2024-11-07
La sinistra l’aveva seppellito e adesso rosica
Rula Jebreal e Roberto Saviano (Ansa)
Rula Jebreal farfuglia di «testa a testa» a dati consolidati, Alan Friedman è sconsolato: «Dove sono finiti donne e giovani per Kamala?». Roberto Saviano incolpa, via social, la «fogna social», Ezio Mauro pubblica vignette lunari e Annalisa Cuzzocrea parla di «vittoria degli insulti».Lo sconcertante fenomeno ha iniziato a manifestarsi più o meno intorno alle 4 di mercoledì mattina, quando i dati, ancora parziali, hanno svelato una tendenza favorevole a Donald Trump. Rula Jebreal aveva le parole imprigionate tra i denti, proprio non riusciva a tirarle fuori. Inutilmente Bianca Berlinguer la pregava di leggere le cifre fornite dalla Cnn sull'andamento del voto in Georgia, ma lei non ce la faceva. «È un testa a testa, non ci sono ancora numeri certi», ripeteva. Ma le percentuali quelle no, non si scollano dalla lingua. Riusciva a scandire bene i nomi degli Stati in cui la vittoria era assegnata a Kamala Harris, ma laddove era in testa Trump... Il blocco totale.Nello studio di Rete 4, intanto, su alcuni sguardi calava un’ombra scura, un miscuglio grumoso di incredulità e sconforto che trasformava i volti in maschere cerulee. Eppure Concita De Gregorio lo aveva appena detto con chiarezza: il voto a Trump, spiegava, è totalmente irrazionale, c’è chi lo sceglie nel segreto della cabina solo perché questo mondo ha gradualmente abbandonato la ragione. Quando le ho fatto notare che stava trattando da alienati una larga fetta di elettori statunitensi, si è quasi offesa e mi è dispiaciuto, perché la sua opinione è assolutamente rispettabile. Ma, allo stesso tempo, è estremamente emblematica dell’impostazione progressista: non l’hanno visto arrivare perché, semplicemente, non potevano concepirne l’esistenza. Non accettavano che qualcuno potesse ritenere The Donald una opzione e non un pazzo criminale e razzista.Quando si è capito che aveva vinto sul serio, è sceso il diluvio. Alan Friedman non poteva tollerare l’intollerabile, cercava un capro espiatorio tra i suoi: «Dove sono tutte le donne che dovevano votare per proteggere i loro diritti riproduttivi?», si disperava su X. «Dove erano i giovani per Harris? Assenti. E come spiegare le minoranze etniche come gli afroamericani e gli elettori latini che hanno votato per Trump, nonostante i suoi commenti razzisti?». Beh, la risposta la sappiamo: tutti questi elettori immaginari erano sulle pagine dei giornali di sinistra e non altrove. Vivevano nelle previsioni di Paolo Mieli che assegnava la vittoria a Kamala. Esistevano nei sogni del re degli incubi, Stephen King, che pregava chi ama la democrazia di votare Harris. O sulla copertina dell’Economist, che si domandava se realmente sarebbe potuto andare tutto storto. E in effetti sì, per loro è andato tutto storto e non sono proprio riusciti a farsene una ragione.Roberto Saviano ha dato la colpa alla inconsistenza della sinistra ma, soprattutto, alla «fogna social». A suo dire, «senza regole per i social, nessuna democrazia è più possibile. Aver permesso che l’attenzione fosse ridotta a 8 secondi, che le news implodessero nella superficialità più ridicola, aver dato spazio, centralità e autorevolezza a qualsiasi nullità con una manciata di follower (spesso comprati, quindi bot)... Tutti esperti di tutto ha distrutto la democrazia. Il dibattito politico spostato sui social è stata la sua esecuzione». Già, peccato che le regole ai social le abbia messe Joe Biden, imponendo a Meta di nascondere le notizie sul Covid e sugli affari della sua famiglia in Ucraina. Ma questo, ovviamente, non viene considerato un problema per la democrazia: se sono i buoni a censurare, va tutto bene. Non uno che abbia detto mezza parola sulla mordacchia Web voluta dal presidente democratico.In compenso, tutti puntavano il dito contro il presunto antidemocratico Trump. Ezio Mauro ieri si è dilettato a pubblicare vignette, forse per allontanare il dolore. Tra queste una di Ellekappa che suggeriva che Donald non avrebbe accettato la sconfitta e, piuttosto, avrebbe organizzato una nuova marcia su Capitol Hill vestito da sciamano. Peccato che, finora, a non accettare la sconfitta siano stati soltanto i commentatori liberal.Per Carlo Calenda la vittoria repubblicana è il sintomo della crisi dell’Occidente: «L’elezione di Trump conferma tante cose che, purtroppo, già sapevamo sulla politica di questo decennio», dice il capo di Azione. «Paura e rabbia come principale meccanismo di voto; noncuranza verso l’etica pubblica e trionfo dei conflitti di interesse; politica come capacità di intrattenere ed essere star prima che statisti; irrilevanza sostanziale dei risultati di governo». Non ricordiamo bene i suoi, di risultati, ma ci pare che l’analisi ricalchi quella di Concita: se vincono gli altri, è un voto irrazionale, emotivo, inaccettabile.Lia Quartapelle del Pd spiega che «la vittoria di Trump si poggia su dei problemi, delle correnti che attraversano gli Stati Uniti e, forse, l’Occidente tutto, che sono molto profonde e meriteranno maggiore attenzione e riflessione. Quello che è chiaro è che l’impatto sarà politico su tutta l’Europa. Saranno quattro anni molto duri per il nostro continente, per il nostro Paese». Riccardo Magi vede una «sciagura per i diritti, per lo stato di diritto, per le minoranze, per la libertà, per la lotta al cambiamento climatico. Ma, soprattutto, rischia di essere una sciagura per l’Europa». Nicola Fratoianni è solo poco meno drammatico.Non manca, è chiaro, chi invita alla mobilitazione antica: «È giunto il momento di fare qualcosa», sentenzia Nathalie Tocci. «Restare uniti e proteggere le nostre economie, la nostra sicurezza e, soprattutto, le nostre democrazie è più esistenziale che mai». Chiaro: bisogna proteggere la democrazia dal voto altrui, non sia mai che governi uno che non ci piace. Annalisa Cuzzocrea della Stampa spiega che hanno «vinto gli insulti e il desiderio dell’America di isolarsi dal resto del mondo». Mancano solo le cavallette e i segni ci sono tutti. «Trump ha vinto nettamente. Solleticando di nuovo paure, insultando chi non la pensi come lui e agitando autoritarismo», dice Stefano Bonaccini. «Ora per l’Europa si aprono scenari di grande incertezza, di fronte a una nuova autarchia americana».Paura, incertezza, sofferenza, oppressione: i progressisti vedono un futuro nerissimo per l’Europa. Non uno che si ricordi che nel cuore dell’Europa, proprio ora, si combatte una guerra sanguinosa, e non l’ha iniziata Trump. Anche la collega tedesca Constanze Reuscher, molto presente nei talk italici, ritiene che siano arrivati tempi cupi per il Vecchio continente e in primis per la sua Germania. Si vede che quando gli distruggevano il Nord Stream, i tedeschi erano convinti che fosse un bel momento.
A condurre, il direttore Maurizio Belpietro e il vicedirettore Giuliano Zulin. In apertura, Belpietro ha ricordato come la guerra in Ucraina e lo stop al gas russo deciso dall’Europa abbiano reso evidenti i costi e le difficoltà per famiglie e imprese. Su queste basi si è sviluppato il confronto con Nicola Cecconato, presidente di Ascopiave, società con 70 anni di storia e oggi attore nazionale nel settore energetico.
Cecconato ha sottolineato la centralità del gas come elemento abilitante della transizione. «In questo periodo storico - ha osservato - il gas resta indispensabile per garantire sicurezza energetica. L’Italia, divenuta hub europeo, ha diversificato gli approvvigionamenti guardando a Libia, Azerbaijan e trasporto via nave». Il presidente ha poi evidenziato come la domanda interna nel 2025 sia attesa in crescita del 5% e come le alternative rinnovabili, pur in espansione, presentino limiti di intermittenza. Le infrastrutture esistenti, ha spiegato, potranno in futuro ospitare idrogeno o altri gas, ma serviranno ingenti investimenti. Sul nucleare ha precisato: «Può assicurare stabilità, ma non è una soluzione immediata perché richiede tempi di programmazione lunghi».
La seconda parte del panel è stata guidata da Giuliano Zulin, che ha aperto il confronto con le testimonianze di Maria Cristina Papetti e Maria Rosaria Guarniere. Papetti ha definito la transizione «un ossimoro» dal punto di vista industriale: da un lato la domanda mondiale di energia è destinata a crescere, dall’altro la comunità internazionale ha fissato obiettivi di decarbonizzazione. «Negli ultimi quindici anni - ha spiegato - c’è stata un’esplosione delle rinnovabili. Enel è stata tra i pionieri e in soli tre anni abbiamo portato la quota di rinnovabili nel nostro energy mix dal 75% all’85%. È tanto, ma non basta».
Collegata da remoto, Guarniere ha descritto l’impegno di Terna per adeguare la rete elettrica italiana. «Il nostro piano di sviluppo - ha detto - prevede oltre 23 miliardi di investimenti in dieci anni per accompagnare la decarbonizzazione. Puntiamo a rafforzare la capacità di scambio con l’estero con un incremento del 40%, così da garantire maggiore sicurezza ed efficienza». Papetti è tornata poi sul tema della stabilità: «Non basta produrre energia verde, serve una distribuzione intelligente. Dobbiamo lavorare su reti smart e predittive, integrate con sistemi di accumulo e strumenti digitali come il digital twin, in grado di monitorare e anticipare l’andamento della rete».
Il panel si è chiuso con un messaggio condiviso: la transizione non può prescindere da un mix equilibrato di gas, rinnovabili e nuove tecnologie, sostenuto da investimenti su reti e infrastrutture. L’Italia ha l’opportunità di diventare un vero hub energetico europeo, a patto di affrontare con decisione le sfide della sicurezza e dell’innovazione.
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Il fiume Nilo Azzurro nei pressi della Grande Diga Etiope della Rinascita (GERD) a Guba, in Etiopia (Getty Images)