True
2024-09-12
Trump zoppica e Harris non brilla. Ma per i media la dem ha trionfato
Donald Trump e Kamala Harris nel faccia a faccia televisivo (Ansa)
La macchina retorica favorevole a Kamala Harris si è rimessa in moto (d’altronde, quando mai si era fermata?). Secondo la maggior parte dei media, la candidata dem avrebbe stravinto il dibattito di martedì con Donald Trump. A conforto di questa narrazione, viene citato l’instant poll della Cnn, secondo cui la vicepresidente si sarebbe aggiudicata il confronto con il favore del 63% degli spettatori contro il misero 37% racimolato dall’avversario. Siamo sicuri che le cose stiano così?
Cominciamo subito col dire che Trump ha deluso le aspettative. Il tycoon è infatti caduto in varie delle trappole che la Harris aveva man mano disseminato con l’unico obiettivo di provocarlo e farlo uscire dai gangheri. Pur evitando di andare in escandescenze, il repubblicano si è più volte mostrato innervosito e, in alcuni segmenti del confronto, è apparso fuori fuoco e meno incisivo di quanto necessario. Alcune uscite poi, come quella sui clandestini che mangerebbero i gatti, avrebbe potuto risparmiarsele, essendo subito diventate carburante per gli attacchi dei dem contro di lui.
Ciò detto, questo non vuol dire che la Harris abbia brillato. Tutt’altro. Se come provocatrice si è rivelata efficace, non è tuttavia riuscita a scrollarsi di dosso l’immagine di candidata preimpostata. Non solo. Quando le sono state fatte domande scomode (specialmente sull’economia), la vicepresidente si è mostrata incredibilmente vaga. Trump si è inoltre rivelato discretamente abile nel legarla a doppio filo all’impopolare Joe Biden: una strategia, quella del tycoon, che ha irritato la Harris. «È importante ricordare all’ex presidente che non stai correndo contro Joe Biden, stai correndo contro di me», ha dichiarato la candidata dem.
Un altro punto a favore di Trump è stato quando il tycoon si è chiesto per quale ragione la Harris, vicepresidente in carica da oltre tre anni, non abbia implementato le misure che propone oggi. «Ha iniziato dicendo che farà questo, farà quello, farà tutte queste cose meravigliose. Perché non l’ha fatto? È lì da tre anni e mezzo», ha tuonato Trump. Tra l’altro, chi aveva assoluta necessità di vincere nettamente martedì era proprio la vicepresidente, per rilanciare una campagna che, nelle ultime due settimane, aveva mostrato segnali di stanchezza. L’ex presidente, di contro, può ancora vantare dei fondamentali più solidi rispetto all’avversaria.
Insomma, a conti fatti non si può proprio parlare di una vittoria della Harris. Tutto questo, con buona pace dell’instant poll della Cnn: d’altronde, a seguito del primo dibattito di Trump con Hillary Clinton nel settembre 2016, la stessa emittente riferì che l’ex first lady aveva vinto con il 62%. Eppure ricordiamo tutti come andarono a finire le elezioni di quell’anno. Inoltre, Reuters ha intervistato ieri dieci elettori indecisi prima del confronto: dopo averlo visto, sei si sono detti propensi a votare Trump, tre la Harris e uno non ha ancora le idee chiare.
Un altro elemento da considerare è il doppiopesismo del factchecking attuato dai due moderatori di Abc che, molto severi nei confronti di Trump, non lo sono stati altrettanto con la sua avversaria. I due giornalisti hanno contestato all’ex presidente le sue affermazioni sugli immigrati che mangerebbero i gatti e sull’aumento del tasso di criminalità negli ultimi anni. Eppure, quando è stata la Harris a proferire fake news, non le hanno detto nulla. La vicepresidente ha infatti accusato Trump di aver sostenuto che, in caso di mancata vittoria a novembre, negli Usa si verificherebbe un «bagno di sangue». In realtà, con quella dichiarazione (risalente al marzo scorso), Trump, durante un comizio, si stava riferendo all’economia americana e, in particolare, al settore automobilistico. Non stava invocando stragi o violenza. I due moderatori, però, non sono intervenuti a correggere la Harris. È anche per questo che il tycoon è andato su tutte le furie: ha parlato di dibattito «truccato» e non ha chiarito se accetterà un secondo confronto, come chiesto dalla rivale.
È poi emerso un caso sull’aborto. Differentemente dagli scorsi mesi, l’ex presidente, martedì, ha evitato di impegnarsi esplicitamente nel porre il veto a un eventuale divieto federale dell’interruzione di gravidanza. Dall’altra parte, anche la Harris si è mostrata ambigua sull’aborto tardivo, vale a dire quello con travaglio indotto in fase avanzata di gestazione: pratica impopolare tra i cittadini americani, che, secondo Trump, i dem e la stessa Harris punterebbero a promuovere. «Fanno l’aborto al nono mese», ha dichiarato. Va detto che la vicepresidente non ha esplicitamente sostenuto questa pratica. Tuttavia non l’ha neppure chiaramente esclusa.
Il National Catholic Register ha riportato che, l’anno scorso, il vice della Harris, il governatore del Minnesota Tim Walz, ha firmato una legge statale che impone «di prendersi cura del neonato nato vivo» anziché di «preservare la vita e la salute del neonato nato vivo» (come era invece previsto da una precedente norma del 1976). Axios ha anche riferito che la legge del Minnesota «non prevede alcun limite gestazionale per l’aborto, il che significa che la procedura può essere eseguita in qualsiasi momento della gravidanza». In secondo luogo, quando il moderatore, martedì, ha chiesto alla Harris «se sostenga delle restrizioni al diritto di una donna all’aborto», la vicepresidente ha glissato. Lo stesso Politico ha sottolineato che la candidata dem «non ha detto quali restrizioni» applicherebbe all’interruzione di gravidanza. Insomma, pur non sostenendo esplicitamente l’aborto tardivo, l’ambiguità della Harris non pare neppure escluderlo. D’altronde, a luglio, sempre Politico riportò che una parte del mondo pro-choice vorrebbe che la vicepresidente osasse di più e non si limitasse a invocare il ritorno a Roe v. Wade (che consentiva l’interruzione di gravidanza entro le prime 22 settimane di gestazione).
La «gattara» Swift: «Voterò Kamala»
Alla fine è arrivato. Pochi minuti dopo la conclusione del dibattito televisivo tra Donald Trump e Kamala Harris, Taylor Swift ha dato il proprio endorsement alla candidata dem. «Voterò per Kamala Harris perché combatte per i diritti e le cause che credo abbiano bisogno di un guerriero che le sostenga», ha scritto la cantante sul suo profilo Instagram, che conta circa 283 milioni di follower, firmandosi «gattara senza figli» (un riferimento polemico al running mate di Trump, JD Vance, che, nel 2021, aveva definito in questo modo le donne ai vertici del Partito democratico americano). «Non ero un fan di Taylor Swift» ha replicato il candidato repubblicano, per poi aggiungere: «Sembra sempre sostenere un democratico, e probabilmente ne pagherà il prezzo sul mercato».
A ottobre 2020, la cantante aveva dato il proprio endorsement alla candidatura di Joe Biden. Tutto questo, mentre negli scorsi mesi si rincorrevano voci sul fatto che stesse per fare altrettanto quest’anno con il candidato presidenziale dem. Alla fine l’endorsement è arrivato. Ma c’è da chiedersi: che cosa comporterà? Molti già sostengono che, grazie ai suoi numerosi fan, la Swift sposterà montagne di voti a favore della Harris: tanto più che la star è originaria di uno Stato cruciale come la Pennsylvania. Tuttavia attenzione ai facili automatismi. Secondo un sondaggio commissionato a maggio da Newsweek, il 18% degli americani disse di essere disposto a seguire l’endorsement della stella del pop, mentre il 15% dei rispondenti sostenne che avrebbe votato in senso contrario. Il 55% degli intervistati, infine, riferì di non tenere in considerazione l’opinione politica della Swift.
Va poi tenuto conto del fatto che, nella politica americana, l’appoggio dello star system può essere utile in termini di raccolta fondi e di copertura mediatica (non a caso l’endorsement è arrivato subito dopo il dibattito presidenziale). Tuttavia, le celebrities di voti ne spostano pochi. Nel 2016, Hillary Clinton ebbe il sostegno di numerosi attori e cantanti: a partire dall’influente Beyoncé, che si impegnò in prima persona per lei. Questo non garantì comunque la vittoria all’ex first lady. Era invece il 1964 quando John Wayne, all’epoca un mito vivente di Hollywood, fece campagna a favore dell’allora candidato presidenziale repubblicano Barry Goldwater: quest’ultimo tuttavia alla fine perse malamente contro il democratico Lyndon Johnson. D’altronde, può rivelarsi un errore confondere la psicologia di un fan o di un follower con quella di un elettore.
Ma Taylor Swift non è l’unica a essersi interessata al dibattito di martedì. Il Cremlino ha infatti espresso disappunto per il fatto che, durante il confronto, Vladimir Putin è stato citato più volte. «Il nome di Putin è usato, diciamo, come uno degli strumenti della lotta politica dentro gli Usa. Questo non ci piace affatto», ha detto il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov. Il nome dello zar è emerso soprattutto quando Trump e la Harris hanno battagliato sulle cause e sulle possibili soluzioni del conflitto russo-ucraino. La candidata dem ha accusato l’avversario di essere morbido con Mosca. Trump, dal canto suo, ha ricordato che fu l’amministrazione Biden-Harris a dare l’ok al gasdotto Nord Stream 2 e ha inoltre promesso che, se tornerà alla Casa Bianca, parlerà sia con Putin che con Volodymyr Zelensky per tentare di porre fine alla guerra in corso. Qualche giorno fa, lo zar aveva dato sarcasticamente il proprio endorsement alla vicepresidente.
Continua a leggere
Riduci
Il tycoon cade nei tranelli della sfidante al dibattito e fa uscite discutibili. La progressista, però, glissa sui temi scomodi. Come l’aborto tardivo, introdotto dal suo vice in Minnesota, sul quale non ha mai espresso contrarietà.Endorsement della popstar Taylor Swift alla candidata dem con frecciatina a J. D. Vance per la vecchia frase sulle donne senza figli. Il Cremlino irritato dallo scontro in tv: «Lasciate in pace Vladimir Putin».Lo speciale contiene due articoliLa macchina retorica favorevole a Kamala Harris si è rimessa in moto (d’altronde, quando mai si era fermata?). Secondo la maggior parte dei media, la candidata dem avrebbe stravinto il dibattito di martedì con Donald Trump. A conforto di questa narrazione, viene citato l’instant poll della Cnn, secondo cui la vicepresidente si sarebbe aggiudicata il confronto con il favore del 63% degli spettatori contro il misero 37% racimolato dall’avversario. Siamo sicuri che le cose stiano così?Cominciamo subito col dire che Trump ha deluso le aspettative. Il tycoon è infatti caduto in varie delle trappole che la Harris aveva man mano disseminato con l’unico obiettivo di provocarlo e farlo uscire dai gangheri. Pur evitando di andare in escandescenze, il repubblicano si è più volte mostrato innervosito e, in alcuni segmenti del confronto, è apparso fuori fuoco e meno incisivo di quanto necessario. Alcune uscite poi, come quella sui clandestini che mangerebbero i gatti, avrebbe potuto risparmiarsele, essendo subito diventate carburante per gli attacchi dei dem contro di lui.Ciò detto, questo non vuol dire che la Harris abbia brillato. Tutt’altro. Se come provocatrice si è rivelata efficace, non è tuttavia riuscita a scrollarsi di dosso l’immagine di candidata preimpostata. Non solo. Quando le sono state fatte domande scomode (specialmente sull’economia), la vicepresidente si è mostrata incredibilmente vaga. Trump si è inoltre rivelato discretamente abile nel legarla a doppio filo all’impopolare Joe Biden: una strategia, quella del tycoon, che ha irritato la Harris. «È importante ricordare all’ex presidente che non stai correndo contro Joe Biden, stai correndo contro di me», ha dichiarato la candidata dem.Un altro punto a favore di Trump è stato quando il tycoon si è chiesto per quale ragione la Harris, vicepresidente in carica da oltre tre anni, non abbia implementato le misure che propone oggi. «Ha iniziato dicendo che farà questo, farà quello, farà tutte queste cose meravigliose. Perché non l’ha fatto? È lì da tre anni e mezzo», ha tuonato Trump. Tra l’altro, chi aveva assoluta necessità di vincere nettamente martedì era proprio la vicepresidente, per rilanciare una campagna che, nelle ultime due settimane, aveva mostrato segnali di stanchezza. L’ex presidente, di contro, può ancora vantare dei fondamentali più solidi rispetto all’avversaria.Insomma, a conti fatti non si può proprio parlare di una vittoria della Harris. Tutto questo, con buona pace dell’instant poll della Cnn: d’altronde, a seguito del primo dibattito di Trump con Hillary Clinton nel settembre 2016, la stessa emittente riferì che l’ex first lady aveva vinto con il 62%. Eppure ricordiamo tutti come andarono a finire le elezioni di quell’anno. Inoltre, Reuters ha intervistato ieri dieci elettori indecisi prima del confronto: dopo averlo visto, sei si sono detti propensi a votare Trump, tre la Harris e uno non ha ancora le idee chiare.Un altro elemento da considerare è il doppiopesismo del factchecking attuato dai due moderatori di Abc che, molto severi nei confronti di Trump, non lo sono stati altrettanto con la sua avversaria. I due giornalisti hanno contestato all’ex presidente le sue affermazioni sugli immigrati che mangerebbero i gatti e sull’aumento del tasso di criminalità negli ultimi anni. Eppure, quando è stata la Harris a proferire fake news, non le hanno detto nulla. La vicepresidente ha infatti accusato Trump di aver sostenuto che, in caso di mancata vittoria a novembre, negli Usa si verificherebbe un «bagno di sangue». In realtà, con quella dichiarazione (risalente al marzo scorso), Trump, durante un comizio, si stava riferendo all’economia americana e, in particolare, al settore automobilistico. Non stava invocando stragi o violenza. I due moderatori, però, non sono intervenuti a correggere la Harris. È anche per questo che il tycoon è andato su tutte le furie: ha parlato di dibattito «truccato» e non ha chiarito se accetterà un secondo confronto, come chiesto dalla rivale.È poi emerso un caso sull’aborto. Differentemente dagli scorsi mesi, l’ex presidente, martedì, ha evitato di impegnarsi esplicitamente nel porre il veto a un eventuale divieto federale dell’interruzione di gravidanza. Dall’altra parte, anche la Harris si è mostrata ambigua sull’aborto tardivo, vale a dire quello con travaglio indotto in fase avanzata di gestazione: pratica impopolare tra i cittadini americani, che, secondo Trump, i dem e la stessa Harris punterebbero a promuovere. «Fanno l’aborto al nono mese», ha dichiarato. Va detto che la vicepresidente non ha esplicitamente sostenuto questa pratica. Tuttavia non l’ha neppure chiaramente esclusa. Il National Catholic Register ha riportato che, l’anno scorso, il vice della Harris, il governatore del Minnesota Tim Walz, ha firmato una legge statale che impone «di prendersi cura del neonato nato vivo» anziché di «preservare la vita e la salute del neonato nato vivo» (come era invece previsto da una precedente norma del 1976). Axios ha anche riferito che la legge del Minnesota «non prevede alcun limite gestazionale per l’aborto, il che significa che la procedura può essere eseguita in qualsiasi momento della gravidanza». In secondo luogo, quando il moderatore, martedì, ha chiesto alla Harris «se sostenga delle restrizioni al diritto di una donna all’aborto», la vicepresidente ha glissato. Lo stesso Politico ha sottolineato che la candidata dem «non ha detto quali restrizioni» applicherebbe all’interruzione di gravidanza. Insomma, pur non sostenendo esplicitamente l’aborto tardivo, l’ambiguità della Harris non pare neppure escluderlo. D’altronde, a luglio, sempre Politico riportò che una parte del mondo pro-choice vorrebbe che la vicepresidente osasse di più e non si limitasse a invocare il ritorno a Roe v. Wade (che consentiva l’interruzione di gravidanza entro le prime 22 settimane di gestazione).<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/trump-harris-taylor-swift-elezioni-2669172754.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-gattara-swift-votero-kamala" data-post-id="2669172754" data-published-at="1726136564" data-use-pagination="False"> La «gattara» Swift: «Voterò Kamala» Alla fine è arrivato. Pochi minuti dopo la conclusione del dibattito televisivo tra Donald Trump e Kamala Harris, Taylor Swift ha dato il proprio endorsement alla candidata dem. «Voterò per Kamala Harris perché combatte per i diritti e le cause che credo abbiano bisogno di un guerriero che le sostenga», ha scritto la cantante sul suo profilo Instagram, che conta circa 283 milioni di follower, firmandosi «gattara senza figli» (un riferimento polemico al running mate di Trump, JD Vance, che, nel 2021, aveva definito in questo modo le donne ai vertici del Partito democratico americano). «Non ero un fan di Taylor Swift» ha replicato il candidato repubblicano, per poi aggiungere: «Sembra sempre sostenere un democratico, e probabilmente ne pagherà il prezzo sul mercato». A ottobre 2020, la cantante aveva dato il proprio endorsement alla candidatura di Joe Biden. Tutto questo, mentre negli scorsi mesi si rincorrevano voci sul fatto che stesse per fare altrettanto quest’anno con il candidato presidenziale dem. Alla fine l’endorsement è arrivato. Ma c’è da chiedersi: che cosa comporterà? Molti già sostengono che, grazie ai suoi numerosi fan, la Swift sposterà montagne di voti a favore della Harris: tanto più che la star è originaria di uno Stato cruciale come la Pennsylvania. Tuttavia attenzione ai facili automatismi. Secondo un sondaggio commissionato a maggio da Newsweek, il 18% degli americani disse di essere disposto a seguire l’endorsement della stella del pop, mentre il 15% dei rispondenti sostenne che avrebbe votato in senso contrario. Il 55% degli intervistati, infine, riferì di non tenere in considerazione l’opinione politica della Swift. Va poi tenuto conto del fatto che, nella politica americana, l’appoggio dello star system può essere utile in termini di raccolta fondi e di copertura mediatica (non a caso l’endorsement è arrivato subito dopo il dibattito presidenziale). Tuttavia, le celebrities di voti ne spostano pochi. Nel 2016, Hillary Clinton ebbe il sostegno di numerosi attori e cantanti: a partire dall’influente Beyoncé, che si impegnò in prima persona per lei. Questo non garantì comunque la vittoria all’ex first lady. Era invece il 1964 quando John Wayne, all’epoca un mito vivente di Hollywood, fece campagna a favore dell’allora candidato presidenziale repubblicano Barry Goldwater: quest’ultimo tuttavia alla fine perse malamente contro il democratico Lyndon Johnson. D’altronde, può rivelarsi un errore confondere la psicologia di un fan o di un follower con quella di un elettore. Ma Taylor Swift non è l’unica a essersi interessata al dibattito di martedì. Il Cremlino ha infatti espresso disappunto per il fatto che, durante il confronto, Vladimir Putin è stato citato più volte. «Il nome di Putin è usato, diciamo, come uno degli strumenti della lotta politica dentro gli Usa. Questo non ci piace affatto», ha detto il portavoce del Cremlino, Dmitry Peskov. Il nome dello zar è emerso soprattutto quando Trump e la Harris hanno battagliato sulle cause e sulle possibili soluzioni del conflitto russo-ucraino. La candidata dem ha accusato l’avversario di essere morbido con Mosca. Trump, dal canto suo, ha ricordato che fu l’amministrazione Biden-Harris a dare l’ok al gasdotto Nord Stream 2 e ha inoltre promesso che, se tornerà alla Casa Bianca, parlerà sia con Putin che con Volodymyr Zelensky per tentare di porre fine alla guerra in corso. Qualche giorno fa, lo zar aveva dato sarcasticamente il proprio endorsement alla vicepresidente.
Carlo Messina all'inaugurazione dell'Anno Accademico della Luiss (Ansa)
La domanda è retorica, provocatoria e risuona in aula magna come un monito ad alzare lo sguardo, a non limitarsi a contare i droni e limare i mirini, perché la risposta è un’altra. «In Europa abbiamo più poveri e disuguaglianza di quelli che sono i rischi potenziali che derivano da una minaccia reale, e non percepita o teorica, di una guerra». Un discorso ecumenico, realistico, che evoca l’immagine dell’esercito più dolente e sfinito, quello di chi lotta per uscire dalla povertà. «Perché è vero che riguardo a welfare e democrazia non c’è al mondo luogo comparabile all’Europa, ma siamo deboli se investiamo sulla difesa e non contro la povertà e le disuguaglianze».
Le parole non scivolano via ma si fermano a suggerire riflessioni. Perché è importante che un finanziere - anzi colui che per il 2024 è stato premiato come banchiere europeo dell’anno - abbia un approccio sociale più solido e lungimirante delle istituzioni sovranazionali deputate. E lo dimostri proprio nelle settimane in cui sentiamo avvicinarsi i tamburi di Bruxelles con uscite guerrafondaie come «resisteremo più di Putin», «per la guerra non abbiamo fatto abbastanza» (Kaja Kallas, Alto rappresentante per la politica estera) o «se vogliamo evitare la guerra dobbiamo preparaci alla guerra», «dobbiamo produrre più armi, come abbiamo fatto con i vaccini» (Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea).
Una divergenza formidabile. La conferma plastica che l’Europa dei diritti, nella quale ogni minoranza possibile viene tutelata, si sta dimenticando di salvaguardare quelli dei cittadini comuni che alzandosi al mattino non hanno come priorità la misura dell’elmetto rispetto alla circonferenza cranica, ma il lavoro, la famiglia, il destino dei figli e la difesa dei valori primari. Il ceo di Banca Intesa ricorda che il suo gruppo ha destinato 1,5 miliardi per combattere la povertà, sottolinea che la grande forza del nostro Paese sta «nel formidabile mondo delle imprese e nel risparmio delle famiglie, senza eguali in Europa». E sprona le altre grandi aziende: «In Italia non possiamo aspettarci che faccia tutto il governo, se ci sono aziende che fanno utili potrebbero destinarne una parte per intervenire sulle disuguaglianze. Ogni azienda dovrebbe anche lavorare perché i salari vengano aumentati. Sono uno dei punti di debolezza del nostro Paese e aumentarli è una priorità strategica».
Con l’Europa Carlo Messina non ha finito. Parlando di imprenditoria e di catene di comando, coglie l’occasione per toccare in altro nervo scoperto, perfino più strutturale dell’innamoramento bellicista. «Se un’azienda fosse condotta con meccanismi di governance come quelli dell’Unione Europea fallirebbe». Un autentico missile Tomahawk diretto alla burocrazia continentale, a quei «nani di Zurigo» (copyright Woodrow Wilson) trasferitisi a Bruxelles. La spiegazione è evidente. «Per competere in un contesto globale serve un cambio di passo. Quella europea è una governance che non si vede in nessun Paese del mondo e in nessuna azienda. Perché è incapace di prendere decisioni rapide e quando le prende c’è lentezza nella realizzazione. Oppure non incidono realmente sulle cose che servono all’Europa».
Il banchiere è favorevole a un ministero dell’Economia unico e ritiene che il vincolo dell’unanimità debba essere tolto. «Abbiamo creato una banca centrale che gestisce la moneta di Paesi che devono decidere all’unanimità. Questo è uno degli aspetti drammatici». Ma per uno Stato sovrano che aderisce al club dei 27 è anche l’unica garanzia di non dover sottostare all’arroganza (già ampiamente sperimentata) di Francia e Germania, che trarrebbero vantaggi ancora più consistenti senza quel freno procedurale.
Il richiamo a efficienza e rapidità riguarda anche l’inadeguatezza del burosauro e riecheggia la famosa battuta di Franz Joseph Strauss: «I 10 comandamenti contengono 279 parole, la dichiarazione americana d’indipendenza 300, la disposizione Ue sull’importazione di caramelle esattamente 25.911». Un esempio di questa settimana. A causa della superfetazione di tavoli e di passaggi, l’accordo del Consiglio Affari interni Ue sui rimpatri dei migranti irregolari e sulla liceità degli hub in Paesi terzi (recepito anche dal Consiglio d’Europa) entrerà in vigore non fra 60 giorni o 6 mesi, ma se va bene fra un anno e mezzo. Campa cavallo.
Continua a leggere
Riduci
Luca Casarini. Nel riquadro, il manifesto abusivo comparso a Milano (Ansa)
Quando non è tra le onde, Casarini è nel mare di Internet, dove twitta. E pure parecchio. Dice la sua su qualsiasi cosa. Condivide i post dell’Osservatore romano e quelli di Ilaria Salis (del resto, tra i due, è difficile trovare delle differenze, a volte). Ma, soprattutto, attacca le norme del governo e dell’Unione europea in materia di immigrazione. Si sente Davide contro Golia. E lotta, invitando anche ad andare contro la legge. Quando, qualche giorno fa, è stata fermata la nave Humanity 1 (poi rimessa subito in mare dal tribunale di Agrigento) Casarini ha scritto: «Abbatteremo i vostri muri, taglieremo i fili spinati dei vostri campi di concentramento. Faremo fuggire gli innocenti che tenete prigionieri. È già successo nella Storia, succederà ancora. In mare come in terra. La disumanità non vincerà. Fatevene una ragione». Questa volta si sentiva Oskar Schindler, anche se poi va nei cortei pro Pal che inneggiano alla distruzione dello Stato di Israele.
Chi volesse approfondire il suo pensiero, poi, potrebbe andare a leggersi L’Unità del 10 dicembre scorso, il cui titolo è già un programma: Per salvare i migranti dobbiamo forzare le leggi. Nel testo, che risparmiamo al lettore, spiega come l’Ue si sia piegata a Giorgia Meloni e a Donald Trump in materia di immigrazione. I sovranisti (da quanto tempo non sentivamo più questo termine) stanno vincendo. Bisogna fare qualcosa. Bisogna reagire. Ribellarsi. Anche alle leggi. Il nostro, sempre attento ad essere politicamente corretto, se la prende pure con gli albanesi che vivono in un Paese «a metà tra un narcostato e un hub di riciclaggio delle mafie di mezzo mondo, retto da un “dandy” come Rama, più simile al Dandy della banda della Magliana che a quel G.B. Brummel che diede origine al termine». Casarini parla poi di «squadracce» che fanno sparire i migranti e di presunte «soluzioni finali» per questi ultimi. E auspica un modello alternativo, che crei «reti di protezione di migranti e rifugiati, per sottrarli alle future retate che peraltro avverranno in primis nei luoghi di “non accoglienza”, così scientificamente creati nelle nostre città da un programma di smantellamento dei servizi sociali, educativi e sanitari, che mostra oggi i suoi risultati nelle sacche di marginalità in aumento».
Detto, fatto. Qualcuno, in piazzale Cuoco a Milano, ha infatti pensato bene di affiggere dei manifesti anonimi con le indicazioni, per i migranti irregolari, su cosa fare per evitare di finire nei centri di permanenza per i rimpatri, i cosiddetti di Cpr. Nessuna sigla. Nessun contatto. Solo diverse lingue per diffondere il vademecum: l’italiano, certo, ma anche l’arabo e il bengalese in modo che chiunque passi di lì posa capire il messaggio e sfuggire alla legge. Ti bloccano per strada? Non far vedere il passaporto. Devi andare in questura? Presentati con un avvocato. Ti danno un documento di espulsione? Ci sono avvocati gratis (che in realtà pagano gli italiani con le loro tasse). E poi informazioni nel caso in cui qualcuno dovesse finire in un cpr: avrai un telefono, a volte senza videocamera. E ancora: «Se non hai il passaporto del tuo Paese prima di deportarti l’ambasciata ti deve riconoscere. Quindi se non capisci la lingua in cui ti parla non ti deportano. Se ti deportano la polizia italiana ti deve lasciare un foglio che spiega perché ti hanno deportato e quanto tempo deve passare prima di poter ritornare in Europa. È importante informarci e organizzarci insieme per resistere!».
Per Sara Kelany (Fdi), «dire che i Cpr sono “campi di deportazione” e “prigioni per persone senza documenti” è una mistificazione che non serve a tutelare i diritti ma a sostenere e incentivare l’immigrazione irregolare con tutti i rischi che ne conseguono. Nei Cpr vengono trattenuti migranti irregolari socialmente pericolosi, che hanno all’attivo condanne per reati anche molto gravi. Potrà dispiacere a qualche esponente della sinistra o a qualche attivista delle Ong - ogni riferimento a Casarini non è casuale - ma in Italia si rispettano le nostre leggi e non consentiamo a nessuno di aggirarle». Per Francesco Rocca (Fdi), si tratta di «un’affissione abusiva dallo sgradevole odore eversivo».
Casarini, da convertito, diffonde il verbo. Che non è quello che si è incarnato, ma quello che tutela l’immigrato.
Continua a leggere
Riduci