2020-11-01
Tria perde la testa per la «meritocrazia» in salsa pechinese
L’ex ministro loda il regime per la sua gestione della pandemia, frutto di «un sistema che premia l’efficienza». E i diritti?Per evidenti ragioni, scrivendo la sua colonna del sabato per il Telegraph di Londra, il grande Charles Moore (già direttore di quel giornale e dello Spectator, biografo ufficiale di Margaret Thatcher, e forse in assoluto la più autorevole firma della stampa britannica) non poteva aver letto, sul Foglio di ieri, il commento dell’ex ministro italiano Giovanni Tria. Eppure entrambi - Moore e Tria - si sono occupati del medesimo tema: il rapporto tra Occidente e Cina. Tuttavia lo hanno fatto da punti di vista opposti. Moore per dire che «l’Occidente non deve inchinarsi davanti al regime cinese che ha fatto ammalare il mondo», e che «la lotta tra noi e il presidente Xi è una guerra di valori». Moore non si avventura a scegliere quale sia la tesi giusta tra chi sostiene che il coronavirus sia stato portato da pipistrelli e pangolini, chi invece sostiene che sia sfuggito per errore da un laboratorio, e chi infine ritiene che sia stato deliberatamente costruito dagli scienziati cinesi. Tuttavia, spiega, «se il Partito comunista cinese avesse ammesso ciò che accadeva, centinaia di migliaia di morti sarebbero stati evitati», così come i danni economici che conosciamo. E qui Moore ha buon gioco a ricapitolare la concezione della vita del regime cinese, tra «segretezza, repressione, propaganda e disumanità», le «persecuzioni di uiguri e tibetani», l’«espianto forzato dei loro organi», fino alla repressione a Hong Kong e le minacce a Taiwan. Conclusione: il richiamo alla «guerra di valori» tra Pechino e l’Occidente. Ma «il problema», conclude sconsolato Moore, «è che noi non sappiamo più quali siano i nostri valori». Chi fosse in cerca di conferme sullo smarrimento occidentale avrebbe potuto varcare la Manica, procurarsi Il Foglio e leggere il commento di Giovanni Tria, significativamente intitolato «Lezioni dalla Cina». L’ex titolare del Mef prende le mosse dai riflessi economici della pandemia: «La Cina è uscita per prima dalla cosiddetta prima ondata, non appare ancora toccata dalla seconda e la sua economia è ripartita». Sulla base di questa constatazione, Tria procede all’esame delle possibili spiegazioni, e per prima cosa esclude quella per cui la Cina «ha più risorse». Poi l’ex ministro boccia la seconda risposta (che - a suo dire - viene «sparata nel dibattito»), e cioè il fatto che Pechino sarebbe «un Paese non democratico o autoritario o una dittatura, secondo una varia terminologia», scrive testualmente l’economista, «dettata dalla minore o maggiore simpatia di chi parla per questo Paese». Ma Tria respinge questa ipotesi, evocando i risultati di altri Paesi asiatici «con sistemi più vicini alle nostre democrazie». E allora? Ecco la soluzione che persuade Tria: «In Cina, la vera questione non è il grado di democrazia esistente. Il punto è che si tratta di un sistema sostanzialmente meritocratico», pur - concede il professore - «con tutte le eccezioni dovute a coalizioni di interessi, nepotismi e altri fenomeni presenti in tutti i sistemi». Ma, al di là di questo caveat, per il resto Tria tesse le lodi di un sistema in cui «difficilmente degli incompetenti e incapaci arrivano al governo», e, «se ciò accade, viene in genere rapidamente e drasticamente posto rimedio». Conclusivamente, l’ex ministro annota che tale attitudine meritocratica non è propria di alcune dittature («Vari regimi dell’America Latina o dell’Africa»), e che in generale «la meritocrazia e la selezione di una classe dirigente capace non sembra correlata in modo significativo al tasso di democrazia». In un sussulto di prudenza, l’ex ministro conclude: «Se un altro Paese trova soluzioni più efficienti è bene osservarlo con rispetto e far tesoro delle sue esperienze, il che non significa sposarne il sistema politico». La chiosa finale è forse minimamente rassicurante: anche perché non crediamo davvero che al professor Tria piacerebbe trovarsi nella scomoda condizione di dissidente politico o minoranza religiosa dalle parti di Pechino. Ma ciò che colpisce è l’evocazione della meritocrazia come connotato di quello che è e resta un regime sanguinario, oppressivo e liberticida.Intendiamoci: eccellenze culturali e dimostrazioni di tremenda efficienza organizzativa ci furono anche sotto i regimi di Adolf Hitler e Josif Stalin, e però c’è da dubitare che oggi qualcuno evocherebbe la meritocrazia a proposito di nazismo e stalinismo. Ma Tria ha antiche frequentazioni cinesi: da giovane fu visiting scholar all’università di Pechino; ad aprile 2018, prima di diventare ministro, si recò in Cina per il lancio del Sino-European research center in finance and economic development (un’iniziativa in collaborazione tra la Capital university of finance and economics di Pechino e l’università di Tor Vergata, della cui facoltà di economia Tria era preside); e nel 2016 fu insignito a Shangai del Magnolia silver award, riconoscimento agli stranieri che contribuiscono alla collaborazione culturale e socio-economica con Shanghai. Un’amicizia che Tria, evidentemente, non ha dimenticato, qualunque cosa la Cina faccia ai suoi cittadini e al resto del pianeta.