2025-08-20
Il taser è una scusa, vogliono abolire la polizia
Le polemiche per i due casi di decesso di persone raggiunte dalla scossa elettrica emessa dal dispositivo nascondono l’odio di molti esponenti dell’opposizione verso le forze dell’ordine. Un copione già usato contro le armi da fuoco e le manette.Dunque ora vogliono vietare anche il taser. È pericoloso. Anzi, peggio: è uno «strumento di tortura legalizzata». Le pistole? Guai a tirarle fuori. Polizia e carabinieri le tengono ormai solo per figura. Altre armi? Non se ne parla. Il manganello? Per carità, roba fascista. Le manette? Fanno la bua. Lo spray urticante? È tossico. Il posto di blocco? Meglio evitare: se qualcuno scappa e si schianta sei finito. Avanti di questo passo tra un po’ verranno messi al bando anche il fischietto del vigile urbano (altro evidente strumento di tortura legalizzata dei nostri timpani) e la paletta della polizia stradale (ammissibile solo se accompagnata da apposito secchiello da spiaggia). Ma alla fine, scusate, che cosa resta alle nostre forze dell’ordine? Come dovranno affrontare i delinquenti? Con tè e pasticcini? Con un mazzo di fiori? Da «fermo o ti sparo» a «fermo o ti profumo»? E se i fiori fossero rose, l’agente rischierebbe l’imputazione per uso improprio delle spine?Il ministero dell’Interno Matteo Piantedosi, per fortuna, non s’è preso il virus Schillaci e tiene il punto, a differenza del suo collega don Abbondio: «Sul taser polemiche pretestuose e infondate», dice. E ci mancherebbe. A che serve fornire cinquemila taser alle forze dell’ordine se poi non si dà loro la possibilità di usarli quando lo ritengono opportuno? Cioè quando si trovano di fronte a un criminale che dà in escandescenze ed aggredisce chiunque gli stia attorno? Ripeto: se non lo usano lì, quando lo usano? Per lavarsi i denti? O per scolare la pastasciutta? A che serve il taser se non per fermare chi diventa pericoloso? E’ chiaro: dispiace che due persone siano morte. Ma le ragioni della morte vanno cercate, eventualmente, nei loro errori. Non in quelli delle forze dell’ordine, che hanno fatto solo il loro dovere.Eppure le polemiche ci sono eccome: dal garante dei detenuti dalla Sardegna che definisce i taser appunto «strumento di tortura legalizzata» alle forze politiche (da Più Europa a Avs) che ne vogliono vietare l’utilizzo. I quattro carabinieri che nei due distinti episodi, uno a Genova e uno a Olbia, hanno usato l’aggeggio, in regolare dotazione, sono indagati. Dicono sia un «atto dovuto». A me pare, ancora una volta, solo un atto demente. Si sostiene che quando c’è un morto bisogna sempre aprire un’inchiesta. D’accordo. Ma non c’è scritto da nessuna parte che l’inchiesta bisogna aprirla indagando i carabinieri. Se muore un neonato, si indagano per forza i genitori? Se muore un anziano, si indaga per forza il badante? Se (e dico: se) dovesse venire fuori che per qualche ragione i carabinieri hanno sbagliato, allora devono essere certamente processati e puniti. Nessuna impunità, ovvio. Ma ciò che rende il tutto irritante è che qui si indagano i carabinieri subito, per partito preso, per pregiudizio, pur avendo loro compiuto un’azione che fa strettamente parte dei loro doveri. È come se quando un’auto sbanda e finisce contro un albero, si aprisse subito l’inchiesta su chi ha piantato l’albero. Entrambi i due morti, in effetti, prima di essere colpiti dal taser, sbandavano pericolosamente, eccome se sbandavano. Elton Badi, l’albanese di Genova, in preda all’alcol o alla droga, stava creando problemi a tutto il palazzo. Infatti sono stati i vicini a chiamare i soccorsi. Lui prima ha aggredito gli operatori sanitari del 118, poi ha cominciato a lanciare sedie e oggetti, poi è salito in auto, si è messo a guidare come un pazzo, procedendo a zig zag in mezzo alla strada, e infine ha aggredito anche i carabinieri. Ma che cosa dovevano fare questi poveretti, per non finire indagati? Dovevano lasciargli ammazzare qualcuno? Idem per l’altra vittima, Giampaolo Demartis: andava in giro a Olbia anche lui fuori di sé, anche lui importunava i passanti e anche lui ha aggredito i carabinieri, completamente «fuori controllo» , «in stato di agitazione» e «creando problemi nel centro abitato». Entrambe le persone avevano precedenti, per entrambe non è stato dimostrato il nesso tra il decesso e l’uso del taser. Eppure i carabinieri sono già indagati. Ma io ripeto la domanda: che dovevano fare gli agenti? Far finta di nulla? Girare la testa dall’altra parte? Anche se erano stati i cittadini a chiamarli? Anche se la situazione era «fuori controllo»? Anche se c’erano problemi nel «centro abitato»? Dico di più: a che serve pagare delle forze dell’ordine, se poi si cerca in ogni modo, sempre e comunque, di impedire loro di fermare i delinquenti?Per questo, dicevo all’inizio, la polemica sull’uso del taser è preoccupante. Perché arriva dopo la polemica sull’uso delle armi, dopo la polemica sull’uso delle manette, dopo la polemica sull’uso del manganello e dopo la polemica sui posti di blocco. E tutte queste polemiche vanno in una direzione ben precisa, quella di depotenziare le forze dell’ordine per lasciare campo libero alle forze del disordine. Un mese fa in un convegno tenutosi nel centro sociale dell’europarlamentare Ilaria Salis, a Monza, è stato teorizzata l’«abolizione della polizia». Una tesi non nuova. Negli Stati Uniti la tesi dell’abolizione della polizia si è diffusa già qualche anno fa, dopo l’uccisione di George Floyd. Furono addirittura creati dei quartieri (a Seattle per esempio) completamente liberi dalle forze dell’ordine. Senza polizia. Risultato? Un’esplosione di criminalità, stupri, razzie, omicidi e violenze. Se questa è la direzione in cui vogliamo andare, mi pare che siamo sulla buona strada. Togliamo il taser, togliamo le armi, togliamo il manganello, togliamo i posti di blocco e vedrete che finalmente avremo il Paese più sicuro del mondo. Per i criminali, s’intende.
Thierry Sabine (primo da sinistra) e la Yamaha Ténéré alla Dakar 1985. La sua moto sarà tra quelle esposte a Eicma 2025 (Getty Images)
La Dakar sbarca a Milano. L’edizione numero 82 dell’esposizione internazionale delle due ruote, in programma dal 6 al 9 novembre a Fiera Milano Rho, ospiterà la mostra «Desert Queens», un percorso espositivo interamente dedicato alle moto e alle persone che hanno scritto la storia della leggendaria competizione rallystica.
La mostra «Desert Queens» sarà un tributo agli oltre quarant’anni di storia della Dakar, che gli organizzatori racconteranno attraverso l’esposizione di più di trenta moto, ma anche con memorabilia, foto e video. Ospitato nell’area esterna MotoLive di Eicma, il progetto non si limiterà all’esposizione dei veicoli più iconici, ma offrirà al pubblico anche esperienze interattive, come l’incontro diretto con i piloti e gli approfondimenti divulgativi su navigazione, sicurezza e l’evoluzione dell’equipaggiamento tecnico.
«Dopo il successo della mostra celebrativa organizzata l’anno scorso per il 110° anniversario del nostro evento espositivo – ha dichiarato Paolo Magri, ad di Eicma – abbiamo deciso di rendere ricorrente la realizzazione di un contenuto tematico attrattivo. E questo fa parte di una prospettiva strategica che configura il pieno passaggio di Eicma da fiera a evento espositivo ricco anche di iniziative speciali e contenuti extra. La scelta è caduta in modo naturale sulla Dakar, una gara unica al mondo che fa battere ancora forte il cuore degli appassionati. Grazie alla preziosa collaborazione con Aso (Amaury Sport Organisation organizzatore della Dakar e partner ufficiale dell’iniziativa, ndr.) la mostra «Desert Queens» assume un valore ancora più importante e sono certo che sarà una proposta molto apprezzata dal nostro pubblico, oltre a costituire un’ulteriore occasione di visibilità e comunicazione per l’industria motociclistica».
«Eicma - spiega David Castera, direttore della Dakar - non è solo una fiera ma anche un palcoscenico leggendario, un moderno campo base dove si riuniscono coloro che vivono il motociclismo come un'avventura. Qui, la storia della Dakar prende davvero vita: dalle prime tracce lasciate sulla sabbia dai pionieri agli incredibili risultati di oggi. È una vetrina di passioni, un luogo dove questa storia risuona, ma anche un punto d'incontro dove è possibile dialogare con una comunità di appassionati che vivono la Dakar come un viaggio epico. È con questo spirito che abbiamo scelto di sostenere il progetto «Desert Queens» e di contribuire pienamente alla narrazione della mostra. Partecipiamo condividendo immagini, ricordi ricchi di emozioni e persino oggetti iconici, tra cui la moto di Thierry Sabine, l'uomo che ha osato lanciare la Parigi-Dakar non solo come una gara, ma come un'avventura umana alla scala del deserto».
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