2021-01-06
Tocca a Mattarella fermare la banda degli incapaci
Sergio Mattarella (ansa/iStock)
Non ci voleva molto a capire che la scuola non avrebbe riaperto il 7 gennaio, come invece il governo aveva assicurato. Per comprendere che la Befana non si sarebbe portata via le lezioni a distanza era infatti sufficiente ascoltare le testimonianze di alcuni presidi, i quali, nonostante le rassicurazioni della ministra Azzolina, si dimostravano piuttosto scettici sulla data del rientro in classe. Roberto Garroni, dirigente del più grande liceo di Milano, 1.800 studenti, appena tre giorni fa aveva manifestato tutte le sue preoccupazioni, dicendo che si rischiava di non arrivare a fine gennaio e di dover richiudere tutto a causa dei contagi. «Il piano c'è: tutte le 78 classi faranno un giorno in presenza e uno online. Ma il mio timore è di finire come prima delle vacanze, quando avevamo dieci classi in quarantena». Duecentoquaranta ragazzi a rischio Covid in un solo istituto, per quanto grande, nonostante un inizio a singhiozzo delle lezioni, non sono pochi e contraddicono la narrazione governativa, secondo cui le scuole non sono fonte di contagi. Perplessa anche la preside del liceo Mamiani della capitale, Tiziana Sallusti, firmataria di una dura lettera all'ufficio scolastico del Lazio. Per la dirigente è mancata una progettazione che consenta il successo scolastico e le rassicurazioni sui trasporti sono tutte da dimostrare. Tradotto: «vogliamo aprire, non vediamo l'ora, però ci sono ancora molte incognite». Luisa Peluso, a capo del liceo scientifico di Napoli e presidente dell'associazione cittadina dei presidi, appena tre giorni fa aveva manifestato gli stessi dubbi dei colleghi, chiedendo che i dirigenti scolastici fossero ascoltati ai tavoli della prefettura. Già, i prefetti, ossia i rappresentanti del governo cui, dopo il flop di settembre, Giuseppe Conte aveva demandato la riorganizzazione dei trasporti in vista della riapertura delle scuole e la soluzione dei problemi dei singoli istituti. La realtà e che i funzionari ministeriali poco o nulla hanno potuto fare in assenza di direttive e, soprattutto, di soldi. Perché a Roma si fa in fretta a promettere e a organizzare una conferenza stampa in cui si annuncia la rivoluzione degli scuolabus, ma poi i fondi bisogna trovarli e i contratti con le aziende private che fanno servizio di navetta bisogna firmarli. La realtà è che alla fine, nonostante gli annunci e la pausa natalizia, dalle testimonianze dei presidi si capisce che la scuola sta messa esattamente come prima dello stop. Anzi, forse sta messa peggio, perché a dicembre per lo meno i capi degli istituti erano riusciti a barcamenarsi, fra lezioni a distanza e assenze. Ma adesso, con i tanti insegnanti che sono tornati al Sud prima del blocco e ancora non si sa se rientreranno, e con le idee poco chiare sul ritorno in aula, la confusione regna sovrana. «Il calendario mutante è un delirio», ha spiegato in un'intervista Domenico Squillante, preside del Volta, uno dei più prestigiosi licei scientifici di Milano. «Rischiamo di aprire e poi chiudere fino a Pasqua», aveva detto pochi giorni fa. Timore rientrato, perché a due giorni dall'inizio delle lezioni si è capito che prima di metà gennaio non si ricomincerà e al momento si tratta di una previsione ottimistica, in quanto l'orizzonte del ritorno a scuola rischia di allontanarsi ancora di più.Che la situazione sia fuori controllo è risultato evidente quando i governatori hanno scelto di adottare misure più restrittive di quelle decise dal governo, rinviando in qualche caso le lezioni in presenza a data da destinarsi. E a chi attribuire questo caos? Beh, di certo le responsabilità vanno ripartite equamente, fra chi ha perso tempo con i banchi a rotelle senza capire che il problema non si risolve adottando un arredamento semovente o trasformando i tavoli in carriole, e chi pur avendo la responsabilità di organizzare turni e trasporti si è semplicemente occupato d'altro, forse di conservare la poltrona, forse impegnandosi in una verifica che sembra non finire mai. Cioè, per fare nomi e cognomi, le colpe sono del noto flop manager Domenico Arcuri, uno che si crede Superman e passa dall'acciaio di Stato ai vaccini con la stessa incapacità, ma anche di Lucia Azzolina, ministro della distruzione pubblica, e Paola De Micheli, responsabile dei trasporti, la quale avrebbe approntato un modello organizzativo che non tiene conto della dimensione sanitaria, «perché è impossibile sapere come il virus si diffonde su pullman e bus». In pratica, a quasi un anno dall'inizio della pandemia, e dopo 8 mesi di lezioni a singhiozzo, siamo ancora al punto di partenza. Qualcuno si chiede quando tornerà a suonare la campanella. Ma forse farebbe meglio a interrogarsi su quando l'arbitro, cioè Mattarella, si deciderà a fischiare il fine partita per una banda di ministri per caso.
Gli abissi del Mar dei Caraibi lo hanno cullato per più di tre secoli, da quell’8 giugno del 1708, quando il galeone spagnolo «San José» sparì tra i flutti in pochi minuti.
Il suo relitto racchiude -secondo la storia e la cronaca- il più prezioso dei tesori in fondo al mare, tanto che negli anni il galeone si è meritato l’appellativo di «Sacro Graal dei relitti». Nel 2015, dopo decenni di ipotesi, leggende e tentativi di localizzazione partiti nel 1981, è stato individuato a circa 16 miglia nautiche (circa 30 km.) dalle coste colombiane di Cartagena ad una profondità di circa 600 metri. Nella sua stiva, oro argento e smeraldi che tre secoli fa il veliero da guerra e da trasporto avrebbe dovuto portare in Patria. Il tesoro, che ha generato una contesa tra Colombia e Spagna, ammonterebbe a svariati miliardi di dollari.
La fine del «San José» si inquadra storicamente durante la guerra di Successione spagnola, che vide fronteggiarsi Francia e Spagna da una parte e Inghilterra, Olanda e Austria dall’altra. Un conflitto per il predominio sul mondo, compreso il Nuovo continente da cui proveniva la ricchezza che aveva fatto della Spagna la più grande delle potenze. Il «San José» faceva parte di quell’Invencible Armada che dominò i mari per secoli, armato con 64 bocche da fuoco per una lunghezza dello scafo di circa 50 metri. Varato nel 1696, nel giugno del 1708 si trovava inquadrato nella «Flotta spagnola del tesoro» a Portobelo, odierna Panama. Dopo il carico di beni preziosi, avrebbe dovuto raggiungere Cuba dove una scorta francese l’attendeva per il viaggio di ritorno in Spagna, passando per Cartagena. Nello stesso periodo la flotta britannica preparò un’incursione nei Caraibi, con 4 navi da guerra al comando dell’ammiraglio Charles Wager. Si appostò alle isole Rosario, un piccolo arcipelago poco distanti dalle coste di Cartagena, coperte dalla penisola di Barù. Gli spagnoli durante le ricognizioni si accorsero della presenza del nemico, tuttavia avevano necessità di salpare dal porto di Cartagena per raggiungere rapidamente L’Avana a causa dell’avvicinarsi della stagione degli uragani. Così il comandante del «San José» José Fernandez de Santillàn decise di levare le ancore la mattina dell’8 giugno. Poco dopo la partenza le navi spagnole furono intercettate dai galeoni della Royal Navy a poca distanza da Barù, dove iniziò l’inseguimento. Il «San José» fu raggiunto dalla «Expedition», la nave ammiraglia dove si trovava il comandante della spedizione Wager. Seguì un cannoneggiamento ravvicinato dove gli inglesi ebbero la meglio sul galeone colmo di merce preziosa. Una cannonata colpì in pieno la santabarbara, la polveriera del galeone spagnolo che si incendiò venendo inghiottito dai flutti in pochi minuti. Solo una dozzina di marinai si salvarono, su un equipaggio di 600 uomini. L’ammiraglio britannico, la cui azione sarà ricordata come l’«Azione di Wager» non fu tuttavia in grado di recuperare il tesoro della nave nemica, che per tre secoli dormirà sul fondo del Mare dei Caraibi .
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