2019-05-12
Tra ministri e governatori leghisti c’è voglia di stracciare il contratto
Sull'immigrazione e sull'autonomia il Carroccio non transige, anche se il ministro dell'Interno proverà fino all'ultimo a proseguire con questa maggioranza. La linea dura piace soprattutto ai capi di Regione.All'altro capo del telefono, la voce dell'esponente governativo leghista è calma, ma le frasi sono più esplicite che mai: «L'ultima parola sulla rottura o no sarà ovviamente di Matteo. Negli ultimi mesi abbiamo sopportato di tutto: sulla Tav, sul reddito di cittadinanza, sul linciaggio di Armando Siri, pure le conferenze stampa grilline da sciacalli sulla giustizia… Ma ci sono due cose su cui è impossibile per noi far finta di niente: se vogliono farci diventare spettatori di un'altra ondata di sbarchi, e se vogliono prenderci in giro sull'autonomia».Inutile girarci intorno: il redde rationem è vicinissimo. Ed è altrettanto chiaro che non poteva essere la sorte di un singolo sottosegretario, nonostante l'indubbia solidarietà di Matteo Salvini verso Armando Siri, il colpo di pistola a Sarajevo. Ma su immigrazione e autonomia si entra in una zona rossa dove vengono messe in causa le ragioni stesse del consenso leghista e della personale credibilità di Salvini. Sul lato dell'immigrazione, non va sottovalutata la frase di ieri del leader leghista su «chi rimpiange i porti aperti». Il punto è proprio quello, prim'ancora delle cifre diffuse dal Viminale (dal 1° gennaio a oggi sono sbarcate 1.009 persone contro le 9.959 dello stesso periodo di un anno fa). Anche al di là dei numeri, tutta l'attività di Salvini ha avuto l'obiettivo di dimostrare che l'Italia non è più il ventre molle d'Europa e il campo profughi del Mediterraneo. Più ancora delle statistiche, conta l'effetto psicologico creato rispetto alle navi Ong (che infatti ora scelgono per lo più altre destinazioni) e ai trafficanti di esseri umani. Se adesso i grillini vogliono compromettere questo lavoro e ridare il segnale sbagliato, proprio mentre sta arrivando il bel tempo e si apre la stagione estiva, quella più adatta al via-vai delle imbarcazioni, tutto si può chiedere a Salvini tranne che di partecipare all'umiliazione del suo lavoro. Discorso altrettanto delicato sul fronte dell'autonomia. Il ministro Erika Stefani ha svolto un lavoro accurato, Salvini non ha mai forzato la mano sui tempi, e la delegazione leghista ha anche accettato l'idea di un passaggio parlamentare (i cui termini non devono però tradursi nell'impallinamento delle intese Stato-Regioni a suon di emendamenti). Peraltro, va ricordato che si tratta di un provvedimento moderatissimo: ben lontano dal federalismo fiscale, punta solo a fare chiarezza sulle competenze concorrenti, cioè quelle che ballano tra Stato e Regioni creando confusione. Se però diventasse chiaro che i 5 stelle mirano a un percorso infinito e sfibrante, le ripercussioni in casa leghista sarebbero insostenibili, anche considerando l'esposizione personale su questa battaglia di presidenti di Regione come Attilio Fontana, Massimiliano Fedriga e Luca Zaia. Proprio a proposito del Veneto, non sfugge a nessuno un lavorio mediatico incessante. Ieri il Corriere della Sera, scatenato contro Salvini su tutti i dossier, ospitava un paginone lirico su Franco Rocchetta e la Liga Veneta delle origini, contrapposta alla Lega di oggi. Agli osservatori più attenti il gioco appare chiaro: arrivare a una situazione insostenibile sull'autonomia per tentare di creare un attrito tra Salvini e Zaia, e - chissà - un sommovimento nel Veneto leghista, una qualche dialettica, se non un'improbabile differenziazione formale come quella che distingue in Germania la Csu bavarese dalla Cdu. L'altra operazione mediatica è perfino sfacciata, e riguarda i sondaggi. Per settimane, la Lega è stata registrata da tutti gli istituti a livelli stellari. Poi, improvvisamente, si è dato ampio spazio a veri o presunti trend negativi, come se i «giornaloni» avessero già pronto, il 27 mattina, il titolo «La Lega non sfonda», nonostante un possibile risultato clamoroso, non lontano dal raddoppio dei voti del 4 marzo. Salvini tutto questo lo sa bene, a maggior ragione in vista del Congresso leghista che potrebbe tenersi a luglio. Sa anche di essere quasi l'unico nel suo partito disposto a concedere un'altra chance all'intesa con M5s. Fosse per il grosso dei suoi ministri, dei suoi presidenti di Regione, dei suoi parlamentari, l'esito sarebbe quello di Assassinio sull'Orient Express di Agatha Christie: non soltanto uno, ma ognuno di loro avrebbe - anzi: ha già - una buona ragione per la vendetta, e quindi per rompere con i 5 stelle e con un Giuseppe Conte che non ha più nulla dell'arbitro o del mediatore. Restano dunque due scenari. Il primo è il più grave: se la provocazione grillina sul decreto sicurezza bis giungesse subito alle estreme conseguenze, verrebbe giù tutto immediatamente. Il vantaggio di questo scenario è legato al calendario. Poiché la legge impone – per le politiche – un minimo di 45 giorni di campagna elettorale, prima si induce il capo dello Stato a sciogliere le Camere e più la via delle elezioni anticipate diventa realistica. Se invece si va troppo per le lunghe, diventa impervio ipotizzare un voto a fine luglio o ad agosto, con alcuni milioni di italiani già in ferie.Il secondo scenario è quello più realistico: nonostante i colpi sotto la cintura di questi giorni, la Lega ottiene comunque un risultato importantissimo il 26 maggio. A quel punto, subito dopo, Salvini mette sul tavolo le carte per una rinegoziazione dell'alleanza, non chiedendo tre ministeri, ma tre provvedimenti da approvare in tempi record: su immigrazione, flat tax e autonomia. Prendere o lasciare, ma con un potere contrattuale leghista enormemente aumentato, a quel punto.
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Charlie Kirk (Getty Images)