2022-04-20
Anche Tim Vision resta al palo. Scommettere sulla pay tv porta male alle Tlc

Tim Vision, scommettere sulle pay tv porta male alle tlc
La tv a pagamento non porta bene alle società di tlc. Fino ad oggi infatti chi ha provato a vendere connettività via Internet e acquisito diritti per contenuti tv è rimasto scottato. Come accadde a AmericaOnline quando acquisì Time Warner nel 2001. Così sta accadendo anche a Tim che aveva puntato sulle partite di calcio del campionato di serie A per incrementare gli abbonati alla fibra.
L’operazione fortemente voluta dall’ex-ad di Tim, Luigi Gubitosi non ha portato i risultati sperati. Gubitosi ha perso il posto e il subentrante ad Pietro Labriola ha accantonato ben 500 milioni per far fronte alle possibili perdite generate dal contratto stipulato con Dazn che prevede il pagamento di 340 milioni di euro all’anno per avere in esclusiva, sulla piattaforma Tim Vision le parte di campionato.
ESCLUSIVA A METÀ
In realtà si tratta di una esclusiva a metà in quanto tutte le smart Tv, gli smartphone e i tablet in circolazione in Italia possono scaricare direttamente la app di Dazn per vedere le partite. Certo mal si capisce come una società che ha come azionista di maggioranza Vivendi, al 23,9%, che in Francia controlla la maggior tv a pagamento del Paese, Canal Plus, possa aver fatto previsioni sbagliate sui possibili ricavi e sinergie tra Tim e TimVision. Ma voci insistenti dicono che ora Vivendi potrebbe rilevare Tim Vision per una cifra intorno ai 100 milioni di euro. Secondo gli analisti l’interesse di Vivendi per la piattaforma tv, pur considerando la complessità legata ad un’eventuale operazione tra parti correlate, sarebbe credibile.
Vivendi ha già iniziato la marcia di avvicinamento avviando una partnership con TimVision per la migrazione dei suoi contenuti sulla piattaforma CanalPlus che dovrebbe completarsi tra pochi mesi. Ora Vivendi potrebbe prendere, per una cifra stimata bassa, anche se la congruità del prezzo è difficile da stabilire, tutta la piattaforma tv a pagamento che dovrebbe avere, ma i numeri non sono confermati, 1,5 milioni di abbonati. Se così fosse assumendo che il costo del pacchetto base di Tim Vision è di 6,99 euro al mese, il prezzo indicato di 100 milioni corrisponderebbe a un anno di fatturato Tim Vision.
Vivendi si troverebbe proiettata nel mercato italiano della pay tv e potrebbe, tra tre anni, allo scadere del contratto da la Lega Calcio e Dazn, anche concorrere alla gare per i diritti del campionato di calcio, offrendo però ai potenziali abbonati, anche i ricchi contenuti di Canal Plus. Secondo gli analisti comunque il disimpegno di Tim da TimVision avrebbe rilevanza più strategica che finanziaria, visto l’incasso contenuto. Il gestore di tlc infatti potrebbe così focalizzarsi meglio sul suo core business, «rinunciando alla complessa gestione di una piattaforma di distribuzione multicontent, rivelatasi problematica, e affidandosi per le offerte convergenti fibra e contenuti a un player come Vivendi, con un track-record di successo nel segmento paytv».
IL PRECEDENTE DI AOL
Del resto Aol, ossia AmericaOnline, che era il maggior provider di Internet, nel 2001, acquisì Time Warner riportando nel 2002 una perdita di 99 miliardi di dollari, la più grande mai registrata da una società negli Usa. Time Warner, che ora si chiama Warner Media, dopo diverse peripezie venne poi scorporata e proseguì in solitario il suo cammino fino al 2018 quando venne completata la fusione da 85 miliardi di dollari con At&t. Ma anche un gigante delle tlc come At&t di fronte alla fatica di gestione dei contenuti, ha deciso fondere Warner Media con uno specialista del settore, Discovery. E infatti ora la società si chiama Warner Bros. Discovery.
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Xi Jinping (Ansa)
- Bruxelles è pronta ad aumentare gli acquisti di beni Usa per 50 miliardi di euro, ma chiede alla Casa Bianca di levare le tariffe al 10%. Il Dragone apre ai colloqui con gli Stati Uniti e valuta una stretta sui «precursori» utili alla produzione del Fentanyl. Borse in rialzo.
- Il colosso della telefonia Huawei usa i think tank per eludere il (lasco) ostracismo dopo lo scandalo corruzione.
Lo speciale contiene due articoli
Sergio Mattarella (Ansa)
Monito del presidente della Repubblica sul costo della vita e la crisi che mette in difficoltà le famiglie. Una presa di coscienza dalle tempistiche sospette e che non nomina il principale responsabile: l’Unione europea e le sue politiche di austerità.
Il presidente della Repubblica Sergio Mattarella ci sta abituando, soprattutto negli ultimi due anni, in coincidenza con il governo Meloni, ad interventi molto ravvicinati e molto generosi da un punto di vista di contenuto politico. Ieri, visitando a Latina l’azienda Bsp Pharmaceuticals, in occasione della celebrazione della festa del lavoro, ha parlato, anzitutto, di equità per i salari dei migranti e di contrasto al fenomeno scandaloso del caporalato; ha parlato delle famiglie che stentano a causa del costo della vita e dei salari insufficienti; ha parlato, inoltre, dei dazi che possono ostacolare diritto a cure e salute.
Si tratta, ovviamente, molto ovviamente, di problemi reali che abbiamo in Italia, soprattutto il caporalato e gli stipendi bassi, da una venticinquina-trent’anni. La questione dei dazi l’abbiamo avuta anche in altri contesti, ma è più un problema di tipo internazionale. I primi due, viceversa, sono problemi di carattere molto più nazionale e che ci riguardano, come detto, da decenni. Sulla questione dei salari bassi - nell’ultimo ventennio l’Italia è l’unico Paese europeo nel quale sono diminuiti e non aumentati - le cause sono arcinote e non riguardano, in particolare, questo governo che, per la verità, i pochi soldi a disposizione che si è trovato (anche a causa del fardello di debiti lasciato dai bonus edilizi) li ha indirizzati proprio verso una diminuzione del cuneo fiscale per far arrivare un centinaio di euro in più nelle buste paga della fasce di popolazione con redditi più bassi. Ma questo, per il presidente Mattarella, o non conta o non è degno di attenzione. Certo, non sta a lui elogiare il governo ma, in presenza di un’azione del governo volta, sia pure in misura minima, ad aumentare i salari, la coincidenza vuole - per carità senza malizia alcuna - che ne parli proprio ora. Dicevamo che le cause sono note. La prima ce l’ha ricordata Draghi, pochi mesi orsono, intervenendo al Simposio Annuale del Centre for Economic policy Research a Parigi, sostenendo, in modo deciso, che tenere i salari bassi e puntare sull’export non è più sostenibile e che se l’Europa si decidesse ad emettere debito comune potrebbe creare ulteriore spazio fiscale per aumentare i salari ed avere una crescita che ora è inferiore a quanto potrebbe essere. Cosa vuol dire tutto questo? Vuol dire che se un Paese, fortemene indebitato come l’Italia, soprattutto durante i decenni dello scorso secolo che il presidente Mattarella conosce bene, essendo stato deputato dal 1983 al 2008, appartenendo alla «sinistra sociale» della Democrazia cristiana, vuole abbassare le tasse in modo decisivo, come sarebbe necessario per aumentare i redditi dei lavoratori e incrementare i consumi interni, quindi la produzione, quindi l’occupazione, non può farlo perché l’Europa impedisce di fare ulteriore debito per questa finalità. Ha ragione il presidente Mattarella a sottolineare con forza questo problema ma sarebbe stato, a nostro modestissimo, umilissimo, povero e dimesso parere (quasi meschino), forse più opportuno rivolgersi alla necessità che l’Unione, come suggerito, viceversa, dall’elevato, alto e nobile parere di Mario Draghi, cambiasse le sue politiche economiche e consentisse manovre, anche in deficit, per abbassare il costo del lavoro. Occorrerebbe, in altre parole, e riferendosi ad un riformatore del dopoguerra, Ezio Vanoni, certamente ben noto al professor Mattarella, rischiare un abbassamento delle tasse sul lavoro (lui lo fece nel disastrato dopoguerra) nella certezza che questo provocherebbe un aumento del gettito fiscale dovuto all’incremento dei redditi, dei consumi e degli investimenti. Il governo Meloni più di quello che ha fatto non poteva fare, a meno che non rinunciasse agli investimenti in armamenti ma questo, credo, anzi sono certo, non sarebbe stato visto di buon occhio dal Quirinale.
Per quanto riguarda il caporalato, vorrei ricordare che questo governo ha riaperto i flussi migratori che sono uno strumento per evitare il lavoro illegale, in nero e sottopagato. Quando, durante il governo Renzi, fu annunciato che centinaia di migliaia di lavoratori dell’agricoltura sarebbero stati messi in regola, anche contro il caporalato, e la misura fallì l’obiettivo, non ci giunsero notizie dal Colle.
A proposito dei dazi, non v’è chi non veda l’azione diplomatica della premier Meloni che certamente sta svolgendo un ruolo di primo piano nelle varie contese internazionali.
Insomma, non possiamo non notare un cambio di linguaggio e di quantità degli interventi (in aumento), del presidente stesso che, da un linguaggio caratterizzato da una retorica molto istituzionale, un linguaggio ufficiale e formale, è passato a un linguaggio caratterizzato da una retorica più «popolare» e «politica» intervenendo puntualmente e mostrando disaccordo con alcuni interventi del governo in carica. Il più significativo è l’intervento in occasione delle manifestazioni degli studenti a Pisa che, violando le leggi e i regolamenti, furono sottoposti a un’azione repressiva della polizia e, in quel caso - non cito testualmente -, il presidente ebbe ad affermare che quello non era il metodo educativo più giusto nei confronti di quei «poveri» e ingenuamente innocenti giovani che avevano messo su un caos di fronte al quale la polizia cosa avrebbe dovuto fare se non intervenire e reprimerlo? Per carità, il presidente Mattarella interviene sempre richiamandosi alla Carta costituzionale, ai valori fondanti della Repubblica e ai diritti fondamentali presenti nella Costituzione. È il suo compito in quanto rappresentante del Paese e prima carica dello Stato, ma ci pare che tutto questo si sia incrementato particolarmente dopo l’avvento alla presidenza del Consiglio di Giorgia Meloni. Come diceva il suo compagno di partito Giulio Andreotti: «A pensar male si fa peccato, ma spesso ci si coglie». Probabilmente, scrivendo queste righe, chi le ha scritte dovrà confessarsene ma, magari, ha descritto qualcosa di almeno verosimigliante.
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Tony Blair (Getty Images)
Persino Blair, faro dei progressisti, scrive che «la transizione ecologica è destinata a fallire» e che le politiche ambientaliste «sono irrazionali»: sacrifici enormi, risultati minimi. E basta con l’accusa di «negazionismo», il nuovo peccato mortale inventato dalla sinistra.
Per anni Tony Blair è stato il modello a cui si è ispirata la sinistra europea. Più di François Hollande, più di José Zapatero, ma anche di Gerhard Schroeder (tralasciando Bill Clinton, che concluse il mandato nel gennaio del 2001), il leader laburista ha incarnato negli ultimi 25 annil sogno di ogni capo progressista. La terza via di Blair era in grado di mettere d’accordo D’Alema e Veltroni, che in vita loro non sono mai andati d’accordo, ma di affascinare anche un tipo come Renzi, il quale nel riformismo dell’ex premier si guardava allo specchio, sognando di avere un giorno lo stesso ruolo internazionale e lo stesso carisma (e soprattutto la stessa fondazione e gli stessi soldi). Insomma, Blair, che ha guidato la Gran Bretagna per dieci anni, dal 1997 al 2007, e che ancora oggi esercita una certa influenza sui laburisti anche se non è più in prima linea, resta un’autorità indiscussa, una delle ultime rimaste a sinistra. E che dice ad un certo punto questo faro progressista in Europa? Che «la transizione ecologica è destinata a fallire». Papale papale, senza giri di parole. Con un testo pubblicato dal suo Tony Blair Institute, ripreso da tutti i quotidiani inglesi, l’ex premier ha definito irrazionali le politiche ambientaliste che immaginano di spegnere le centrali e fermare le auto a combustione termica. Boom. La semplice prefazione di uno studio sconquassa i convincimenti di una sinistra rossoverde pronta a gettare alle ortiche ogni cosa non sia green.
L’ex leader in pratica piccona l’ideologia ambientalista (con cui i compagni hanno sostituito quella comunista), scrivendo che è sbagliato chiedere alla gente «sacrifici finanziari e cambiamenti allo stile di vita quando sanno che il loro impatto sulle emissioni globali è minimo». Per Blair le decisioni che si vogliono imporre ai consumatori, costringendoli a cambiare auto e caldaia, a sostituire serramenti e spendere altri soldi per ottenere una transizione energetica basata sull’eliminazione dei combustibili fossili è «irrazionale». Punto.
L’ex premier ha spiegato che, se anche la Gran Bretagna decarbonizzasse tutta la sua economia, riempiendo di pannelli solari i tetti di case e imprese e piazzando pale eoliche ovunque, anche sulle isole, nonostante sia la sesta economia al mondo la riduzione delle emissioni globali sarebbe pari ad appena il 2 per cento del totale. E dunque quasi ininfluente, visto che per due terzi l’inquinamento che oggi preoccupa gli ambientalisti è responsabilità di Cina, India e Sudest asiatico. In pratica, Blair rompe il fronte della sinistra unita, che masochisticamente ritiene l’Europa e il mondo Occidentale colpevole di ogni male e soprattutto del cambiamento climatico, obbligando i consumatori a fare penitenza e versare l’obolo al nuovo totem green.
La presa di posizione dell’ex leader laburista, come detto, è finita in prima pagina su tutti i giornali britannici, i quali sono appassionati al tema anche perché Keir Starmer, premier laburista che gode sicuramente di minor consenso e popolarità rispetto a Blair, si è impegnato a decarbonizzare la rete elettrica del Paese entro il 2030 e - udite udite - addirittura ad annullare qualsiasi emissione di CO2 entro il 2050. Il che significa che entro 25 anni gli inglesi dovranno sostituire tutte le auto che ancora vanno a benzina e gasolio, spegnere le caldaie che usano combustibili fossili, isolare le loro case come prevede la nuova religione verde.
«I leader politici sanno benissimo che ciò non è possibile», ha scritto Blair, «ma non osano dirlo perché temono di essere accusati di negazionismo», nuovo peccato mortale inventato dalla sinistra. La verità, ha spiegato l’ex premier, è che nei prossimi anni avremo ancora bisogno di gas e petrolio, perché il traffico aereo raddoppierà, i Paesi avranno bisogno di acciaio e cemento per costruire nuove case: una domanda destinata a crescere con ritmi del 50 per cento.
Dunque, mettete da parte i divieti (ma anche il Green deal di Ursula von der Leyen) e puntiamo sull’innovazione tecnologica per catturare l’anidride carbonica: è più utile e fa meno danni.
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