concretamente funzionale alla centralità dell'interesse nazionale americano.Si comprende bene che non è facile «settle the conundrum», cioè risolvere l'enigma. Per farlo, o per essere aiutato a farlo, Trump ha scelto come Segretario alla Difesa un uomo su cui l'aneddotica è vastissima: James Mattis, già generale dei Marines, definito «Mad Dog» (letteralmente: cane pazzo). Si racconta che, all'inizio della sua missione in Iraq, incontrando alcuni capi locali, abbia detto loro brutalmente: «Sono venuto in pace. Ma se provate e imbrogliarmi, vi ammazzo tutti». Ma, racconti pulp a parte, Mattis è tutto tranne che pazzo: non solo perché, conoscendo bene la guerra, non è affatto un fanatico. Semmai, sono note le sue passioni per la storia: è persona di cultura profonda e non esibita, non solo un uomo di campo. E soprattutto ha il talento di dire a Trump interamente la propria opinione, anche in modo ruvido, ma a porte chiuse, senza contraddirlo in pubblico, senza cercare la polemica pubblica o l'applauso dei media ostili a The Donald.È noto ad esempio che Mattis è più duro di Trump con la Russia; che tiene alle alleanze tradizionali con i paesi europei; che, diversamente dall'inquilino della Casa Bianca, pur condividendo una posizione durissima verso il regime iraniano, non considera l'Iran un deal totalmente da buttare. Anche nel corso del recente vertice Nato a Bruxelles (non a Helsinki con Putin), Mattis ovviamente c'era, reduce a sua volta da un importante giro in Europa: ma ha tenuto un profilo pubblico bassissimo. Nessuna dichiarazione pubblica, meno che mai per acchiappare titoli.I media nemici di Trump (cioè quasi tutti) dicono che faccia così perché teme il licenziamento (come già successo a Rex Tillerson, l'ex Segretario di Stato cacciato più o meno via Twitter, con cui Mattis condivideva conversazioni a due, e spesso anche a tre nel tentativo di illustrare a Trump scenari e opportunità). Qui, invece, proponiamo una spiegazione diversa: Mattis è un militare, un uomo serio, e uno che crede nel ruolo costituzionale del Presidente Usa. È dovere di un ministro consigliarlo, suggerirgli soluzioni, con relativi costi e benefici. Poi tocca al Presidente decidere: e Mattis non farà nulla per polemizzare in pubblico o per elemosinare la luce delle telecamere.Da questo complesso e delicato equilibrio tra Trump e Mattis - insieme strategico e psicologico, militare e umano - è venuta fuori una «dottrina» forse non ortodossa, forse non lineare, certamente mutevole e pragmatica, ma di sicuro interesse. Un mix di minacce e toni altissimi da una parte, e ricerca di intese su basi nuove dall'altra. Trump usa la doppia minaccia più classica e pesante: per un verso le sanzioni economiche, per altro verso il pugno duro militare (nei casi più gravi, anche evocando il tema nucleare), e poi cerca un reset. Non un reset finto, però: ma un reset effettivo, realizzato avendo tirato la corda fino al massimo punto possibile, per conquistare il miglior accordo dal punto di vista di Washington.Non pretendiamo di coniare qui una definizione, ma, dovessimo provarci, parleremmo di una sorta di «deterrenza 2.0» o di «deterrenza diffusa»: mentre nella tradizionale Guerra Fredda la deterrenza (e quindi il «monito» rappresentato da un immenso arsenale anche nucleare) era giocato unicamente in termini dissuasivi rispetto al grande nemico dell'Urss, Trump sembra ispirarsi a quel metodo ma – per così dire – spezzettandolo e su scala minore, distribuendo la minaccia (ma anche il suo pendant, e cioè una buona offerta di intesa commerciale) nei diversi teatri.Solo il tempo ci dirà se e in che misura questa scommessa potrà funzionare, se Washington manterrà il suo ruolo egemone, e che tipo di compromesso dovrà elaborare in primo luogo con Pechino, e in subordine con Mosca.<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="True" data-href="https://www.laverita.info/trump-siede-al-tavolo-dei-talebani-2587802143.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="gli-usa-aprono-il-dialogo-con-i-talebani" data-post-id="2587802143" data-published-at="1762093328" data-use-pagination="False"> Gli Usa aprono il dialogo con i talebani Giphy Gli Stati Uniti si preparano a una svolta in Afghanistan? Sembrerebbe di sì. Stando a quanto riporta il New York Times, lo Zio Sam sarebbe infatti intenzionato ad avviare dei colloqui diretti con i talebani, venendo così incontro a quanto costoro hanno spesso richiesto in passato. Si tratterebbe di una vera e propria rivoluzione strategica, visto che - sino ad oggi - Washington si è sempre rifiutata di riconoscere ai mullah la dignità di interlocutori diplomatici. È abbastanza chiaro che il fine sia quello di spingere il governo di Kabul a trattare con i talebani, cercando così di arrivare a una stabilizzazione politica in un territorio martoriato, ancora oggi, da sanguinose scie di attentati. Una strategia, almeno apparentemente, non poi così lontana da quella adottata da Richard Nixon e Henry Kissinger negli anni Settanta, quando decisero di risolvere la guerra contro Ho Chi Minh, attraverso una progressiva «vietnamizzazione» del conflitto. Del resto, non è un mistero che il presidente americano, Donald Trump, consideri l'Afghanistan un pantano oneroso e impopolare, da cui si ritirerebbe volentieri nel più breve tempo possibile. È dai tempi della campagna elettorale che il miliardario critica infatti questo conflitto: la netta presa di distanze dalle guerre di Iraq e Afghanistan era d'altronde parte di una ben precisa strategia politica, che aveva l'obiettivo di attaccare frontalmente l'ex presidente George W. Bush il quale - notoriamente - di quei conflitti era stato tra i principali artefici. Addirittura il magnate si era spinto in passato a parlare di un ritiro delle truppe americane dal teatro afghano. Una linea che si è tuttavia ineluttabilmente scontrata con le alte sfere dell'esercito e con i deputati repubblicani più radicali. Tanto che, alcuni mesi fa, il presidente era sembrato tornare sui suoi passi, annunciando un aumento di soldati statunitensi sul territorio. Adesso però pare propendere nuovamente per l'approccio isolazionista. Un approccio non semplicissimo da attuare, vista anche la presenza in loco di pericolosissime cellule legate allo Stato Islamico. Appena ieri, un attentato kamikaze dell'Isis ha fatto venti vittime nel Nord del Paese. Come che sia, il presidente sembra essere deciso a cambiare linea. E non è forse un caso che questa novità abbia luogo quasi in concomitanza dell'incontro avvenuto con il presidente russo, Vladimir Putin, ad Helsinki lunedì scorso. Un incontro che ha evidenziato una volta di più come Trump sia fermamente intenzionato ad abbandonare le logiche della Guerra Fredda, oltre alle politiche bellicose e interventiste di suoi predecessori come lo stesso Bush e Bill Clinton. La svolta afghana potrebbe insomma rappresentare un tassello in seno a una strategia geopolitica più generale, volta ad imprimere alle relazioni internazionali dello Zio Sam un'impronta dal chiaro sapore kissingeriano. E questo, nonostante le fortissime opposizioni interne, che provengono dall'esercito, dall'intelligence e da ampi settori del Congresso (senza dimenticare poi l'industria bellica). Anche perché, da buon fiutatore elettorale, Trump è pienamente consapevole che questa sua nuova linea sia in fondo apprezzata dall'elettore medio: quell'elettore, cioè, che non capisce per quale ragione, dopo diciassette anni, gli Stati Uniti debbano restare coinvolti in un teatro di guerra, colmo di difficoltà ben lungi dal poter essere risolte. Certo: la lotta è rischiosa. E la strada è in salita. Trump lo sa. Anche perché i suoi avversari hanno già ripreso a minacciarlo, agitandogli contro lo spettro del Russiagate. E, guarda caso, proprio ieri il magnate ha fatto una mezza marcia indietro sulle sue critiche verso l'intelligence americana, pronunciate in occasione dell'incontro con Putin. Segno di come questa svolta geopolitica sia molto difficoltosa. E di come Trump sia per necessità costretto a barcamenarsi tra posizioni contraddittorie, per trovare un margine d'azione concreta che gli consenta di destreggiarsi tra i marosi della politica statunitense. Ci riuscirà? L'Afghanistan potrebbe già rivelarsi un importante banco di prova. Stefano Graziosi <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/trump-siede-al-tavolo-dei-talebani-2587802143.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="meno-militari-italiani-a-bagdad-e-kabul-piu-aerei-in-cielo" data-post-id="2587802143" data-published-at="1762093328" data-use-pagination="False"> Meno militari italiani a Bagdad e Kabul, più aerei in cielo Quando il 30 luglio prossimo si apriranno per Giuseppe Conte le porte della Casa Bianca, i dossier prevedibilmente sul tavolo saranno tre: per un verso le reciproche buone opportunità commerciali; per altro verso, la questione europea, con il chiaro tentativo di Trump di sganciare il maggior numero di paesi Ue dall'orbita o comunque dalla dipendenza rispetto alla Germania della Merkel; e infine il tasto dolente delle spese militari.Anche all'Italia sarà chiesto un impegno maggiore impegno verso il fatidico 2% (nell'ultimo vertice Nato, Trump si è provocatoriamente spinto a chiedere il raddoppio fino alla cifra monstre del 4!). È presumibile che chi «brieferà» Conte lo istruirà a rivendicare il forte impegno italiano nelle missioni estere. E in effetti, in base al decreto approvato dallo scorso Parlamento in articulo mortis, il quadro dell'impegno estero delle truppe italiane anche per il 2018 è davvero notevole: conferma di tutte le missioni già esistenti nel 2017, più nuovi impegni africani in funzione del contenimento dell'estremismo jihadista e del traffico di esseri umani. Quest'ultimo fronte prevede un rafforzamento della presenza in Libia, un nuovoimpegno in Tunisia, più la contesta missione in Niger, ritenuta da molti più funzionale agli interessi francesi che a quelli italiani.Come contrappeso rispetto a questo maggiore impegno in Nord Africa, è stata decisa una corrispondente riduzione della presenza in Medio Oriente (Afghanistan e Iraq). Stesso numero complessivo di soldati, risorse leggermente in crescita (circa 80 milioni in più dell'anno precedente), fino a un budget di un miliardo e mezzo di euro. Ma attenzione: le risorse non sono sufficienti e per arrivare a fine anno occorrerà forse un'iniezione di denaro in più.Restano operative le presenze italiane in Libano e Kosovo, nel primo caso sotto egida Onu, nel secondo in ambito Nato. Sempre nel quadro dell'Alleanza Atlantica, l'Italia ha anche deciso di rafforzare il suo contributo di «air policing», cioè la sorveglianza dello spazio aereo Nato.Resta da capire cosa si diranno Trump e Conte non solo sulla mole complessiva di impegno, obiettivamente notevolissima: ma anche sulle priorità nella distribuzione di uomini e mezzi. Resteranno valide le scelte lasciate in eredità da Paolo Gentiloni e da Roberta Pinotti?Daniele Capezzone