Nell’ultimo anno il patrimonio del gruppo che fa capo a Warren Buffett è passato da circa 299 miliardi a poco più di 297. Invariato, in sostanza. Grazie ai riposizionamenti e alle mosse che come sempre consentono al tycoon di mantenere il soprannome «Oracolo di Omaha». Non a caso Buffett è riuscito a conquistare pezzi di mondo senza mai lasciare le sue radici nel Nebraska. Lo si capisce dal mix di investimenti, quotidiani locali e grandi multinazionali con un occhio sempre all’economia reale. Scelta che lo differenzia dai guru della Silicon Valley. Un esempio su tutti, Mark Zuckerberg, il numero uno di Facebook oggi Meta che nello stesso periodo di tempo, l’ultimo anno, ha visto crollare il suo patrimonio da 136 miliardi a poco più di 40. Ma soprattutto non sembra in grado di piazzare un colpo da maestro messo a punto ieri dal tycoon di 92 anni. Berkshire Hathaway, la holding di Buffett, ha acquistato 60 milioni di azioni della taiwanese Tsmc, leader nella commercializzazione di microchip. Valore dell’operazione ben 4 miliardi di dollari. Ma soprattutto un perno piazzato nel settore più delicato e bollente del prossimo decennio. «La guerra economica e tecnologica tra Usa e Cina», scrive Alessandro Aresu, già consigliere di Mario Draghi, nel suo libro Il dominio del XXI secolo, «non interrompe la digitalizzazione crescente dei processi industriali e gli investimenti sulla frontiera dell’innovazione». Tradotto in numeri, tredici delle prime venti aziende del comparto prevedono di aumentare le spese in conto capitale del 40% rispetto al 2021. Per Tsmc significa chiudere l’anno con oltre 40 miliardi di investimenti aggiuntivi. Intel che arriva dopo si piazza comunque con 27 miliardi. Nel complesso le big chiuderanno il 2022 con circa 190 miliardi di investimenti. Una cifra altissima nella quale Buffett si getta con equilibrio (nel senso che sa bene calcolare i ritorni) ma anche con piena consapevolezza del ruolo geopolitico. Il mondo occidentale è arrivato alla soglia del Covid con il rischio di perdere la guerra del 5G e delle nuove tecnologie di telecomunicazione. Il Covid ha resettato numerosi parametri e la guerra in Ucraina ha attivato nuovi canali di sviluppo tecnologico. L’Occidente si è riscoperto all’avanguardia non tanto sulla terra ma nel controllo dello Spazio. L’utilizzo dei satelliti nello scontro in Ucraina ha reso difficile l’avanzata russa, ma al tempo stesso ha dimostrato che la sfida tecnologica con la Cina non va corsa lungo i cavi sottomarini o nell’utilizzo del 5g per le attività di terra ma lungo un perimetro spaziale. Qui si sviluppano le nuove sfide e da lì si scenderà verso terra per l’applicazione quotidiana delle nuove tecnologie. Per gli Usa piazzare un investimento da 4 miliardi a Taiwan significa legare a doppia mandata la piccola nazione con il mondo occidentale e picconare il tentativo cinese di diffondere il proprio soft power tecnologico lungo la Via della Seta. Non a caso l’obiettivo di Joe Biden in occasione del G20 è quello di rafforzare le alleanze nel Pacifico e ottenere anche la conferma di Bruxelles al fatto che la Via della Seta non riuscirà mai ad attecchire nel Vecchio Continente. Così, a settembre, mentre aumentava il rischio che Taiwan potesse subire un’invasione cinese, Washington e Taipei si sono impegnati prendendo delle contromisure guarda caso nel settore dei semiconduttori. Tsmc ha avviato al realizzazione di uno stabilimento da 12 miliardi di dollari in Arizona. Nello stesso periodo, a indicare le interconnessioni, Intel ha annunciato un investimento in Italia da oltre 4 miliardi mirato a uno stabilimento per il mercato europeo. Il governo Draghi è stato il più attivo nell’uso della golden power e nello specifico nelle raccomandazioni destinate al mercato dei chip. Nel biennio precedente la golden power si concentrava molto più sulla filiera del 5G. A indicare come le priorità si siano evolute. Motivo per cui la politica estera tedesca sia finita nel mirino americano. Non ci riferiamo ai rapporti energetici con i russi ma al tentativo di Olaf Scholz di creare un canale preferenziale con Pechino. Il cancelliere (nonostante le smentite) potrebbe ancora mettere sul piatto un regalo per Xi Jinping. Scholz, infatti, starebbe ancora valutando la possibilità di autorizzare la vendita della fabbrica di microchip dell’azienda Elmos di Dortmund alla concorrente Silex, società svedese ma interamente controllata dal gruppo cinese Sai Microelectronics. Per chiudere il cerchio attorno al Dragone Ue e Usa devono non solo mettersi d’accordo ma anche trovare il modo di stanziare ingenti fondi. Buffett in questo si conferma una sorta di Cavaliere bianco.
Come ha potuto un problema che riguarda una frazione dell'umanità diventare la madre di tutte le questioni? Grazie ad associazioni che investono milioni per influenzare l'opinione pubblica. Da George Soros a Jon Stryker, da Jeff Bezos a Bill Gates, da Warren Buffet a Tim Gill: ecco chi le finanzia.
All'inizio del 2020, l'Università di Firenze, l'azienda ospedaliera Careggi, la fondazione The bridge, l'Osservatorio nazionale sull'identità di genere e l'Istituto superiore di sanità hanno dato il via a un'indagine chiamata Spot, cioè «Stima della popolazione transgender adulta in Italia». A che cosa serve la ricerca? Ovvio: a fare un censimento dei trans sul territorio italiano, perché ad oggi non sappiamo esattamente quante siano le persone che hanno modificato il proprio genere o sono in procinto di farlo.
Nel presentare l'indagine, Marina Pierdominici dell'Istituto superiore di sanità, parlando con Repubblica, azzardò una stima: «I dati della letteratura scientifica internazionale suggeriscono che la percentuale di popolazione transgender dovrebbe essere compresa tra lo 0,5 e l'1,2% del totale. Se confermata anche nel nostro Paese, consterebbe in circa 400.000 italiani».
I numeri sono in aumento, soprattutto per quel che riguarda i minorenni, ma parliamo ancora di percentuali piuttosto basse. Viene da chiedersi, allora, come mai la causa trans goda di così tanta pubblicità a livello mediatico e ottenga tanto spazio nel mondo dell'intrattenimento, soprattutto quello di marca statunitense. Chiaro: una fetta di popolazione, per quanto esigua sia, ha comunque diritto a essere rappresentata. Però qui si parla addirittura di approvare una legge che, come prima cosa, prevede l'autodeterminazione dell'identità di genere, idea carissima ai movimenti trans ma avversata da molti sia a destra sia a sinistra.
Ci si domanda allora come sia stato possibile che temi come quello del «gender Id» siano diventati centrali nel dibattito pubblico nonostante l'evidente marginalità sul piano statistico (la quale permetterebbe, per giunta, di seguire adeguatamente e con rispetto ogni singola situazione, senza bisogno di nuove norme che impongano discutibili decostruzioni della natura umana).
La prima organizzazione a compiere un massiccio investimento sulla promozione delle istanze trans è stata la britannica Stonewall, una delle più grandi in Europa. Proprio in questi giorni la Commissione per l'uguaglianza e i diritti umani (Ehrc) britannica - finanziata con denaro pubblico - ha cancellato la sua adesione al programma «Diversity champions» di Stonewall. Il motivo ufficiale è il cattivo rapporto qualità-prezzo del servizio, in realtà dietro la rottura ci sono tensioni legate soprattutto alle questioni trans, dato che Stonewall ha pubblicamente criticato l'Ehrc per il suo presunto scarso impegno sui diritti transgender. Attualmente del programma «Diversity champions» fanno parte circa 850 aziende e istituzioni: Stonewall (dietro pagamento di una quota) offre loro consigli su come «gestire le diversità», poi emette una sorta di bollino arcobaleno. Iniziative come queste hanno contribuito a creare un patrimonio di circa 8 milioni di sterline.
L'associazione britannica, che dalla nascita nel 1989 si è occupata per lo più di gay e lesbiche, ha iniziato a spingere sui temi trans dopo il 2013, cioè l'anno in cui nel Regno Unito sono state approvate le unioni omosessuali. Come ha scritto Jo Bartosch su Spiked, «quando Ruth Hunt è stata nominata Ceo di Stonewall nel 2014, si è trovata a capo di un ente di beneficenza ricco di personale e denaro ma improvvisamente privo di una causa. Hunt ha trovato la nuova causa - e i donatori - grazie alla “lotta" per i diritti dei trans».
Ecco una prima risposta al quesito iniziale: la causa trans crea nuovi spazi per associazioni Lgbt molto influenti che rischiavano di esaurire, almeno in parte, la propria funzione. Queste associazioni, sostenute pure da soldi pubblici (come nel caso della britannica Mermaids che si occupa di ragazzini con varianza di genere), hanno conquistato negli anni un forte peso mediatico e politico, e lo sfruttano con furbizia e un pizzico di cinismo.
Ma dietro l'exploit trans non ci sono soltanto associazioni Lgbt particolarmente scaltre. Ci sono anche organizzazioni dotate di notevole potere economico, ad esempio la solita Open society foundations di George Soros. Kelly Riddell Sadler - giornalista, già consulente per la comunicazione di Donald Trump alla Casa Bianca - calcolò che tra il 2013 e il 2016 Soros avesse finanziato associazioni come la Gay straight alliance (100.000 dollari nel solo 2013) o la Gate (Global action for trans equality, 244.000 dollari nello stesso periodo). Tutto alla luce del sole, ovviamente. Del resto basta farsi un giro sul sito di Open society per trovare più di un articolo in cui si sostiene che è tempo di «dare all'attivismo trans il supporto di cui ha bisogno». Come farlo? Ad esempio sostenendo iniziative come l'International trans fund, che riunisce attivisti da tutto il mondo.
Le sigle arcobaleno hanno cominciato a ottenere maggiori donazioni già all'inizio degli anni Duemila. Ma se fino al 2013/2014 - lo scrive sempre Open society - le associazioni trans potevano contare su budget che in media si aggiravano intorno ai 10.000 dollari l'anno, da quel momento le cose hanno iniziato a cambiare. E se la situazione è mutata lo si deve molto all'attività di Arcus, una Ong fondata e curata da Jon Stryker, ricco magnate dell'industria sanitaria.
Come ha documentato la giornalista e attivista Jennifer Bilek (i cui articoli sono stati ben sintetizzati da Feministpost.it), «tra il 2016 e l'aprile 2021 Arcus ha investito quasi 74 milioni di dollari in promozione della giustizia sociale. La maggior parte dei suoi beneficiari avevano a che vedere con l'ideologia dell'identità di genere». Arcus è stata una delle principali promotrici della causa trans a livello globale. Finanzia associazioni Lgbt storiche e potenti come Ilga (una sorta di sigla ombrello che riunisce tantissimi gruppi arcobaleno di tutto il mondo), la quale guarda caso ha da poco espulso dalla sezione europea le femministe di Arcilesbica, considerate «trans escludenti».
Arcus ha sovvenzionato anche la britannica Stonewall: ben 142.000 dollari versati «appena prima che ampliasse il suo mandato per coprire le questioni transgender». Nel 2013, Arcus ha scelto come direttore del programma internazionale per i diritti umani Adrian Coman, proveniente dalla… Open society foundations. Nel 2015, invece, la Arcus ha raccolto 20 milioni di dollari per la New global trans initiative in collaborazione con una fondazione chiamata Novo, che si occupa anche di sostenere Black lives matter e altri movimenti analoghi. Sapete chi l'ha fondata? Peter Buffett, figlio di Warren Buffett.
Secondo Jennifer Bilek, dietro l'esplosione delle istanze trans ci sarebbero principalmente «uomini, bianchi, estremamente ricchi e con un'enorme influenza culturale», tra cui il già citato Soros, Jennifer Pritzker (imprenditore trans con un patrimonio da due miliardi di dollari circa); l'attivista, imprenditrice e transumanista orgogliosa Martine Rothblatt, l'imprenditore Tim Gill (il primo gay dichiarato nella lista dei 400 ricchissimi di Forbes). In effetti, tutti costoro risultano finanziare e spalleggiare a vario titolo i movimenti transgender.
Non sono i soli. La causa trans gode del sostegno, se non altro mediatico, di alcune tra le più grandi aziende del mondo. Nel settembre 2020, Stonewall ha organizzato un grande evento a sostegno della causa trans intitolato «Trans rights are human rights». Lo hanno sostenuto 136 grandi aziende tra cui Amazon, Aviva, Citi, Google, Deliveroo, Deloitte, Microsoft, JP Morgan, Disney, Visa, P&G, Zurich… All'inizio di maggio, un altro centinaio di corporation hanno firmato un documento di protesta contro gli Stati americani che avevano approvato leggi «anti Lgbtq», con particolare attenzione alle norme riguardanti «i giovani transgender». In sostanza queste aziende (così spiegano in una dichiarazione congiunta) si sono schierate politicamente per bloccare «le leggi che influenzerebbero l'accesso alle cure mediche per le persone transgender, i diritti dei genitori, i servizi sociali e familiari, gli sport studenteschi o l'accesso a strutture pubbliche come i bagni». Tra queste ci sono Apple, Airbnb, Dell, Facebook, Hilton, Ibm, Ikea, Nike, Pepsi, Pfizer, Uber, Unilever, Wells Fargo…
Nulla di illegale. E nessun complotto, per carità. Però quando si parla di persecuzioni, discriminazioni e ingiustizie, beh, forse conviene un po' abbassare i toni.
Amazon si prepara a istituire delle cliniche aziendali per i propri dipendenti (si inizierà dal quartiere generale di Seattle estendendo poi il progetto a tutte le sedi Amazon nel mondo). La decisione, rivelata da indiscrezioni interne all'azienda, giunge dopo il recente accordo di Amazon con Jp Morgan e la Berkshire Hathaway di Warren Buffett per la costituzione di una colossale società di welfare sanitario in concorrenza con il sistema sanitario nazionale; e trae pure esempio da Apple che ha creato mesi or sono qualcosa di simile per i propri dipendenti di Cupertino, l'Ac Wellness.
A parole e proclami, tali cliniche aziendali dovrebbero essere la risposta vincente ai costi esorbitanti (e ormai proibitivi) del sistema sanitario americano, agevolando in tal senso i dipendenti e più in generale il bilancio del Paese. Tuttavia, considerando la forma mentis del fondatore di Amazon, Jeff Bezos, nonché le ricorrenti critiche circa la gestione del suo personale (gestione al limite dell'umano e ben dentro il limite dell'alienante), è difficile credere che questa sia una decisione unicamente dettata da umanitarismo e filantropia (alla maniera per intenderci di un Adriano Olivetti che nella sua sede d'Ivrea, negli anni Cinquanta, inverava per i suoi lavoratori una sorta di fantasmagorica Utopia).
In molti si domandano, per esempio, se le nuove cliniche aziendali di Amazon saranno aperte a tutti i dipendenti o - a mo' di benefit - solo ai dirigenti e ai quadri. I magazzinieri di Amazon, che per ritmi e ambientazione di lavoro ricordano Charlie Chaplin in Tempi moderni, potrebbero cioè esserne beffardamente esclusi.
Ad ogni modo, questa pensata di Bezos rientra in toto nella sua concezione di azienda totale (o forse meglio totalitaria) che mira, poco per volta, a fagocitare tutta la vita del proprio dipendente, non assicurandogli semplicemente il salario, ma anche la salute, e forse un domani persino la vita affettiva e spirituale. Insomma, per Bezos - lui l'ha già chiarito in altre occasioni - occorre rendere l'azienda il solo mondo del lavoratore, la sua sola realtà: una dimensione impossibile da lasciare, di fatto insindacabile, in cui vige un rapporto di dipendenza assoluta. È - applicato alla gestione del personale - il solito mantra del commercio totale di Bezos: vendere tutto a tutti per divenire insostituibile e ubiquitario.
Su questa visione aziendale da incubo futuribile s'innesta poi l'interesse del tycoon americano per il business del domani, ovvero quello della salute e dei farmaci; interesse concretatosi di recente con l'acquisto da parte di Amazon (per la cifra stimata di un miliardo di dollari cash) di Pillpack, un'innovativa startup per la vendita online dei farmaci. Ormai il mondo invecchia sempre di più, intravedendo però grazie alle cure mediche una specie di quarta età (che per le aziende si prefigura dell'oro). La stessa Apple utilizza la sua clinica aziendale per testare in assoluta libertà la propria tecnologia medica, le sue possibili e assai redditizie applicazioni future.
Si valuta inoltre che la ricaduta economica delle assenze per malattia incida solo in America per 260 milioni di dollari, pari a 69 milioni di ore lavorative perse in un anno; con dei medici interni, loro stessi dipendenti aziendali, l'asticella del congedo da lavoro per malattia - come per incanto - si alza complica e pospone. Senza contare tutte le questioni inerenti alla privacy dei dipendenti: le informazioni sul loro stato di salute sarebbero in tal modo a completa disposizione dell'azienda che potrebbe così valutare il proprio personale non solo mediante criteri produttivi, ma quasi «eugenetici».
Infine - il dubbio è lecito in mezzo a tali inquietanti scenari - chissà se questi medici aziendali si atterranno più all'antico giuramento d'Ippocrate, ossia la cura dell'uomo, che all'imperativo supremo dell'azienda da cui dipendono, cioè la moderna esaltazione del profitto a ogni costo? I medici aziendali potrebbero comporre un nuovo fosco capitolo nella storia della medicina e della scienza (dopo quelli foschissimi dei medici nazisti e degli scienziati di Los Alamos); con buona pace di Roberto Burioni e di tutti gli altri scientisti a oltranza che considerano, aprioristicamente, medici e scienziati gli indiscutibili indefettibili e infallibili duci dell'umanità d'oggi.




