2021-09-24
La trattativa Stato-mafia non esiste
Mario Mori, Antonio Subranni, Giuseppe De Donno, Marcello Dell'Utri: tutti assolti in appello. È la clamorosa decisione del tribunale di Palermo, che ribalta il giudizio di primo grado e il castello della procura.Tutti assolti, insomma. L'invereconda trattativa tra Stato e mafia, quella che da un decennio continua a eccitare il fior fior dei giustizialisti, non c'è mai stata. «Una favoletta», l'avevano definita gli avvocati difensori in aula. «Il fatto non costituisce reato», conclude la Corte d'assise d'appello di Palermo.Ieri pomeriggio, dunque. Attesa tremenda. Durava da lunedì, quando i magistrati sono entrati in camera di consiglio. Manettari d'Italia in ambasce. Il Fatto quotidiano che, per l'apprensione, comincia a trascurare l'amato Giuseppi. E poi, alle 17, arriva la notizia che frantuma tutto: sbalorditivi retroscena, straordinarie scoperte, stentoree conclusioni.Tutti assolti. Gli ex generali dei carabinieri, Mario Mori e Giuseppe De Donno, condannati in primo grado a 12 anni. Il già colonnello Antonio Subranni, punito con 8. E il fu senatore forzista Marcello Dell'Utri, 12 anni anche a lui, accusato di aver fatto da tramite nel 1994 tra i capimafia e il governo Berlusconi. La procura generale chiedeva di confermare le pene. I giudici ribaltano il verdetto di uno dei processi più chiassosi e controversi di sempre. Assolti militari e politici. Pena ridotta da 28 a 27 anni al boss Leoluca Bagarella. Confermata quella a dodici anni per Nino Cinà, l'ex medico di Totò Riina, nonché la prescrizione per Giovanni Brusca. Ad aprile 2018, la sentenza di primo grado stabilisce: nei mesi delle stragi mafiose del 1992 e del 1993, alcuni uomini delle istituzioni hanno fatto da tramite con i vertici di Cosa nostra. Una trattativa. Peggio: un ricatto. I boss chiedono concessioni carcerarie per i detenuti al 41 bis e l'alleggerimento nella lotta alla mafia. In cambio, promettono la fine degli attentati. Decisivi, assicura l'accusa, sono allora gli incontri tra i carabinieri e l'ex sindaco di Palermo, Vito Ciancimino. E poi ci sarebbero gli inequivocabili collegamenti tra Dell'Utri e Cosa nostra, tramite Vittorio Mangano, ex stalliere di Arcore, residenza del Cavaliere. Ma tra gli imputati c'è pure un altro politico, l'ex ministro Dc Calogero Mannino, ulteriore tramite dell'indecente ricatto. Lo accusano di «violenza o minaccia verso un corpo politico dello Stato». Lui ottiene il rito abbreviato. Risultato: assolto «per non aver commesso il fatto». Primo grado, appello e Cassazione. Sentenza diventata definitiva lo scorso dicembre, mentre vengono sparati gli ultimi bengala. Un giudizio che smonta le tesi dei pm palermitani. Per la Corte d'assise che aveva dichiarato colpevoli i vertici del Ros, la proposta di «trattativa» dei carabinieri a Ciancimino ebbe l'effetto di «far sorgere o quantomeno consolidare il proposito criminoso risoltosi nella minaccia formulata nei confronti del governo della Repubblica sotto forma di richieste di benefici, al cui ottenimento i mafiosi condizionavano la cessazione delle stragi». Per i giudici che dopo assolvono Mannino, invece, l'iniziativa del Ros fu nient'altro che «un'operazione info-investigativa di polizia giudiziaria, realizzata attraverso la promessa di benefici personali al Ciancimino». L'ex sindaco avrebbe dovuto infiltrarsi tra i boss per favorire la «cattura di Totò Riina».L'alfa e l'omega, insomma. Fino alla sentenza di ieri, dopo anni di furori giustizialisti. Il presidente della corte d'assise, Angelo Pellino, nell'aprile 2019, durante la prima udienza, chiarisce però quell'ovvio che sembrava diventato accessorio. «Gli imputati non sono archetipi socio-criminologici» spiega «bensì persone in carne e ossa che saranno giudicate per ciò che hanno o non hanno fatto, se si tratta di reati». Dell'Utri commenta: «Sono commosso, è un peso che se ne va dal cuore». Era lui l'archetipo degli archetipi.
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