2021-09-21
Il Tar si rifà al testo Ue tradotto male. Infermiera resta sospesa dal lavoro
Ursula von der Leyen (Getty Images)
I giudici friulani bocciano il ricorso dell'operatrice. Ma la sentenza poggia sul regolamento europeo non rettificato: in quello corretto sono vietate le discriminazioni verso chi sceglie di rifiutare la puntura.Lo scorso 8 settembre i giudici del Tar del Friuli Venezia Giulia hanno emesso una sentenza tranciante contro il ricorso di un'operatrice sanitaria che si era rifiutata di adempiere all'obbligo di vaccinazione disposto con un decreto legge a inizio aprile e aveva subito la sospensione dal lavoro, perdendo anche la relativa retribuzione.Tutto chiaro dunque? Niente affatto. La fretta di demolire, in modo sommario e con una sicumera degna di miglior causa, le tesi della ricorrente ha portato i giudici a prendere per buono un testo del regolamento Ue che invece riportava una importante omissione nella traduzione, successivamente rettificata. A questo aspetto, già di per sé clamoroso, si aggiungono le perplessità sulle altre motivazioni addotte dai giudici per respingere il ricorso, su cui ci limiteremo a porre delle domande.L'aver ignorato la rettifica della traduzione appare un vero e proprio infortunio dei giudici che, seppur non alterando la sostanza della sentenza, getta delle ombre anche sulla accuratezza con cui sono giunti alle altre conclusioni. Il regolamento 953/2021 - che, dal 15 giugno, disciplina il certificato Covid digitale Ue - al punto 36 recita che è necessario evitare la discriminazione delle persone non vaccinate per: motivi medici; limiti di età, come i bambini; non aver ancora avuto l'opportunità di farlo; scelta di non vaccinarsi. Quest'ultimo motivo, presente nella versione in lingua inglese, inspiegabilmente scomparso nella traduzione italiana, è poi ricomparso il 5 luglio nella rettifica pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale della Ue.Ma qui sorge il pasticcio. Poiché non si è provveduto alla pubblicazione di un nuovo testo coordinato con quella rettifica, oggi la ricerca restituisce sempre il regolamento privo delle ultime parole.E i giudici del Tar hanno riprodotto esattamente il testo non rettificato, per sostenere che chi non è vaccinato «per scelta» non è protetto dal divieto di discriminazione. Come se la rettifica del 5 luglio non fosse mai stata pubblicata. Chi a luglio avesse sospettato che quell'errore non fosse stato affatto casuale, oggi troverebbe solidi argomenti a favore, davanti alla prima rilevante conseguenza di quell'omissione che ha cominciato a produrre giurisprudenza. Aldilà di questo (infondato) motivo, i giudici considerano comunque estraneo il regolamento 953 - previsto per evitare l'obbligo di quarantena e avere un quadro di regole uniformi per la circolazione nella Ue - alla specifica fattispecie. Ma si guardano bene dal rilevare la discriminazione che di fatto subisce il non vaccinato quando lo Stato usa quel certificato per comprimere ben altri e più importanti diritti (da ultimo, quello al lavoro), senza rispettarne alcuni essenziali requisiti.Infatti, secondo la Commissione, tale uso «esteso» del certificato Covid Ue è legittimo, qualora tale estensione sia prevista da una specifica legge nazionale, purché essa rispetti i principi di efficacia, necessità e proporzionalità e di compatibilità con le norme Ue sulla protezione della privacy. Poiché l'Italia non ha adottato un green pass nazionale, ma sta utilizzando «ad libitum» quello Ue, non si capisce come possa evitare di sottostare alle sue regole di impiego e allo scrutinio della Commissione sul rispetto dei suddetti principi.Tali rilievi restano insuperabili anche interpretando quel divieto di non discriminazione nel senso di ritenerlo diretto a proteggere i non vaccinati, ponendoli su un piano di parità con i vaccinati rispetto al loro diritto di accedere al certificato Ue, i primi con il tampone negativo, i secondi col vaccino. È lo strumento in sé che non può essere una clava buona per tutti gli usi.Non da meno sono i dubbi che sorgono leggendo gli altri motivi di ricorso.Secondo la ricorrente, il vaccino ha efficacia nella prevenzione della malattia ma non dell'infezione e quindi la scelta di vaccinarsi è personale e non può essere soggetta ad obbligo, perché priva di interesse per la collettività. I giudici controbattono che, dati alla mano, l'efficacia nel prevenire anche l'infezione è comunque elevata (78%) e quindi esiste interesse pubblico alla vaccinazione. Ma, anche qualora il vaccino fosse efficace solo contro la malattia, l'interesse esisterebbe per l'importanza di garantire la continuità delle prestazioni professionali di soggetti particolarmente esposti come i medici. Allora ci chiediamo: poiché la protezione da infezione non è assoluta ma parziale (ma più bassa della protezione rispetto alla malattia), fino a che punto è ragionevole comprimere il diritto di scelta a fronte di un beneficio parziale e decrescente nel tempo (come dimostrano i recenti casi di focolai tra vaccinati) e rischi di medio lungo termine tuttora da accertare?Infine, il tema più spinoso: la ricorrente rifiuta l'obbligo di a sottoporsi a un trattamento sanitario «sperimentale». Qui i giudici - ritenendo infondate le questioni di costituzionalità - replicano che l'autorizzazione in forma condizionata non significa affatto che sia in corso una sperimentazione che «si è conclusa» con esito favorevole, con il termine delle fasi da 1 a 3. Ma essi incredibilmente derubricano gli studi da completare e i dati da produrre per confermare il favorevole rapporto rischi/benefici, come un'attività che in passato (30 casi) non ha mai dato sorprese negative. Allora perché l'autorizzazione dura 12 mesi e non è standard? La fase 4 della farmacovigilanza a cosa serve? Come si fa a considerare stabili le evidenze scientifiche incomplete - che peraltro devono ancora stratificarsi nel tempo - di una risposta con efficacia temporanea?È lesa maestà ricordare ai giudici che le evidenze scientifiche sulla copertura sono in continuo aggiornamento e perciò instabili? Se le «conseguenze che appaiono normali e tollerabili» (sentenza «Cartabia») sono solo parzialmente note, come si fa a imporre un obbligo senza violare la Carta? Com'è possibile parlare di un «bilanciamento rischi/benefici assolutamente accettabile», sulla base dei rapporti Aifa dei quali i giudici citano tutti i dati, tranne i decessi (strana omissione…)? I giudici, tra le loro granitiche certezze, ricordano che a maggio la terza dose sembrava una remota eventualità non prima di 10/12 mesi e ora, dopo solo quattro mesi, è già d'attualità? Se a Trieste avessero la macchina del tempo, grazie alla quale hanno definito già oggi il quadro delle conseguenze future, vorremmo augurarci che abbiano anche la macchina per «svaccinarsi», utile qualora la macchina del tempo si rivelasse anche solo parzialmente fallace.