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2021-04-20
Trasporto, tamponi, aule da areare. La scuola teme una falsa ripartenza
Daniele Franco (Ansa/iStock)
Un rientro a scuola molto complicato. Mancano pochi giorni al 26 aprile, quando gli studenti delle zone gialle e arancioni torneranno tutti in presenza (solo al 50% nelle superiori delle Regioni in rosso, ormai davvero poche), ma se il governo non lavora in fretta al nuovo decreto legge rischiamo di trovarci nella stessa situazione dello scorso settembre. Senza banchi a rotelle, per la fortuna degli istituti che non li hanno voluti e con la rabbia di chi ha dovuto disfarsene in quanto dannosi per la schiena dei ragazzi, però con tanti problemi ancora irrisolti.
Il ministro dell'Istruzione, Patrizio Bianchi, sta preparando una circolare che dopo il dl preciserà alle scuole che cosa è possibile fare per evitare assembramenti, ovvero ingressi scaglionati, ore da 50 minuti, didattica digitare integrata, turnazione. Gli stessi modelli organizzativi che erano previsti anche a inizio anno scolastico, però scarsamente applicati. Ora si pretende di trovare soluzioni a meno di una settimana dalla riapertura. Preoccupano sempre i trasporti, troppo affollati, un tema che riguarda soprattutto gli alunni delle superiori. Il premier Mario Draghi ricorda che sono già stati stanziati 390 milioni di euro per aumentare il numero dei bus, «ma quando ne vedremo gli effetti?» è la prima domanda che pone Antonello Giannelli, presidente dell'Anp, l'Associazione nazionale presidi.
Alla Verità il presidente della Conferenza delle Regioni, Massimiliano Fedriga, ha ribadito che «occorre differenziare molto gli orari di entrata negli istituti». «C'è un limite fisiologico rappresentato dal numero insufficiente di bus», aggiunge Fedriga, che assieme a Upi e Anci ha chiesto un incontro al governo per rivedere gli orari scolastici perché «servono anni e non mesi per ordinare nuovi mezzi». Sulla stessa linea il governatore del Veneto, Luca Zaia, fa presente che solo nella sua Regione servirebbero un migliaio di pullman in più. «Portando la didattica in presenza al 100% da lunedì prossimo, la norma dice che il bus deve restare riempito al 50%», ha detto ieri in conferenza stampa, quindi «bisogna raddoppiare la dotazione».
Poiché è molto difficile che si riesca, il presidente leghista vede come possibili soluzioni «lo scaglionamento di arrivo degli studenti con turni a orari sfalsati, oppure rendere facoltativa da parte dei genitori la scelta di far fare la Dad ai figli, oppure ridurre la percentuale in presenza arrivando magari al 75%». Nell'incontro di oggi tra governo e Regioni si discuterà proprio di ingressi scaglionati o di aumento della capienza consentita sui mezzi. C'è poi la questione assembramento. «Se si torna al 100% in molte aule non sarà possibile rispettare il metro di distanziamento», osserva Giannelli, ma il Cts di cui si aspetta il parere non è favorevole alla riduzione della distanza minima. «Da mesi chiediamo che vengano rivisti i criteri delle formazioni delle classi con un massimo di 20 alunni, la creazione di spazi per le scuole dove poter fare didattica, una anagrafe degli edifici scolastici il tracciamento dei contatti, tamponi ripetuti: tutto è rimasto senza risposta», protesta Mario Rusconi, presidente Anp Lazio.
Insegnanti, docenti e sindacati chiedono l'aggiornamento del protocollo di sicurezza fermo all'estate scorsa. Non si tratta solo di mascherine obbligatorie dai 6 anni in su, distanze, lavaggio delle mani, ma anche di dotare le scuole di impianti di ventilazione controllata, che assicurano il ricambio d'aria e riducono del 99,6% la concentrazione delle particelle infette. Inoltre, servono a climatizzare gli edifici. La semplice apertura delle finestre non basta a mettere in sicurezza le aule, gli esperti lo ripetono e non vengono ascoltati perché i 150 milioni stanziati dal decreto Sostegni servono anche per comprare mascherine, gel e termoscanner, non solo nuovi impianti.
Tra le incognite ci sono i tamponi, che dovrebbero aiutare a tracciare i positivi. L'immunologo Sergio Abrignani ha dichiarato alla Repubblica che immunità dei docenti e «un programma di test salivari rapidi sugli studenti renderanno la scuola ancora più sicura», ma lo screening ovunque con i test rapidi appare irrealizzabile in tempi brevi, per i costi e la mancanza di personale. Più probabile un monitoraggio attraverso gruppi di alunni, ipotesi alla quale starebbe lavorando il ministero della Salute.
I sindacati hanno chiesto il completamento delle vaccinazioni dei docenti e nell'incontro di ieri a viale Trastevere si è discusso anche di esami di Stato e reclutamento insegnanti. Luca Vessio, precario pugliese di 39 anni, ha scritto al ministro Bianchi: «Il buon senso oggi chiederebbe l'abilitazione automatica e l'assunzione di tutti coloro che hanno superato il concorso straordinario fino ad esaurimento cattedre, e solo dopo attingere dalla graduatoria dell'ordinario». Il ministro, in un videomessaggio per l'avvio della Settimana civica, ha detto che «bisogna educarsi a vivere insieme», dimenticando di aggiungere che se i ragazzi non possono andare a scuola in sicurezza, non torneranno a vivere insieme. E sulle incognite resta vago: la scuola in presenza «è un segno importante, affronteremo i problemi». Quando?
Meloni azzanna Draghi sul Recovery
Difficilmente basteranno gli incontri ufficiali per risolvere i nodi politici più scottanti sulla governance del Recovery plan. Detto questo, con i faccia a faccia di ieri con Fdi e Italia viva, Mario Draghi ha praticamente concluso il giro di consultazioni a Palazzo Chigi con le forze politiche (oggi è la volta di Leu), prima di passare alle parti sociali, per poi licenziare nel cdm la sua versione del Pnrr e illustrarla alle Camere il 26 e 27 aprile. Sarà in quel frangente, a ridosso della scadenza del 30 aprile (che il premier continua a dire di voler rispettare) entro cui inviare il piano a Bruxelles, che anche le perplessità dei partiti di maggioranza verranno a galla, dopo quelle espresse in maniera energica da Giorgia Meloni dal fronte dell'opposizione.
Perché il problema, a quanto pare, è che nell'architettura immaginata dall'ex-presidente della Bce per gestire e smistare i fondi del Recovery, in cima a tutto ci sarebbe un supercomitato formato interamente da ministri tecnici (Daniele Franco, Vittorio Colao, Roberto Cingolani ed Enrico Giovannini), con il rischio concreto che i partiti non tocchino palla per tutta la durata della partita. E visto che la levata di scudi contro task force e tecnici vari è stata alla base del tonfo del Conte bis, sarà necessario su questo trovare una quadra che salvi la coerenza e non urti la suscettibilità del Parlamento. Ma che l'esecutivo sia in ritardo, che il Parlamento rischi di avere un ruolo ornamentale e che la strada sia tutt'altro che agevole lo ha fatto capire, come accennato, la leader di Fdi, Giorgia Meloni, alla fine dell'incontro (durato circa un'ora e mezza) con Draghi. «Ad oggi», ha rivelato la Meloni, «noi non conosciamo il Pnrr del governo, che non ha ritenuto di illustrare il piano e ha piuttosto chiesto le nostre proposte. In teoria il Pnrr va presentato entro il 30 di aprile, il presidente Draghi verrà in Aula il 26 aprile, quindi quattro giorni prima. Il rischio che il Parlamento e segnatamente l'opposizione non abbiano la possibilità di giudicare questo piano», ha proseguito, «e di dire la propria, nei tempi e nei modi che una Repubblica parlamentare richiede, è molto alti. Temo che ci sia stato confermato che il ruolo del Parlamento in questa vicenda sarà molto marginale e questa è una cosa che noi non ci sentiamo di avallare e sostenere».
«Abbiamo chiesto», ha detto ancora, «di avere tempi giusti per poter valutare il piano nel suo complesso e poi fare le nostre proposte». Altro tema che non poteva essere eluso nell'incontro, quello delle modalità delle riaperture, sulle quali pendono ancora numerose incertezze e incongruenze denunciate dagli stessi lavoratori interessati: «Serve un cambio di paradigma», ha detto Giorgia Meloni, «rispetto a quello che abbiamo visto fino a oggi. Nelle prerogative di un governo c'è stabilire i modelli e le regole comportamentali per fermare il contagio, non stabilire se e quando un cittadino deve uscire di casa o aprire o chiudere un'attività. Non si può consentire che il governo decida delle libertà fondamentali delle persone». Comprensibilmente diversi i toni usati da Matteo Renzi, al termine dell'incontro con il premier: il leader di Iv, in un tweet, ha parlato di «ottimo confronto» e di «vera svolta su vaccini, piano di rilancio e credibilità internazionale dell'Italia».
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Stanziati 309 milioni per i bus, però per i presidi «gli effetti non si vedono». C'è l'ipotesi di ingressi scaglionati. Mancano protocolli sulla ventilazione, irrealizzabili i test di massa. Patrizio Bianchi glissa: «Affronteremo i problemi».La leader di Fdi dopo il colloquio con l'esecutivo: «Nessuno ci ha illustrato il piano, così il Parlamento finirà ai margini». Matteo Renzi lusinga il premier e Daniele Franco: «Ottimo confronto».Lo speciale contiene due articoli.Un rientro a scuola molto complicato. Mancano pochi giorni al 26 aprile, quando gli studenti delle zone gialle e arancioni torneranno tutti in presenza (solo al 50% nelle superiori delle Regioni in rosso, ormai davvero poche), ma se il governo non lavora in fretta al nuovo decreto legge rischiamo di trovarci nella stessa situazione dello scorso settembre. Senza banchi a rotelle, per la fortuna degli istituti che non li hanno voluti e con la rabbia di chi ha dovuto disfarsene in quanto dannosi per la schiena dei ragazzi, però con tanti problemi ancora irrisolti. Il ministro dell'Istruzione, Patrizio Bianchi, sta preparando una circolare che dopo il dl preciserà alle scuole che cosa è possibile fare per evitare assembramenti, ovvero ingressi scaglionati, ore da 50 minuti, didattica digitare integrata, turnazione. Gli stessi modelli organizzativi che erano previsti anche a inizio anno scolastico, però scarsamente applicati. Ora si pretende di trovare soluzioni a meno di una settimana dalla riapertura. Preoccupano sempre i trasporti, troppo affollati, un tema che riguarda soprattutto gli alunni delle superiori. Il premier Mario Draghi ricorda che sono già stati stanziati 390 milioni di euro per aumentare il numero dei bus, «ma quando ne vedremo gli effetti?» è la prima domanda che pone Antonello Giannelli, presidente dell'Anp, l'Associazione nazionale presidi. Alla Verità il presidente della Conferenza delle Regioni, Massimiliano Fedriga, ha ribadito che «occorre differenziare molto gli orari di entrata negli istituti». «C'è un limite fisiologico rappresentato dal numero insufficiente di bus», aggiunge Fedriga, che assieme a Upi e Anci ha chiesto un incontro al governo per rivedere gli orari scolastici perché «servono anni e non mesi per ordinare nuovi mezzi». Sulla stessa linea il governatore del Veneto, Luca Zaia, fa presente che solo nella sua Regione servirebbero un migliaio di pullman in più. «Portando la didattica in presenza al 100% da lunedì prossimo, la norma dice che il bus deve restare riempito al 50%», ha detto ieri in conferenza stampa, quindi «bisogna raddoppiare la dotazione». Poiché è molto difficile che si riesca, il presidente leghista vede come possibili soluzioni «lo scaglionamento di arrivo degli studenti con turni a orari sfalsati, oppure rendere facoltativa da parte dei genitori la scelta di far fare la Dad ai figli, oppure ridurre la percentuale in presenza arrivando magari al 75%». Nell'incontro di oggi tra governo e Regioni si discuterà proprio di ingressi scaglionati o di aumento della capienza consentita sui mezzi. C'è poi la questione assembramento. «Se si torna al 100% in molte aule non sarà possibile rispettare il metro di distanziamento», osserva Giannelli, ma il Cts di cui si aspetta il parere non è favorevole alla riduzione della distanza minima. «Da mesi chiediamo che vengano rivisti i criteri delle formazioni delle classi con un massimo di 20 alunni, la creazione di spazi per le scuole dove poter fare didattica, una anagrafe degli edifici scolastici il tracciamento dei contatti, tamponi ripetuti: tutto è rimasto senza risposta», protesta Mario Rusconi, presidente Anp Lazio. Insegnanti, docenti e sindacati chiedono l'aggiornamento del protocollo di sicurezza fermo all'estate scorsa. Non si tratta solo di mascherine obbligatorie dai 6 anni in su, distanze, lavaggio delle mani, ma anche di dotare le scuole di impianti di ventilazione controllata, che assicurano il ricambio d'aria e riducono del 99,6% la concentrazione delle particelle infette. Inoltre, servono a climatizzare gli edifici. La semplice apertura delle finestre non basta a mettere in sicurezza le aule, gli esperti lo ripetono e non vengono ascoltati perché i 150 milioni stanziati dal decreto Sostegni servono anche per comprare mascherine, gel e termoscanner, non solo nuovi impianti. Tra le incognite ci sono i tamponi, che dovrebbero aiutare a tracciare i positivi. L'immunologo Sergio Abrignani ha dichiarato alla Repubblica che immunità dei docenti e «un programma di test salivari rapidi sugli studenti renderanno la scuola ancora più sicura», ma lo screening ovunque con i test rapidi appare irrealizzabile in tempi brevi, per i costi e la mancanza di personale. Più probabile un monitoraggio attraverso gruppi di alunni, ipotesi alla quale starebbe lavorando il ministero della Salute. I sindacati hanno chiesto il completamento delle vaccinazioni dei docenti e nell'incontro di ieri a viale Trastevere si è discusso anche di esami di Stato e reclutamento insegnanti. Luca Vessio, precario pugliese di 39 anni, ha scritto al ministro Bianchi: «Il buon senso oggi chiederebbe l'abilitazione automatica e l'assunzione di tutti coloro che hanno superato il concorso straordinario fino ad esaurimento cattedre, e solo dopo attingere dalla graduatoria dell'ordinario». Il ministro, in un videomessaggio per l'avvio della Settimana civica, ha detto che «bisogna educarsi a vivere insieme», dimenticando di aggiungere che se i ragazzi non possono andare a scuola in sicurezza, non torneranno a vivere insieme. E sulle incognite resta vago: la scuola in presenza «è un segno importante, affronteremo i problemi». 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Sarà in quel frangente, a ridosso della scadenza del 30 aprile (che il premier continua a dire di voler rispettare) entro cui inviare il piano a Bruxelles, che anche le perplessità dei partiti di maggioranza verranno a galla, dopo quelle espresse in maniera energica da Giorgia Meloni dal fronte dell'opposizione. Perché il problema, a quanto pare, è che nell'architettura immaginata dall'ex-presidente della Bce per gestire e smistare i fondi del Recovery, in cima a tutto ci sarebbe un supercomitato formato interamente da ministri tecnici (Daniele Franco, Vittorio Colao, Roberto Cingolani ed Enrico Giovannini), con il rischio concreto che i partiti non tocchino palla per tutta la durata della partita. E visto che la levata di scudi contro task force e tecnici vari è stata alla base del tonfo del Conte bis, sarà necessario su questo trovare una quadra che salvi la coerenza e non urti la suscettibilità del Parlamento. Ma che l'esecutivo sia in ritardo, che il Parlamento rischi di avere un ruolo ornamentale e che la strada sia tutt'altro che agevole lo ha fatto capire, come accennato, la leader di Fdi, Giorgia Meloni, alla fine dell'incontro (durato circa un'ora e mezza) con Draghi. «Ad oggi», ha rivelato la Meloni, «noi non conosciamo il Pnrr del governo, che non ha ritenuto di illustrare il piano e ha piuttosto chiesto le nostre proposte. In teoria il Pnrr va presentato entro il 30 di aprile, il presidente Draghi verrà in Aula il 26 aprile, quindi quattro giorni prima. Il rischio che il Parlamento e segnatamente l'opposizione non abbiano la possibilità di giudicare questo piano», ha proseguito, «e di dire la propria, nei tempi e nei modi che una Repubblica parlamentare richiede, è molto alti. Temo che ci sia stato confermato che il ruolo del Parlamento in questa vicenda sarà molto marginale e questa è una cosa che noi non ci sentiamo di avallare e sostenere». «Abbiamo chiesto», ha detto ancora, «di avere tempi giusti per poter valutare il piano nel suo complesso e poi fare le nostre proposte». Altro tema che non poteva essere eluso nell'incontro, quello delle modalità delle riaperture, sulle quali pendono ancora numerose incertezze e incongruenze denunciate dagli stessi lavoratori interessati: «Serve un cambio di paradigma», ha detto Giorgia Meloni, «rispetto a quello che abbiamo visto fino a oggi. Nelle prerogative di un governo c'è stabilire i modelli e le regole comportamentali per fermare il contagio, non stabilire se e quando un cittadino deve uscire di casa o aprire o chiudere un'attività. Non si può consentire che il governo decida delle libertà fondamentali delle persone». Comprensibilmente diversi i toni usati da Matteo Renzi, al termine dell'incontro con il premier: il leader di Iv, in un tweet, ha parlato di «ottimo confronto» e di «vera svolta su vaccini, piano di rilancio e credibilità internazionale dell'Italia».
MR. BRAINWASH, Banksy thrower, opera unica su carta, 2022
Contrariamente a quanto si possa pensare, la street art, così straordinariamente attuale e rivoluzionaria, affonda le sue radici negli albori della storia: si può dire che parta dalle incisioni rupestri (i graffiti primitivi sono temi ricorrenti in molti street artist contemporanei) e millenni dopo, passando per le pitture murali medievali, i murales politici del dopoguerra e il « muralismo » messicano di Diego Rivera, José Clemente Orozco e David Alfaro Siqueiros, approdi nella New York ( o meglio, nel suo sottosuolo…) di fine anni ’60, dove tag, firme e strani simboli si moltiplicano sui treni e sui muri delle metropolitane, espressione di quella nuova forma d’arte che prende il nome di writing, quell’arte urbana che è la «parente più prossima » della street art, meno simbolica e più figurativa.
E quando si parla di street art, il primo nome che viene in mente è in assoluto quello di Banksy, la figura più enigmatica della scena artistica contemporanea, che ha fatto del mistero la sua cifra espressiva. Banksy è «l‘ artista che non c’è » ma che lascia ovunque il segno del suo passaggio, con una comunicazione che si muove con intelligenza tra arte e media: i suoi profili social sono il primo canale di diffusione e le sue opere, spesso realizzate con stencil (una maschera normografica su cui viene applicata una vernice, così da ottenere un'immagine sullo spazio retrostante), sono interventi rapidi nello spazio urbano, capaci di coniugare arte e messaggio politico. Quella di Bansky è un’arte clandestina, quasi abusiva, fulminea, che compare dal nulla un po’ovunque, in primis sui grandi scenari di guerra, dal muro che divide Israele e Palestina ai palazzi bombardati in Ucraina. Le sue immagini, dall’iconica Balloon Girl (la ragazzina con un palloncino rosso a forma di cuore) ai soldati che disegnano il segno della pace, dai bambini con maschere antigas, alle ragazzine che abbracciano armi da guerra, sono ironiche e dissacranti, a volte disturbanti, ma lanciano sempre messaggi politici e chiare invettive contro i potenti del mondo.
Ed è proprio il misterioso artista (forse) di Bristol il fulcro della mostra a Conegliano, curata da Daniel Buso e organizzata da ARTIKA in collaborazione con Deodato Arte e la suggestiva cittadina veneta.
La Mostra, Keith Haring e Obey
Ricca di 80 opere, con focus sulla figura di Bansky ( particolarmente significativa la sua Kids on Guns, un'opera del 2013 che rappresenta due bambini stilizzati in cima a una montagna di armi, simbolo della lotta contro la violenza), la mostra si articola attorno a quattro grandi temi - ribellione, pacifismo, consumismo e critica al sistema – ed ospita, oltre all’enigmatico artista britannico, altri due guru della street art: Keith Haring e Shepard Fairey, in arte Obey.
Convinto che «l’arte non è un’attività elitaria riservata all’apprezzamento di pochi: l’arte è per tutti e questo è il fine a cui voglio lavorare» Haring (morto prematuramente nel 1990, a soli 32 anni, stroncato dall’AIDS) ha creato un nuovo linguaggio comunicativo caratterizzato da tematiche legate alla politica e alla società, facendo degli omini stilizzati e del segno grafico nero i suoi tratti distintivi; Fairey, in arte Obey, attualmente uno degli street artist più importanti ( e discussi) al mondo, si è fin da subito reso conto di come la società in cui è nato e cresciuto lo abbia condotto all’obbedienza senza che lui se ne rendesse conto: da qui la scelta di chiamarsi Obey , che significa obbedire.
Bansky, Haring , Obey, praticamente la storia della street art racchiusa in una mostra che non è solo un'esposizione di opere d'arte, ma anche un'occasione per riflettere sulle contraddizioni di questo oramai popolarissimo movimento artistico e sul suo ruolo nella società contemporanea. Alla domanda se un’arte nata per contestare il sistema possa oggi essere esposta nei musei, venduta all’asta e diventare oggetto di mercato, non vengono offerte risposte, ma contributi per stimolare una riflessione personale in ogni visitatore. Perché, in fondo, anche questa è la forza della Street Art: porre questioni più che dare certezze...
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Da sx in alto: americani della 92ª Divisione, alpini della Divisione «Monterosa», paracadutisti tedeschi e la frazione di Sommocolonia oggi. Garfagnana, 26 dicembre 1944
La battaglia della Garfagnana, nota come Operazione «Wintergewitter» (tempesta invernale) fu l’ultima controffensiva delle forze dell’Asse sul fronte italiano. Iniziò la notte tra Natale e Santo Stefano del 1944 per terminare tre giorni più tardi. L’obiettivo, pur presentando scarse se non nulle possibilità di raggiungerlo, era quello di arrestare l’avanzata alleata lungo il fronte della linea Gotica allora in stallo per l’inverno rallentando l’avanzata degli angloamericani che puntavano verso Bologna e la Pianura Padana. Il teatro delle operazioni fu la valle del Serchio nella Garfagnana, in provincia di Lucca, dove gli americani del 92° Infantry Regiment, i famosi «Buffalo Soldiers» a maggioranza afroamericana, si erano acquartierati nei giorni precedenti al Natale, ritenendo le ostilità in pausa. L’effetto sorpresa era proprio il punto cardine dell’operazione pianificata dal comando tedesco guidato dal generale Otto Fretter-Pico. Le forze dell’Asse consistevano sostanzialmente di reparti da montagna, i «Gebirgsjaeger» tedeschi e gli alpini italiani della Divisione «Monterosa», uno dei primi reparti addestrati in Germania dopo la nascita della Repubblica Sociale. L’attacco fu fissato per la mezzanotte, tra il 25 e il 26 dicembre e procedette speditamente. I reparti speciali tedeschi e gli alpini iniziarono una manovra di accerchiamento da Montebono per Bobbio, Tiglio e Pian di Coreglia, mentre un reparto leggero prendeva in poche ore Sommocolonia. Contemporaneamente tutti i reparti si muovono, compreso un nucleo del Battaglione «San Marco», che in poco tempo occupava Molazzana. Entro la sera di Santo Stefano la linea dei Buffalo Soldiers era sfondata, mentre i reparti americani arretravano in massa. I prigionieri erano circa 250, mentre numerose armi e munizioni venivano requisite. Anche vettovaglie e generi di conforto cadevano nelle mani degli attaccanti.
Gli americani praticamente non reagirono, ma si spostarono in massa verso la linea difensiva di Bagni di Lucca. Per un breve tempo sembrò (soprattutto agli italiani, mentre i tedeschi sembravano paghi della riuscita sorpresa) che il fronte potesse cedere fino in Versilia e verso Livorno. L’ordine di Fretter-Pico di arrestare l’avanzata fu una doccia fredda. Le ragioni dell'arresto risiedevano principalmente nella difficoltà di mantenere le posizioni, la scarsità ormai cronica di uomini e munizioni (c’era solo l’artiglieria, nessun carro armato e soprattutto nessun supporto dall’Aviazione, praticamente sparita dai cieli del Nord Italia). Gli americani invece avevano il dominio assoluto del cielo, con i cacciabombardieri che potevano decollare dai vicini aeroporti della Toscana occupata, come quelli di Grosseto e Rosignano. Tra il 27 e il 30 dicembre 1944 i P-47 Thunderbolt dell’Usaf bombardarono a tappeto, mietendo vittime soprattutto tra la popolazione civile. La linea difensiva dell’Asse ritornò nei giorni successivi alle posizioni di partenza, mentre il fronte si assestava fino all’inizio del febbraio 1945 quando gli alleati lanciarono l’operazione «Fourth Term», che portò in pochi giorni alla conquista della Garfagnana. Durante l’operazione «Wintergewitter» lo scontro più violento si verificò nell’abitato di Sommocolonia dove la guarnigione americana perse quasi tutti gli uomini, compreso il proprio comandante tenente John R. Fox che, vistosi ormai circondato dai tedeschi, chiese all’artiglieria della 92ª di sparare sull’abitato nel tentativo disperato di rallentare l’attacco a sorpresa. Morì sotto le macerie della sua postazione e solamente nel 1997 fu insignito della medaglia d’onore.
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Lee Raybon avrebbe ambizioni da detective. Non da investigatore tout court. Piuttosto, vorrebbe essere un reporter, di quelli capaci - forti solo delle proprie risorse - di portare a termine indagini e inchieste, di dar forma alle notizie prima ancora che queste vengano diffuse dalle autorità competenti.
L'ambizione, tuttavia, è rimasta tale, nel corso di un'esistenza che ha costretto Raybon a ripiegare su altro per il mero sostentamento. Si è reinventato libraio, Lee Raybon, gestendo di giorno un negozio di libri rari. La notte, però, ha continuato a seguire il cuore, dando spazio alle sue indagini scalcagnate. Qualcuna è riuscito a trasformarla in articolo di giornale, venendola alle pagine di cronaca locale di Tulsa, città che ospita il racconto. E sono i pezzi ritagliati, insieme ai libri ormai giallognoli, ad affollare l'apportamento di Raybon, che la moglie ha mollato su due piedi, quando ben ha realizzato che non ci sarebbe stato spazio per altro nella vita di quell'uomo. Raybon, dunque, è rimasto solo. Non solo come il crime, per lo più, ha raccontato i suoi detective. Non è, cioè, una solitudine disperata, quella di Raybon. Non c'è tristezza né emarginazione. C'è passione, invece: quella per un mestiere cui anche la figlia dell'uomo sembra guardare con grande interesse.
Francis, benché quattordicenne, ha sviluppato per il secondo mestiere del padre una curiosità quasi morbosa, in nome della quale ha cominciato a seguirlo in ogni dove, partecipando lei pure alle indagini. Cosa, questa, che si ostina a fare anche quando la situazione diventa insolitamente complicata. Lee Raybon ha messo nel mirino i Washberg, una tra le famiglie più potenti di Tulsa. Ma uno di loro, Dale, si è tolto la vita, quando l'articolo di Raybon sulle faccende losche della dinastia è stato pubblicato su carta. Perché, però? Quali segreti nascondo i Washberg? Le domande muovono la nuova indagine di Raybon, la sostanziano. E, attorno alla ricerca di risposte, si dipana The Lowdon, riuscendo a bilanciare l'irrequietezza del suo protagonista, il suo cinismo, con il racconto di una dinamica familiare di solito estranea al genere crime.
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