
Il «Lucanus cervus» è un coleottero affascinante. Lo immagino combattere contro i suoi avversari maschi, svolazzare di notte al chiaro di luna per poi atterrare su un albero e corteggiare qualche esemplare femmina.Uno degli insetti più ammirati e ricercati dai bambini affascinati dalle bestie diverse della natura, quantomeno alle nostre latitudini, è un coleottero bombato, dalla corazza luccicosa e amaranto, e un paio di corna sulla testa: il cervo volante. I coleotteri fanno di per sé simpatia, non debbono scontare lo spavento e la pessima opinione comune che hanno ad esempio i ragni, gli scorpioni o i serpenti. Al mondo, ad oggi, sono conosciute circa 350.000 specie di coleotteri, gli entomologi dicono coleoptera; un ordine composto da 24 superfamiglie e 235 famiglie. I più grandi appartengono alla specie dello Scarabeo Titano, un nome oserei dire clamoroso, un cerambide che raggiunge i 17 cm di lunghezza, vive nelle foreste del Sudamerica, tra Venezuela e Brasile; i più pesanti invece sono gli Scarabeo Golia, possono raggiungere i 10-11 cm di lunghezza e i 100 grammi di peso; alcuni esemplari di questi insetti possono addirittura vivere fino a vent’anni.In Europa si sono contate 8.000 specie di coleotteri, di queste il più grande è proprio l’oggetto del nostro quotidiano «desir»: il cervo volante o Lacanus cervus. In estate può capitare di vederne alcuni in volo, i maschi sono riconoscibili anzitutto per le due corna a tenaglia che indossano in cima alla testa, con quel colore inconfondibile, amaranto, che connota anche la pigmentazione delle elitre, scocche rinforzate che ricoprono le ali ed il corpo; le ali stanno sotto le elitre, ben protette, hanno una colorazione giallo trasparente e si vedono soltanto quando l’insetto è in volo. Le mandibole sono lievemente seghettate all’esterno, e presentano diversi denti all’interno, per migliorare la presa. Tutti prima o poi li abbiamo visti lottare tra loro, spingendosi e stringendosi con queste tenaglie, fino a che il più forte rovescia l’altro. Le femmine invece sono piccole, senza corna. I cervi volanti abitano nei boschi, le larve si nutrono di legno marcescente, ragion per cui si trovano nelle selve dove il legno morto non viene sistematicamente rimosso. Preferiscono alberi quali la quercia, il faggio, il pioppo e il tiglio. Gli adulti invece si nutrono di frutta, linfa e nettare dei fiori. Un cervo volante può vivere, attraverso le sue diverse fasi, fino a dieci anni.Ma oltre i dati meramente biologici e scientifici, le misure, i comportamenti standard, che cosa rappresenta un cervo volante? Che cosa lo rende così affascinante? Così misterioso e minaccioso anche? Ad averlo lì, vigile, in piedi su un sasso, con le sue belle corna sviluppate che ti puntano, e vibrano per avvertirti delle sue eventuali possibilità? Occhio né, cosa ti credi di potermi fare? Non ci vengo mica nel tuo secchiello, nel tuo stupido barattolo di vetro, hai capito? Sono libero e libero resterò…Da bambino ne incontravo molti, ora meno, ma d’altronde sappiamo che tra queste due diverse epoche della nostra contemporaneità, tra questi quarant’anni di distanza, al mondo la vita per così dire selvatica si è ridotta dei due terzi, a seconda delle specie e ovviamente del paesaggio di riferimento. Dal 50 al 75 per cento in meno, in questo ridicolo lasso di tempo. Nel mentre la popolazione umana è passata dai 4 miliardi e 7 milioni agli oltre 8 miliardi attuali. Se socchiudo gli occhi e penso ad un cervo volante vedo una notte scura, vedo il fogliame dei castagni e delle querce che oscilla sotto il blando lucore di una luna crescente, vedo un sentiero e vedo un grosso albero mezzo cavo, con un’enorme bocca nera che attende senza espressione. Prima sento il rumore, quel ronzio profondo, un fruscio ripetuto da decine di mani rugose che si strofinano con vigore. Poi lo vedo, nel semibuio che avanza, inclinato, appesantito, le ali estroflesse e la testa spinta in avanti per raggiungere il ramo su cui posarsi: eccolo, un grosso robusto esemplare maschio di cervo volante. Il suo volo si esaurisce sulla branca primaria d’una farnia, albero secolare, il vegliardo di quest’area di bosco in pianura. Nei pressi scorre un fiume, lo si sente vociare, forse nei giorni scorsi ha piovuto, o ha piovuto su, nelle valli di montagna, da dove discende tutta la sua acqua ruminosa, la sua agitazione liquida. Le lunghe radici della quercia percepiscono tanta abbondanza e ne approfittano, gioendo fino alle foglie che decorano la cima lassù, alle fronde più svettanti.Due femmine della sua specie riposano sul grosso tronco affossato, e così lui, il maschio cercatore, il cervo dalle lunghe corna ossute, dopo uno sguardo a destra e uno sguardo a sinistra, e un secondo sguardo a destra e un secondo sguardo a sinistra, inizia la sua parata orgogliosa, alzando la testa, procedendo impettito, un vescovo la domenica delle palme alla messa grande. Avanti e indietro, le due femmine restano a guardarlo, ogni tanto si girano, quasi scocciate. O forse setacciando l’intorno per capire se vi siano in circolazione altri maschi interessanti. Alla fine una delle due fa un passo verso il grande attore, consentendogli oltremodo di abbassarsi e terminare la parata. Bene, pensa il cervo volante, tutta questo esercizio è pur servito a qualcosa. Quel che accade in seguito resta confinato alla loro intimità insettiva, si dica mai che su queste pagine si proponga della facile pornografia specista. La seconda coleottera si arrampica per qualche decimetro sul tronco della quercia e alla fine se ne vola via, altri lidi, altri intrattenimenti. Sentiamo per qualche istante il ronzio del suo volo e poi alla fine solamente l’albero, solamente le foglie che oscillano impercettibilmente, solamente il bosco che respira e la notte che si compie. Toccherà cercare il tronco di un vecchio albero morto, per depositare una nuova generazione di larve che tra diversi anni porterà ad altri cervi volanti maschi esibizionisti e alle relative quanto impassibili femmine osservatrici.Forse li vedranno ancora questi occhi, lievemente ingialliti, oppure saranno gli occhi di un figlio, o più facilmente di un nipote, di un discendente umano che tenterà di decifrare i movimenti della natura naturante, la madre generosa che si definisce giorno dopo giorno, nel suo mutare, nel suo evoluzionare, nel suo perire e rinascere, interminabile.
Daniela Palazzoli, ritratto di Alberto Burri
Scomparsa il 12 ottobre scorso, allieva di Anna Maria Brizio e direttrice di Brera negli anni Ottanta, fu tra le prime a riconoscere nella fotografia un linguaggio artistico maturo. Tra mostre, riviste e didattica, costruì un pensiero critico fondato sul dialogo e sull’intelligenza delle immagini. L’eredità oggi vive anche nel lavoro del figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e presidente Angamc.
C’è una frase che Daniela Palazzoli amava ripetere: «Una mostra ha un senso che dura nel tempo, che crea adepti, un interesse, un pubblico. Alla base c’è una stima reciproca. Senza quella non esiste una mostra.» È una dichiarazione semplice, ma racchiude l’essenza di un pensiero critico e curatoriale che, dagli anni Sessanta fino ai primi Duemila, ha inciso profondamente nel modo italiano di intendere l’arte.
Scomparsa il 12 ottobre del 2025, storica dell’arte, curatrice, teorica, docente e direttrice dell’Accademia di Brera, Palazzoli è stata una figura-chiave dell’avanguardia critica italiana, capace di dare alla fotografia la dignità di linguaggio artistico autonomo quando ancora era relegata al margine dei musei e delle accademie. Una donna che ha attraversato cinquant’anni di arte contemporanea costruendo ponti tra discipline, artisti, generazioni, in un continuo esercizio di intelligenza e di visione.
Le origini: l’arte come destino di famiglia
Nata a Milano nel 1940, Daniela Palazzoli cresce in un ambiente dove l’arte non è un accidente, ma un linguaggio quotidiano. Suo padre, Peppino Palazzoli, fondatore nel 1957 della Galleria Blu, è uno dei galleristi che più precocemente hanno colto la portata delle avanguardie storiche e del nuovo informale. Da lui eredita la convinzione che l’arte debba essere una forma di pensiero, non di consumo.
Negli anni Cinquanta e Sessanta Milano è un laboratorio di idee. Palazzoli studia Storia dell’arte all’Università degli Studi di Milano con Anna Maria Brizio, allieva di Lionello Venturi, e si laurea su un tema che già rivela la direzione del suo sguardo: il Bauhaus, e il modo in cui la scuola tedesca ha unito arte, design e vita quotidiana. «Mi sembrava un’idea meravigliosa senza rinunciare all’arte», ricordava in un’intervista a Giorgina Bertolino per gli Amici Torinesi dell’Arte Contemporanea.
A ventun anni parte per la Germania per completare le ricerche, si confronta con Walter Gropius (che le scrive cinque lettere personali) e, tornata in Italia, viene notata da Vittorio Gregotti ed Ernesto Rogers, che la invitano a insegnare alla Facoltà di Architettura. A ventitré anni è già docente di Storia dell’Arte, prima donna in un ambiente dominato dagli uomini.
Gli anni torinesi e l’invenzione della mostra come linguaggio
Torino è il primo teatro della sua azione. Nel 1967 cura “Con temp l’azione”, una mostra che coinvolge tre gallerie — Il Punto, Christian Stein, Sperone — e che riunisce artisti come Giovanni Anselmo, Alighiero Boetti, Luciano Fabro, Mario Merz, Michelangelo Pistoletto, Gilberto Zorio. Una generazione che di lì a poco sarebbe stata definita “Arte Povera”.
Quella mostra è una dichiarazione di metodo: Palazzoli non si limita a selezionare opere, ma costruisce relazioni. «Si tratta di individuare gli interlocutori migliori, di convincerli a condividere la tua idea, di renderli complici», dirà più tardi. Con temp l’azione è l’inizio di un modo nuovo di intendere la curatela: non come organizzazione, ma come scrittura di un pensiero condiviso.
Nel 1973 realizza “Combattimento per un’immagine” al Palazzo Reale di Torino, un progetto che segna una svolta nel dibattito sulla fotografia. Accanto a Luigi Carluccio, Palazzoli costruisce un percorso che intreccia Man Ray, Duchamp e la fotografia d’autore, rivendicando per il medium una pari dignità artistica. È in quell’occasione che scrive: «La fotografia è nata adulta», una definizione destinata a diventare emblematica.
L’intelligenza delle immagini
Negli anni Settanta, Palazzoli si muove tra Milano e Torino, tra la curatela e la teoria. Fonda la rivista “BIT” (1967-68), che nel giro di pochi numeri raccoglie attorno a sé voci decisive — tra cui Germano Celant, Tommaso Trini, Gianni Diacono — diventando un laboratorio critico dell’Italia post-1968.
Nel 1972 cura la mostra “I denti del drago” e partecipa alla 36ª Biennale di Venezia, nella sezione Il libro come luogo di ricerca, accanto a Renato Barilli. È una stagione in cui il concetto di opera si allarga al libro, alla rivista, al linguaggio. «Ho sempre pensato che la mostra dovesse essere una forma di comunicazione autonoma», spiegava nel 2007 in Arte e Critica.
La sua riflessione sull’immagine — sviluppata nei volumi Fotografia, cinema, videotape (1976) e Il corpo scoperto. Il nudo in fotografia (1988) — è uno dei primi tentativi italiani di analizzare la fotografia come linguaggio del contemporaneo, non come disciplina ancillare.
Brera e l’impegno pedagogico
Negli anni Ottanta Palazzoli approda all’Accademia di Belle Arti di Brera, dove sarà direttrice dal 1987 al 1992. Introduce un approccio didattico aperto, interdisciplinare, convinta che il compito dell’Accademia non sia formare artisti, ma cittadini consapevoli della funzione dell’immagine nel mondo. In quegli anni l’arte italiana vive la transizione verso la postmodernità: lei ne accompagna i mutamenti con una lucidità mai dogmatica.
Brera, per Palazzoli, è una palestra civile. Nelle sue aule si discute di semiotica, fotografia, comunicazione visiva. È in questo contesto che molti futuri curatori e critici — oggi figure di rilievo nelle istituzioni italiane — trovano nella sua lezione un modello di rigore e libertà.
Il sentimento del Duemila
Dalla fine degli anni Novanta al nuovo secolo, Palazzoli continua a curare mostre di grande respiro: “Il sentimento del 2000. Arte e foto 1960-2000” (Triennale di Milano, 1999), “La Cina. Prospettive d’arte contemporanea” (2005), “India. Arte oggi” (2007). Il suo sguardo si sposta verso Oriente, cogliendo i segni di un mondo globalizzato dove la fotografia diventa linguaggio planetario.
«Mi sono spostata, ho viaggiato e non solo dal punto di vista fisico», diceva. «Sono un viaggiatore e non un turista.» Una definizione che è quasi un manifesto: l’idea del curatore come esploratore di linguaggi e di culture, più che come amministratore dell’esistente.
Il suo ultimo progetto, “Photosequences” (2018), è un omaggio all’immagine in movimento, al rapporto tra sequenza, memoria e percezione.
Pensiero e eredità
Daniela Palazzoli ha lasciato un segno profondo non solo come curatrice, ma come pensatrice dell’arte. Nei suoi scritti e nelle interviste torna spesso il tema della mostra come forma autonoma di comunicazione: non semplice contenitore, ma linguaggio.
«La comprensione dell’arte», scriveva nel 1973 su Data, «nasce solo dalla partecipazione ai suoi problemi e dalla critica ai suoi linguaggi. Essa si fonda su un dialogo personale e sociale che per esistere ha bisogno di strutture che funzionino nella quotidianità e incidano nella vita dei cittadini.»
Era questa la sua idea di critica: un’arte civile, capace di rendere l’arte parte della vita.
L’eredità di una visione
Oggi il suo nome è legato non solo alle mostre e ai saggi, ma anche al Fondo Daniela Palazzoli, custodito allo IUAV di Venezia, che raccoglie oltre 1.500 volumi e documenti di lavoro. Un archivio che restituisce mezzo secolo di riflessione sulla fotografia, sul ruolo dell’immagine nella società, sul legame tra arte e comunicazione.
Ma la sua eredità più viva è forse quella raccolta dal figlio Andrea Sirio Ortolani, gallerista e fondatore di Osart Gallery, che dal 2008 rappresenta uno dei punti di riferimento per la ricerca artistica contemporanea in Italia. Presidente dell’ANGAMC (Associazione Nazionale Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea) dal 2022 , Ortolani prosegue, con spirito diverso ma affine, quella tensione tra sperimentazione e responsabilità che ha animato il percorso della madre.
Conclusione: l’intelligenza come pratica
Nel ricordarla, colpisce la coerenza discreta della sua traiettoria. Palazzoli ha attraversato decenni di trasformazioni mantenendo una postura rara: quella di chi sa pensare senza gridare, di chi considera l’arte un luogo di ricerca e non di potere.
Ha dato spazio a linguaggi considerati “minori”, ha anticipato riflessioni oggi centrali sulla fotografia, sul digitale, sull’immagine come costruzione di senso collettivo. In un paese spesso restio a riconoscere le sue pioniere, Daniela Palazzoli ha aperto strade, lasciando dietro di sé una lezione di metodo e di libertà.
La sua figura rimane come una bussola silenziosa: nel tempo delle immagini totali, lei ci ha insegnato che guardare non basta — bisogna vedere, e vedere è sempre un atto di pensiero.
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