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Pubblichiamo il dialogo di Carlo Pelanda con Consultique Scf, la tv dei consulenti finanziari indipendenti.
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La sonora sconfitta di Kamala Harris ha gettato il Partito democratico americano nel caos. Secondo l’Associated Press, vari alti esponenti dell’Asinello, oltre ad alcuni membri della campagna della stessa Harris, hanno incolpato Joe Biden della débâcle verificatasi alle elezioni. In sostanza, la loro tesi è che il presidente si sarebbe ritirato troppo tardi dalla sfida contro Donald Trump, lasciando così al partito poco tempo per organizzarsi adeguatamente.
Ma non c’è soltanto lo scaricabarile su Biden. Qualcuno ha fatto un po’ più onestamente autocritica. Uno storico esponente della sinistra americana come Bernie Sanders ha accusato l’Asinello di aver «abbandonato» la classe operaia. «Dobbiamo smetterla di assecondare la base e dobbiamo iniziare ad ascoltare la gente, stufa dell’estremismo», ha rincarato la dose il deputato dem centrista, Tom Suozzi. D’altronde, già qualche giorno prima del voto, The Hill aveva riferito di scontri interni dovuti alle difficoltà in cui era incorsa la campagna.
Attenzione: quanto sta succedendo nel Partito democratico non è dovuto soltanto alla sconfitta della vicepresidente. Sarebbe forse più corretto dire che quella sconfitta ha fatto detonare tensioni e contraddizioni che covano da anni. E qui veniamo al punto. Le debolezze dei dem vengono da lontano. E, in particolare, da un establishment arroccato che, nonostante sia anacronistico e del tutto inadeguato, ha continuato a tenere per anni l’intero partito sotto il suo tallone: stiamo parlando dei Clinton, di Nancy Pelosi e degli Obama. Un gruppo di potere che, anziché lasciare una dialettica interna libera e fisiologica, l’ha sempre soffocata, imponendo di fatto delle scelte dall’alto.
Nel 2020, per intenderci, Biden era partito malissimo alle primarie. Poi, come rivelato da Nbc News, Obama lavorò dietro le quinte per convincere i suoi rivali a ritirarsi e a sostenerlo: l’obiettivo era quello di fermare Sanders e di avere eventualmente un presidente di «transizione» che, oltre a garantire la lottizzazione delle poltrone in una nuova amministrazione dem tra le varie correnti del partito, si ritirasse al «momento giusto» per essere sostituito da qualcuno di più competitivo. Le cose poi sono andate diversamente, visto che, spinto dai familiari, Biden ha resistito, fino al brutale siluramento di luglio.
A quel punto, Obama avrebbe probabilmente voluto puntare sul governatore della California, Gavin Newsom, che era stato, guarda caso, più volte elogiato, negli ultimi due anni, dall’ex senior advisor dello stesso Obama, David Axelrod. Tuttavia Newsom non ne ha voluto sapere di giocarsi la carriera, candidandosi a soli tre mesi dal voto. Anche gli altri «astri nascenti», il governatore della Pennsylvania, Josh Shapiro, e quella del Michigan, Gretchen Whitmer, si sono tirati indietro per lo stesso motivo. Ecco perché alla fine l’establishment ha optato per la Harris: trattata alla stregua di un agnello sacrificale, non senza sgambetti dall’interno.
Ma alla fine la colpa principale dell’attuale crisi dell’Asinello è proprio di Obama. Lui che, nel 2008, vinse contro le alte sfere dem che volevano silurarlo, si è alla fine lasciato assorbire da quell’establishment a cui aveva originariamente dichiarato guerra, appoggiando Hillary Clinton nel 2016, Biden nel 2020 e, per quanto obtorto collo, la Harris nel 2024. Un Obama che, all’inizio vicino alla working class della Rust Belt, si è sempre più spostato verso il progressismo liberal della West Coast, perdendosi per strada il sostegno dei colletti blu di Michigan, Wisconsin e Pennsylvania. Non a caso, negli ultimi otto anni, l’ala «operaia» dei dem è spesso stata sacrificata e mortificata da quella «californiana» con i risultati deleteri che abbiamo visto alle presidenziali di martedì.
L’Asinello si trova adesso davanti a una traversata nel deserto che potrebbe usare per cercare finalmente di archiviare quello stesso establishment che lo ha portato alla rovina. Il punto è che non sarà facile. La Pelosi è appena stata rieletta alla Camera, mentre la presa di Obama e dei Clinton sul partito continua a essere profonda. Bisognerà vedere come si comporteranno gli «astri nascenti»: Newsom, Shapiro e la Whitmer. Avvieranno un dibattito franco e aperto in grado di favorire un rinnovamento della classe dirigente dem? Oppure si accontenteranno di rivelarsi pedine dell’establishment?
Resta tuttavia certo che Obama è uscito indebolito dalla sconfitta della Harris. Perché, nonostante non la volesse come candidata, alla fine l’ha comunque appoggiata. Sarà quindi più difficile per lui adesso tirare la volata a qualche suo beniamino nel 2028: sia che si tratti della moglie Michelle, sia che si tratti di Newsom. Si apre ora una crepa nel potere ufficioso dell’ex presidente in seno al partito. Riuscirà a mantenersi in sella? Oppure rimarrà travolto dalla resa dei conti interna appena iniziata?
Era curiosamente di buon umore Joe Biden ieri, mentre teneva il suo primo discorso alla nazione dalla vittoria di Donald Trump. Acclamato da un piccolo pubblico davanti a sé, il presidente ha mostrato un sorriso smagliante sia prima di iniziare a parlare sia al termine dell’intervento. «Ho detto molte volte che non puoi amare il tuo Paese solo quando vinci, non puoi amare il tuo vicino solo quando sei d’accordo», ha detto. «Spero anche che possiamo mettere a tacere la questione sull’integrità del sistema elettorale americano. È onesto, è giusto, è trasparente e ci si può fidare, che si vinca o si perda», ha aggiunto in un’implicita stoccata a Trump per le sue accuse di brogli nel 2020. «Farò il mio dovere di presidente. Manterrò fede al mio giuramento e onorerò la costituzione. Il 20 gennaio, avremo un pacifico trasferimento di potere qui in America», ha continuato.
«Insieme, abbiamo cambiato l’America in meglio. Ora, abbiamo 74 giorni per finire il mandato, il nostro mandato. Facciamo in modo che ogni giorno conti», ha anche detto. «Gli insuccessi sono inevitabili, ma arrendersi è imperdonabile. Tutti veniamo buttati giù, ma la misura del nostro carattere, come direbbe mio padre, è la rapidità con cui ci rialziamo. Ricordate: una sconfitta non significa che siamo sconfitti». Biden ha quindi rivendicato quelli che considera i successi della sua presidenza. «So che è un momento difficile. State soffrendo. Vi sento e vi vedo, ma non dimenticate, non dimenticate tutto quello che abbiamo realizzato. È stata una presidenza storica», ha affermato.
Come detto, dal punto di vista dell’umore, Biden non sembrava particolarmente affranto. Si respirava un clima piuttosto diverso da quello del discorso con cui Kamala Harris, mercoledì, ha riconosciuto la sconfitta. In quell’occasione, molti tra il pubblico piangevano. E in lacrime sono apparsi anche il vice della candidata dem, Tim Walz, oltre a suo marito, Doug Emhoff. La stessa Harris, pur cercando di stemperare il clima di tristezza, è apparsa con il volto tirato durante alcune parti del suo intervento. Sempre mercoledì, la deputata dem, Alexandria Ocasio-Cortez, ha postato un video sui social in cui, serissima, ha accusato de facto Trump di autoritarismo. Ma non è tutto. L’allegria di Biden stride anche con il fatto che, secondo l’Associated Press, molti esponenti dem lo stanno accusando, più o meno dietro le quinte, di essere il responsabile della débâcle elettorale di martedì.
Del resto, non è un mistero che Biden avesse il dente avvelenato per come è stato silurato a luglio dall’establishment del suo stesso partito. Non a caso, c’è il fondato sospetto che alcune delle sue gaffe più recenti le abbia fatte apposta per boicottare la Harris. A settembre, si fece fotografare, tutto sorridente, con il cappellino di Trump, mentre, a pochi giorni dalle elezioni, se n’è uscito definendo «spazzatura» i sostenitori del tycoon. Insomma, a pensar male, si potrebbe quasi credere che Biden, tutto sommato, ieri fosse piuttosto contento. Ovviamente è solo un’ipotesi. Ma ricordiamoci sempre che, quando tenne il suo primo discorso dopo aver annunciato il ritiro della candidatura, volle precisare che avrebbe comunque meritato di svolgere un secondo mandato presidenziale. In agosto, parlando con la Cbs, ammise inoltre di aver subito pressioni dai dem per fare un passo indietro dalla corsa elettorale. D’altronde, diciamocelo: Biden probabilmente avrebbe perso. Ma, forse, in modo meno disastroso della Harris, essendo lui storicamente più competitivo nella Rust Belt.
Nel frattempo, secondo Politico, i consiglieri di Trump per la transizione presidenziale starebbero già valutando dei nomi per le nomine nella sua nuova amministrazione. Si parla del senatore Marco Rubio e di Robert Kennedy jr. Ron DeSantis starebbe inoltre chiedendo che venga preso in considerazione l’attuale responsabile della Sanità della Florida, Joseph Ladapo. Per il momento sembra esserci un clima di collaborazione con l’amministrazione Biden, anche se non si può escludere che il presidente uscente possa fare qualche scherzetto per mettere in difficoltà il successore. Nelle fasi di transizione presidenziale i «dispetti» talvolta capitano.
Le donne non hanno obbedito, maledette siano le donne. E dire che ci si era messa persino Julia Roberts a invitare le signore bianche a «tradire i mariti»: se loro votano Trump, voi scegliete Harris. Non ha funzionato: circa il 52% dell’elettorato femminile bianco ha preferito Donald. A mobilitare le ragazzine ci doveva pensare un pezzo da novanta, Taylor Swift: i democratici si aspettavano che si accodassero dietro la cantante come i topi col pifferaio magico, pronte a scegliere Kamala per garantirsi i «diritti riproduttivi». Di nuovo, è andata male. Persino tra le nere Trump ha preso più voti rispetto al passato.
Probabile che le donne, queste incoscienti, non abbiano letto a fondo quanto aveva scritto la giornalista premio Pulitzer Nikole Hannah-Jones sul New York Times, e cioè che le donne bianche avrebbero dovuto allearsi con le nere: «Se davvero Harris diventasse la prima donna a rompere la linea ininterrotta di 235 anni di uomini che salgono alla carica più alta del paese, potrebbe essere perché le donne bianche fanno qualcosa per cui hanno lottato a lungo: allineare i loro interessi con quelli delle donne nere», spiegava Hannah-Jones. «In un’elezione in cui la nostra stessa democrazia potrebbe essere a rischio, la posta in gioco non potrebbe essere più alta. La storia ci mostra che i progressi verso l’uguaglianza dei diritti in questa nazione possono realizzarsi quando le donne bianche si uniscono agli afroamericani per combattere per una causa comune». Beh, la causa comune in parte è stata combattuta, ma era quella di Trump, cosa che ha mandato su tutte le furie le commentatrici progressiste, soprattutto quelle di casa nostra, le quali si sono inferocite con «le donne che hanno votato contro le donne». Natalia Aspesi ieri, oltre a augurarsi che a Trump venisse l’Alzheimer, si disperava per il «tradimento delle giovani nere», gridava contro le donne «che non hanno votato la donna che pareva votata a difenderle», ma hanno premiato «un uomo orribile, dal viso inguardabile, villanissimo». Maria Laura Rodotà invece bastonava le donne con «un bel po’ di misoginia interiorizzata» che contribuiscono a rendere gli Usa una nazione «neo-vetero-patriarcale».
Sfugge alle illustri firme che se le donne votano a maggioranza per un candidato, allora quel candidato è ciò che «le donne vogliono», anche se non piace a Repubblica. Questa è la democrazia liberale, e fino a prova contraria è al gruppo sociale che spetta di stabilire quali siano i suoi interessi, non a qualche supervisore esterno sedicente illuminato. I liberal nostrani avevano stabilito che massimo interesse della popolazione femminile dovesse essere il «diritto all’aborto». Ma poiché la gran parte delle donne americane si è dimostrata interessata ad altro o in qualche caso addirittura pro Life, ecco che si accusano le signore statunitensi di essere irrazionali, incapaci di fare il proprio bene.
La stessa accusa, a ben vedere, viene estesa alla maggioranza degli americani, colpevole di aver votato Trump. Particolarmente suggestive, a tale riguardo, sono alcune analisi provenienti del mondo cattolico. Il noto economista Stefano Zamagni, per dire, sostiene che ora gli Stati Uniti finiranno nelle mani dei super ricchi, degli esponenti del nuovo capitalismo oligarchico della Silicon Valley. A suo dire, ciò dimostra che la democrazia è in crisi e che bisognerebbe «tornare al fondamento della democrazia, ovvero al governo del popolo per il popolo». Interessante, anche se a noi risultava che il governo del popolo prevedesse appunto il voto, e in effetti gli americani hanno votato. Ma se il popolo vota male, cioè a destra, allora bisogna dire che la democrazia è in pericolo. Proprio come fa, su Avvenire, Giorgio Ferrari sfoderando toni apocalittici gustosissimi. Sentite che afflato: «Scende la notte sulla democrazia americana. La vittoria straripante di Donald Trump cambia antropologicamente oltre che politicamente la bussola della politica trasformando il Paese in un’oligarchia liberale, una società tecno-liberista, guidata da oligarchie miliardarie e onniscienti, crepuscolo di quell’idea di democrazia partecipativa che il preambolo della Costituzione americana con il suo We the People proclamava orgogliosamente in ossequio al monito di Montesquieu». Ah, che meraviglia: la gente vota ma è la notte della democrazia, ha vinto Trump dunque al governo ci saranno i tecno-liberisti. Sfugge, agli amici di Avvenire, che i miliardari comandano negli Usa da anni, e così i tecno-liberisti. Bill Gates, giusto per citarne uno, è un signore con parecchi addentellati, Mark Zuckerberg si è fatto ordinare da Biden di censurare le notizie su Ucraina e Covid: questo per la democrazia è un pericolo o no? Per Avvenire sembra di no.
Pare di capire che al giornale dei vescovi tifassero Kamala, alla faccia delle posizioni di papa Francesco sui «sicari» che praticano aborti. A quanto pare, alle donne americane dei «diritti riproduttivi» interessa poco, in compenso a essere molto interessati al tema sono gli editorialisti cattolici e i prelati, i quali con tutta evidenza preferivano l’orda woke al perfido conservatore Donald. Meglio gli abortisti e i fautori del gender che Trump: legittimo, per carità, ma patetico. Si vede che qualcuno in zona Cei non solo non conosce il funzionamento della democrazia, ma conosce poco pure il catechismo.
Lo sconcertante fenomeno ha iniziato a manifestarsi più o meno intorno alle 4 di mercoledì mattina, quando i dati, ancora parziali, hanno svelato una tendenza favorevole a Donald Trump. Rula Jebreal aveva le parole imprigionate tra i denti, proprio non riusciva a tirarle fuori. Inutilmente Bianca Berlinguer la pregava di leggere le cifre fornite dalla Cnn sull'andamento del voto in Georgia, ma lei non ce la faceva. «È un testa a testa, non ci sono ancora numeri certi», ripeteva. Ma le percentuali quelle no, non si scollano dalla lingua. Riusciva a scandire bene i nomi degli Stati in cui la vittoria era assegnata a Kamala Harris, ma laddove era in testa Trump... Il blocco totale.
Nello studio di Rete 4, intanto, su alcuni sguardi calava un’ombra scura, un miscuglio grumoso di incredulità e sconforto che trasformava i volti in maschere cerulee. Eppure Concita De Gregorio lo aveva appena detto con chiarezza: il voto a Trump, spiegava, è totalmente irrazionale, c’è chi lo sceglie nel segreto della cabina solo perché questo mondo ha gradualmente abbandonato la ragione. Quando le ho fatto notare che stava trattando da alienati una larga fetta di elettori statunitensi, si è quasi offesa e mi è dispiaciuto, perché la sua opinione è assolutamente rispettabile. Ma, allo stesso tempo, è estremamente emblematica dell’impostazione progressista: non l’hanno visto arrivare perché, semplicemente, non potevano concepirne l’esistenza. Non accettavano che qualcuno potesse ritenere The Donald una opzione e non un pazzo criminale e razzista.
Quando si è capito che aveva vinto sul serio, è sceso il diluvio. Alan Friedman non poteva tollerare l’intollerabile, cercava un capro espiatorio tra i suoi: «Dove sono tutte le donne che dovevano votare per proteggere i loro diritti riproduttivi?», si disperava su X. «Dove erano i giovani per Harris? Assenti. E come spiegare le minoranze etniche come gli afroamericani e gli elettori latini che hanno votato per Trump, nonostante i suoi commenti razzisti?». Beh, la risposta la sappiamo: tutti questi elettori immaginari erano sulle pagine dei giornali di sinistra e non altrove. Vivevano nelle previsioni di Paolo Mieli che assegnava la vittoria a Kamala. Esistevano nei sogni del re degli incubi, Stephen King, che pregava chi ama la democrazia di votare Harris. O sulla copertina dell’Economist, che si domandava se realmente sarebbe potuto andare tutto storto. E in effetti sì, per loro è andato tutto storto e non sono proprio riusciti a farsene una ragione.
Roberto Saviano ha dato la colpa alla inconsistenza della sinistra ma, soprattutto, alla «fogna social». A suo dire, «senza regole per i social, nessuna democrazia è più possibile. Aver permesso che l’attenzione fosse ridotta a 8 secondi, che le news implodessero nella superficialità più ridicola, aver dato spazio, centralità e autorevolezza a qualsiasi nullità con una manciata di follower (spesso comprati, quindi bot)... Tutti esperti di tutto ha distrutto la democrazia. Il dibattito politico spostato sui social è stata la sua esecuzione». Già, peccato che le regole ai social le abbia messe Joe Biden, imponendo a Meta di nascondere le notizie sul Covid e sugli affari della sua famiglia in Ucraina. Ma questo, ovviamente, non viene considerato un problema per la democrazia: se sono i buoni a censurare, va tutto bene. Non uno che abbia detto mezza parola sulla mordacchia Web voluta dal presidente democratico.
In compenso, tutti puntavano il dito contro il presunto antidemocratico Trump. Ezio Mauro ieri si è dilettato a pubblicare vignette, forse per allontanare il dolore. Tra queste una di Ellekappa che suggeriva che Donald non avrebbe accettato la sconfitta e, piuttosto, avrebbe organizzato una nuova marcia su Capitol Hill vestito da sciamano. Peccato che, finora, a non accettare la sconfitta siano stati soltanto i commentatori liberal.
Per Carlo Calenda la vittoria repubblicana è il sintomo della crisi dell’Occidente: «L’elezione di Trump conferma tante cose che, purtroppo, già sapevamo sulla politica di questo decennio», dice il capo di Azione. «Paura e rabbia come principale meccanismo di voto; noncuranza verso l’etica pubblica e trionfo dei conflitti di interesse; politica come capacità di intrattenere ed essere star prima che statisti; irrilevanza sostanziale dei risultati di governo». Non ricordiamo bene i suoi, di risultati, ma ci pare che l’analisi ricalchi quella di Concita: se vincono gli altri, è un voto irrazionale, emotivo, inaccettabile.
Lia Quartapelle del Pd spiega che «la vittoria di Trump si poggia su dei problemi, delle correnti che attraversano gli Stati Uniti e, forse, l’Occidente tutto, che sono molto profonde e meriteranno maggiore attenzione e riflessione. Quello che è chiaro è che l’impatto sarà politico su tutta l’Europa. Saranno quattro anni molto duri per il nostro continente, per il nostro Paese». Riccardo Magi vede una «sciagura per i diritti, per lo stato di diritto, per le minoranze, per la libertà, per la lotta al cambiamento climatico. Ma, soprattutto, rischia di essere una sciagura per l’Europa». Nicola Fratoianni è solo poco meno drammatico.
Non manca, è chiaro, chi invita alla mobilitazione antica: «È giunto il momento di fare qualcosa», sentenzia Nathalie Tocci. «Restare uniti e proteggere le nostre economie, la nostra sicurezza e, soprattutto, le nostre democrazie è più esistenziale che mai». Chiaro: bisogna proteggere la democrazia dal voto altrui, non sia mai che governi uno che non ci piace. Annalisa Cuzzocrea della Stampa spiega che hanno «vinto gli insulti e il desiderio dell’America di isolarsi dal resto del mondo». Mancano solo le cavallette e i segni ci sono tutti. «Trump ha vinto nettamente. Solleticando di nuovo paure, insultando chi non la pensi come lui e agitando autoritarismo», dice Stefano Bonaccini. «Ora per l’Europa si aprono scenari di grande incertezza, di fronte a una nuova autarchia americana».
Paura, incertezza, sofferenza, oppressione: i progressisti vedono un futuro nerissimo per l’Europa. Non uno che si ricordi che nel cuore dell’Europa, proprio ora, si combatte una guerra sanguinosa, e non l’ha iniziata Trump. Anche la collega tedesca Constanze Reuscher, molto presente nei talk italici, ritiene che siano arrivati tempi cupi per il Vecchio continente e in primis per la sua Germania. Si vede che quando gli distruggevano il Nord Stream, i tedeschi erano convinti che fosse un bel momento.
La storia si ripete. Proprio come nel 2016, i sondaggi si sono rivelati troppo favorevoli ai democratici. La realtà certifica invece il fallimento di Kamala Harris, Joe Biden e tutto l’establishment dem. Il tentativo grottesco di rilanciare una figura - quella della vicepresidente - mai realmente stimata nemmeno tra le fila del partito non è andato a buon fine. Il salto da inutile vice Biden a donna illuminata pronta a guidare la prima potenza mondiale era troppo grande, a maggior ragione considerando il fatto che davanti ai grandi temi è apparsa spesso disorientata.
Nemmeno la grande spinta mediatica - ricordiamo i titoloni che davano Kamala vincente nel primo dibattito con Trump - ha giovato alla causa. «Biden ha una grossa responsabilità nella sconfitta», ha riferito alla Cnn una fonte del comitato della Harris. Uno scaricabarile non elegante, ma che certamente contiene un fondo di verità: è indubbio che l’attuale presidente sia uno dei protagonisti di questo fallimento, come anche della riabilitazione del tycoon dopo la sconfitta del 2020, avendo passato anni a demonizzarlo e a insultare il suo elettorato. D’altra parte, un impatto negativo potrebbe averlo dato anche la scelta della Harris di non dimettersi da vicepresidente - smarcandosi nettamente da Biden - una volta accettata la candidatura. In questo modo, la sua svolta a tratti «trumpiana» è apparsa poco credibile, perché soggetta alla critica di essere al potere e, dunque, avere la possibilità di cambiare subito le cose. Tant’è vero che The Donald ha giocato molto spesso questa carta.
Alla fine, però, è probabile che le elezioni siano state perse sui grandi temi: inflazione, immigrazione e - in misura minore - la politica estera. Tutte questioni su cui Trump ha insistito molto. Alla maggioranza degli statunitensi l’amministrazione Biden-Harris non è piaciuta, a partire dall’aumento dei prezzi. Anche l’ambivalenza della vicepresidente su Gaza deve aver avuto un impatto, perché l’elettorato arabo-islamico, storicamente favorevole ai dem, si è spostato in massa sul tycoon. A Dearborn, cittadina del Michigan con oltre il 40% della popolazione di origina araba, il 47% dei votanti ha scelto Trump (+17%), mentre solo il 28% (-41%) ha optato per la Harris. Numeri su cui, oltre alla politica estera, potrebbe aver pesato anche l’esplosione della cultura woke, tema che crea un inedito allineamento tra le posizioni conservatrici e i fedeli islamici.
I numeri della sconfitta vanno cercanti anche altrove. Secondo i primi exit polls della Cnn, Harris ha ottenuto l’86% dei voti tra gli afroamericani e il 53% tra i latini, risultati inferiori rispetto a quelli di Biden nel 2020, quando questi ottenne il 92% tra i primi e il 65% tra i secondi. Anche il voto femminile risulta piuttosto stupefacente, soprattutto se si considera che i dem hanno puntato molto sul tema dell’aborto. Trump segna un +2% (per un totale del 44%), mentre la Harris, che poteva essere la prima donna presidente, si è fermata al 54%. La sconfitta, dunque, è piuttosto netta. Come riporta Youtrend, «se le attuali proiezioni venissero confermate, sarebbe la prima volta dal 1976 che nessuno dei 50 stati Usa ha uno swing favorevole ai dem in un’elezione presidenziale». Inoltre, pare che la Harris in nessuna contea abbia raggiunto un risultato migliore di Biden nel 2020.
Alcune roccaforti dem, pur non avendo contribuito in alcun modo all’elezione di Trump, hanno conosciuto risultati stupefacenti. Nello Stato di New York - dove, come quasi in ogni Stato, tutti i grandi elettori vanno al candidato vincente - il leader del Gop raggiunge il 44,2% dei voti, mentre nel 2020 ottenne il 37,8% e nel 2016 il 36,5%. Specularmente, i democratici passano da 60,9% a 55,8%. Anche il dato californiano, se confermato (e soggetto agli stessi criteri di quello newyorkese), vede una parziale crescita di Trump e, dall’altra parte, un calo dei dem, che vanno dal 63,5% del 2020 al 57,3% di adesso.

