2020-07-24
Tra Washington e Pechino è caccia agli 007
Prima la rappresentanza in Texas chiusa perché «un covo di spie», poi una ricercatrice cinese accusata di rubare segreti barricata nel consolato di San Francisco. Il Dragone è pronto alle ritorsioni: nel mirino i centri diplomatici americani a Wuhan e Hong KongLa commissione Esteri ha voluto notizie sui dossier anti Trump montati dagli obamianiLo speciale contiene due articoliÈ un clima sempre più rovente quello che si registra nelle relazioni tra Washington e Pechino. Tang Juan, la biologia cinese che -per ottenere il visto americano- aveva mentito all'Fbi sulla propria affiliazione all'esercito della Repubblica Popolare, si sarebbe rifugiata nel consolato cinese di San Francisco. Stando a quanto riportato dal sito di Cnbc, la donna aveva ricevuto lo scorso autunno un visto per condurre ricerche presso l'Università della California. L'Fbi reperì tuttavia sul Web alcune sue foto in uniforme militare e la interrogò per questo il 20 giugno. In quell'occasione, la ricercatrice negò collegamenti alle forze armate cinesi e affermò di non essere un membro del Partito comunista. Il 26 giugno, il governo americano formalizzò tuttavia un'accusa per frode sui visti. Secondo quanto depositato dai procuratori federali lunedì scorso, «l'Fbi ritiene che, a un certo punto in seguito alla ricerca e all'interrogatorio di Tang del 20 giugno 2020, Tang si sia recata al consolato cinese a San Francisco, dove l'Fbi ha accertato che è rimasta». Nella loro indagine, i procuratori stanno cercando di dimostrare che anche altri ricercatori cinesi legati all'esercito della Repubblica Popolare si trovino attualmente negli Stati Uniti. «Il caso dell'imputata non è un caso isolato, ma sembra invece far parte di un programma condotto dall'Esercito popolare di liberazione […] per inviare scienziati militari negli Stati Uniti sulla base di falsi pretesti con false coperture o false dichiarazioni sul loro vero impiego», hanno scritto i procuratori. «Esistono prove in almeno uno di questi casi di uno scienziato militare che copia o ruba informazioni dalle istituzioni americane sotto la direzione di superiori militari in Cina». Tutto questo, sebbene l'avvocato Minyao Wang abbia definito ad Axios «estremamente insolito» che una struttura diplomatica cinese protegga un imputato in un procedimento penale. Come che sia, la notizia relativa a Tang Juan è arrivata poche ore dopo il forte scontro diplomatico esploso a causa della «questione Houston». Mercoledì scorso, il Dipartimento di Stato ha ordinato la chiusura del consolato cinese della città texana, accusandolo di «massicce attività di spionaggio illegale». Più o meno nelle stesse ore, i funzionari della struttura diplomatica avrebbero dato fuoco a diversi documenti, come mostrerebbero alcuni video sui social. La mossa americana ha innescato la reazione durissima di Pechino, che ha intimato a Washington di fare marcia indietro, minacciando delle ritorsioni e parlando di «grave sabotaggio» da parte degli americani. Non solo: nella stessa giornata di mercoledì, la portavoce del ministero degli Esteri cinese, Hua Chunying, ha dichiarato che l'ambasciata cinese a Washington avrebbe ricevuto minacce di morte e un pacco bomba «come risultato dell'oltraggio e del disprezzo fomentati dal governo degli Stati Uniti». Il South China Morning Post ha riferito che -come ritorsione- la Repubblica Popolare potrebbe presto chiudere il consolato americano di Chengdu, mentre -secondo Reuters- a finire nel mirino potrebbe essere il consolato di Wuhan. Il Global Times - organo del Partito comunista cinese - ha invece suggerito di intervenire contro il consolato di Hong Kong (considerato un «centro spionistico»), chiudendolo o decretandone la riduzione del personale. Questa grave crisi diplomatica si inserisce in un quadro già abbastanza tumultuoso. Nelle ultime settimane, tensioni si sono registrate, dopo che Washington ha definito «illegali» le pretese accampate da Pechino su gran parte del Mar cinese meridionale. Il segretario di Stato americano, Mike Pompeo, ha inoltre spinto il Regno Unito ad entrare in una «vasta alleanza» contro la Repubblica Popolare in riferimento alla questione dello Xinjiang, lodando inoltre Londra per la linea dura recentemente adottata in materia di 5G. Tutto questo, mentre mercoledì scorso, il capo del Dipartimento di Stato americano ha esortato l'India a ridurre la propria dipendenza dalla Cina sul fronte delle telecomunicazioni e delle forniture mediche. Senza poi dimenticare che, tre giorni fa, il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha incriminato due hacker cinesi, con l'accusa di aver messo nel mirino aziende americane impegnate nella ricerca del vaccino per il coronavirus. Tra l'altro, proprio sulla questione dello Xinjiang, Washington ha recentemente comminato delle sanzioni a Pechino, la quale -per ripicca- ha colpito con proprie sanzioni i senatori repubblicani Ted Cruz e Marco Rubio. Questa escalation è (in parte) spiegabile attraverso le dinamiche della campagna elettorale in vista delle presidenziali americane del 2020. Donald Trump e Joe Biden si stanno da mesi accusando reciprocamente di eccessiva arrendevolezza verso la Cina. L'inquilino della Casa Bianca punta quindi a due obiettivi: contenere la Cina sul piano geopolitico-commerciale e mettere i democratici alle strette. Quei democratici che, nonostante una retorica battagliera sui diritti umani, non è che finora abbiano fatto granché nel contrasto a Pechino. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/tra-washington-e-pechino-e-caccia-agli-007-2646655890.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="la-verita-ascoltata-alla-camera-dopo-i-nostri-articoli-sul-russiagate" data-post-id="2646655890" data-published-at="1595526529" data-use-pagination="False"> «La Verità» ascoltata alla Camera dopo i nostri articoli sul Russiagate Russiagate e interferenze cinesi in Occidente. È su questo che, ieri mattina, La Verità è stata audita dalla commissione Esteri della Camera dei deputati. La sessione, presieduta dal vicepresidente della commissione Piero Fassino, si è svolta nell'ambito dell'indagine conoscitiva sulle eventuali interferenze straniere sul sistema di relazioni internazionali della Repubblica italiana. Nel corso della seduta, chi vi scrive ha affrontato la questione del Russiagate statunitense sotto tre punti di vista: le conseguenze che questo dossier sta continuando a determinare nella politica interna americana, le sue connessioni con l'Italia e infine i suoi risvolti nel quadro dei rapporti geopolitici tra Stati Uniti, Russia e Cina. Ad essere analizzati sono stati innanzitutto i risultati del rapporto del procuratore speciale, Robert Mueller: rapporto che, se da una parte ha reperito evidenze di una interferenza russa nella campagna elettorale americana del 2016 tramite social network e WikiLeaks, dall'altra non è stato tuttavia in grado di individuare prove di una collusione tra il comitato di Trump e il Cremlino. È stato poi sottolineato come sia di dubbia fondatezza la tesi, secondo cui senza l'interferenza russa sul Web l'allora candidato repubblicano non sarebbe riuscito a conquistare la Casa Bianca. È stato a tal proposito citato uno studio del politologo, Brendan Nyhan, in cui si evidenzia come - nella campagna elettorale del 2016 - la fruizione di fakeews fu quantitativamente ridotta e come quelle stesse fake news non siano riuscite a spostare voti, limitandosi a rafforzare opinioni politiche pregresse. Chi vi scrive è successivamente passato a esaminare la «controffensiva» che Trump sta conducendo sul Russiagate. Una controffensiva che si sta muovendo su due piani: l'inchiesta del procuratore John Durham e la pubblicazione di documenti recentemente desecretati. È in questo contesto che emergono i punti di contatto con l'Italia. Da una parte, c'è infatti il controverso incontro romano tra George Papadopoulos e il professor Joseph Mifsud, avvenuto nel marzo 2016 (una vicenda di cui La Verità si è occupata dettagliatamente). Dall'altra parte, è comparso il nome dell'allora ambasciatore americano in Italia, John Phillips, nella lista - desecretata lo scorso maggio - dei funzionari dell'amministrazione Obama che - nel periodo della transizione presidenziale - inoltrarono richiesta per svelare il nome di Michael Flynn (all'epoca stretto consigliere di Trump) nelle intercettazioni in cui risultava coinvolto. L'audizione si è conclusa con una panoramica sulle interferenze cinesi nella politica americana ed europea. In particolare, il cronista ha ricordato le recenti parole del direttore dell'Fbi, Christopher Wray, che ha denunciato una «influenza maligna» della Cina, volta a «distorcere» il dibattito pubblico statunitense. È quindi alla luce di questo serrato confronto con Pechino che la Casa Bianca sta cercando una distensione con Mosca: l'obiettivo è infatti quello di sganciare il Cremlino dall'orbita cinese (come testimoniato dalla proposta, avanzata da Trump, di un G11 che, oltre alla Russia, includa anche Corea del Sud, India e Australia). Nel corso della seduta, Fassino ha sottolineato la gravità delle interferenze estere (soprattutto russe e cinesi) nelle democrazie occidentali. I deputati della Lega, Paolo Formentini, Vito Comencini e Matteo Bianchi hanno invece ribadito la necessità di un ancoraggio atlantico per l'Italia, soprattutto davanti alle preoccupanti problematiche di una crescente influenza cinese.
Jose Mourinho (Getty Images)