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2019-03-05
Minorenni spinti a cambiare sesso per non urtare gli attivisti Lgbt
Ansa
Il Gender identity development service (Gids) ha sede nella zona Nord di Londra, all'interno del Tavistock Centre. Dipende dall'Nhs, il servizio sanitario nazionale britannico. È l'unico centro del Regno Unito a occuparsi dei bambini e ragazzi che vogliono cambiare sesso. I pazienti sono tutti minorenni, e vengono ovviamente accompagnati dai genitori. Negli ultimi cinque anni, il numero di richieste pervenute al Gids è cresciuto in maniera esponenziale, passando da 468 a 2.519 all'anno: l'aumento è del 400%. Da mesi, dunque, in Inghilterra si discute parecchio del problema: possibile che ci siano così tanti minorenni decisi a intraprendere il doloroso percorso della transizione sessuale? Il fatto è che, molto probabilmente, dietro questa esplosione di richieste si celano parecchi fattori sociali e politici, ma farli emergere è parecchio complicato, poiché si rischia di urtare la sensibilità degli attivisti Lgbt. La situazione, tuttavia, è piuttosto grave, e lo dimostra quando sta accadendo all'interno del Tavistock Centre.
Tutto è iniziato quando alla stampa britannica è giunta notizia di un report interno firmato da David Bell. Questo signore non è uno qualsiasi. È stato presidente della Società psicanalitica britannica, è considerato un luminare nel suo campo e, soprattutto, è stato a capo del personale clinico del Gids. Il dottor Bell ci è andato giù pesante: ha spiegato, in buona sostanza, che il servizio per il cambio di sesso dei minorenni non è in grado di valutare adeguatamente i suoi giovanissimi pazienti. Non solo: ha detto che il Gids riceve parecchie pressioni «politiche», in particolare da parte degli attivisti che lottano per i diritti dei trans. Dopo l'uscita di Bell, la dottoressa Polly Carmichael (direttrice del Gids) ha dovuto ammettere pubblicamente che, in effetti, il suo centro riceve parecchie pressioni. Ma ha negato ogni tipo di negligenza. Caso risolto? Niente affatto. Pochi giorni fa, sul Tavistock Centre è piovuto un altro macigno.
Uno dei vertici del Tavistock & Portman Nhs foundation trust, Marcus Evans, ha dato le dimissioni. Costui è uno stimato psicoterapeuta, e faceva parte della fondazione che guida il Gids. Le motivazioni del suo addio le ha spiegate in un lungo articolo pubblicato dal quotidiano Daily Mail. In sostanza, Evans ha battuto sugli stessi tasti toccati da David Bell. «Il Gender identity developmente service», ha scritto Evans, «è stato accusato di essere troppo veloce nell'offrire cure mediche a bambini e ragazzi (farmaci che bloccano gli ormoni). Trattamenti che hanno conseguenze di vasta portata sconosciute e che, senza una sufficiente esplorazione dei sentimenti e delle motivazioni del bambino, possono avere effetti devastanti sulla sua vita, la sua identità e il suo sviluppo».
Evans accusa il Gids di voler evitare il problema. Sostiene che bisognerebbe affrontare di petto la questione, e chiedersi se non si stiano spingendo tanti ragazzini a cambiare sesso anche se non è assolutamente necessario. A suo dire, i medici che si occupano del cambio di sesso dei minorenni subiscono troppe pressioni, e prendono decisioni affrettate e pericolose. «C'è pressione da parte del bambino che si trova in stato di angoscia», spiega Evans. «C'è pressione da parte della famiglia e degli amici, c'è pressione da parte delle lobby pro-trans. E tutto questo mette sotto pressione il medico, che vorrebbe aiutare il paziente a risolvere il suo stato d'angoscia fornendo una soluzione rapida».
Già: i medici che dovrebbero valutare se i minorenni possono o no diventare trans non hanno la serenità per decidere. Vengono stressati dalle famiglie in difficoltà (ed è comprensibile) ma pure dalle «lobby pro trans» (e questo è decisamente inaccettabile). Questo è il punto più drammatico della faccenda. Due medici autorevoli che non si possono certo accusare di omofobia spiegano che il centro per il cambio di sesso «si è piegato alle pressioni di lobby pro trans altamente politicizzate». Tradotto, significa che - per non avere problemi - il Gids ha somministrato a una marea di minorenni i farmaci per bloccare la pubertà anche se non era il caso.
Leggendo il report firmato da David Bell si capisce che i ragazzini subiscono un fortissimo condizionamento sociale. E i medici, invece di affrontare con cautela il loro disagio, passano subito alla via farmacologica. Secondo Bell, «il servizio non prende pienamente in considerazione fattori psicologici e sociali che influiscono sul contesto dei ragazzi - ad esempio se siano stati vittime di abusi, se abbiano patito un lutto o soffrano di autismo - e potrebbero influenzare la loro decisione di cambiare genere». Dal canto suo, Marcus Evans esprime grande preoccupazione. Spiega che molti dipendenti del Tavistock Centre hanno paura di esporsi e parlare pubblicamente. Temono di essere accusati di «essere transfobici o di avere visioni bigotte».
Non è tutto. Un gruppo di genitori di ragazzini trans si è rivolto al quotidiano britannico Guardian esprimendo preoccupazione «per il fatto che Gids stia instradando rapidamente i ragazzi verso decisioni che cambiano la vita senza valutare appieno le loro storie personali». Fanno bene a essere spaventati, questi genitori. Gli effetti a lungo termine dei farmaci che bloccano la pubertà sono sostanzialmente ignote. Lo ha spiegato, alla Bbc, il professore di Oxford Carl Heneghan, ma lo ammettono persino i ricercatori (assolutamente trans friendly) dell'Università di San Francisco.
Vediamo di riepilogare. Due medici molto autorevoli dicono che il centro inglese specializzato nel cambio di sesso dei minorenni somministra farmaci per il blocco della pubertà ai ragazzini con troppa facilità, esponendoli a rischi ancora sconosciuti. Il tutto perché esistono fortissime pressioni, anche politiche. Insomma: si mette in pericolo la vita di migliaia di minori per non indispettire un manipolo di attivisti pro trans che straparlano di «diritti».
Botte tra femministe per un articolo sulla super mamma
In un Paese che da anni è alle prese con un gelido inverno demografico, una giovane famiglia con undici figli è un miracolo bello e buono. Bisognerebbe gioirne, congratularsi con l'eroe e l'eroina che hanno messo al mondo tanti pargoli sfidando ogni difficoltà. E invece no. Invece c'è chi li deride e li insulta, utilizzando la bella scusa dei «diritti delle donne».
Questi i fatti. Qualche giorno fa, sul Corriere della Sera, è uscita una bella intervista di Giusi Fasano a Claudia Guffanti, 38 anni, coraggiosa comasca che ha appena partorito l'undicesima figlia. Quando l'articolo è stato pubblicato online, si è scatenato l'inferno. Un plotone di sedicenti «femministe» ha cominciato a sparare contro la povera super mamma e contro il Corriere che l'aveva celebrata.
La più agguerrita è senz'altro Antonella Rampino, firma della Stampa, già responsabile della comunicazione della Corte costituzionale. La signora ha pubblicato su Twitter la foto dell'intervista alla mamma e ha commentato: «Incredibile e penoso. Campeggia vistoso sulla prima pagina del Corriere. Un quotidiano vero, libero e moderno dovrebbe occuparsi dei disegni oscurantisti di Pillon, non di celebrare un modello femminile stira-lava-cucina e sforna figli per la Patria». Già: fare figli e occuparsi della famiglia è roba da fascisti. Per la Rampino, i giornali seri devono dedicarsi soltanto a combattere gli oscuri disegni di questo governo razzista.
In un altro cinguettio, la signora ha spiegato che bisogna «liberare tutte le persone, a cominciare dalle donne. Invece di osannare ruoli arcaici, come chi ha scelto di fare 11 figli». Poi ha aggiunto che «aver figli non è una scelta. Ma è una scelta non averli».
A stretto giro è intervenuta sull'argomento pure Giulia Blasi, autrice di un libretto (edito da Rizzoli) che pretende di spiegare «perché il femminismo ci rende felici». Anche costei ce l'aveva con la mamma di Como e, soprattutto, con il Corriere: «Avete intervistato lei, non lui», ha scritto la Blasi su Twitter, «chiamandola “supermamma" in un momento in cui si cerca di inchiodarci con ogni mezzo alla maternità. Avete deciso che una scelta individuale che riduce alla domesticità doveva essere modello, e questo tweet lo prova». Quindi avere figli «riconduce alla domesticità». Bella questa, è nuova. Non paga, la Blasi ha aggiunto: «Poi possiamo parlare del perché una che fa figli debba essere “ammirata". Siamo mica nel Ventennio, per caso? I figli li fai se li vuoi fare, se no non li fai. Non sono una scelta eroica o ammirevole». Certo, i bambini sono come un pacco di cereali: se vuoi lo compri, se no lo lasci sullo scaffale.
A nulla sono valse le repliche di Antonio Polito e dell'autrice dell'intervista, Giusi Fasano. Le indomite femministe hanno proseguito a inveire contro la «super mamma», dipingendola sostanzialmente come una mentecatta schiava del patriarcato.
Qualcuno potrebbe domandarsi: ma perché date spazio alle opinioni di queste signore rabbiose? Il fatto è che si tratta di casi piuttosto emblematici: l'ideologia - quando si presenta in dosi massicce - produce questi effetti. La Rampino e la Blasi non sono isolate. Anzi, ben rappresentano chi, oggi, ha in odio la famiglia, e trasecola appena ne sente parlare. Se in questo Paese si fanno pochi figli è anche perché si è affermata la (presunta) cultura di cui le due vestali sono esponenti. Una «cultura» che, alla fine dei conti, odia la vita, che tratta chi mette al mondo bambini come un ignorante e un bifolco.
«Bisogna fare figli per la Patria, e pazienza se perdiamo decine di migliaia di lavoratrici, costrette dalla maternità a lasciare il lavoro», dice la Blasi. Speriamo che continui a educare le donne come si deve, se no rischiamo che in giro ci siano troppe mamme felici e poche lavoratrici single che si ammazzano di stress.
La Navratilova chiede scusa ai trans
I giorni passano ma la polemica continua. Dopo la dura presa di posizione di Martina Navratilova contro la concessione alle atlete transgender di competere nei tornei femminili, altre personalità di spicco sono intervenute con, sorprendentemente, diverse voci in appoggio all'ex campionessa di tennis, la quale però nel frattempo, subissata dalle critiche, è giunta a scusarsi. Per capire meglio, urge un riepilogo della vicenda.
Tutto ha avuto inizio nel dicembre scorso su Twitter, quando la Navratilova ha iniziato a mettere in discussione il fatto che in ambito sportivo basti sentirsi femmine per essere considerati tali: «Non puoi soltanto dichiararti donna per poter competere con le donne». Un cinguettio non passato inosservato e dopo il quale l'ex tennista americana si era ripromessa di non tornare sull'argomento, se non dopo averlo approfondito.
Si è così arrivati a domenica 17 febbraio quando, sulle colonne del Sunday Times, la vincitrice di 59 prove del Grande slam ha rincarato la dose contro quella che ha definito «una pratica folle, un vero imbroglio». «È sicuramente ingiusto per le donne che devono competere contro persone che, biologicamente, sono ancora uomini», sottolineava l'editoriale della Navratilova, che chiosava: «Sono felice di rivolgermi a una donna transgender in qualsiasi forma preferisca, ma non sarei felice di competere con lei». Apriti cielo. Nonostante fossero le parole di una leggenda dello sport per giunta dichiaratasi lesbica nel lontano 1981, e benché la critica alle atlete transgender - quella di «barare» - sia geneticamente non contestabile, si è sollevato, immancabile, un polverone.
Al punto che l'associazione di atlete Lgbt Athlete Ally è giunta prima a bollare come posizione «omofobica» quella dell'ex campionessa, e poi ad espellerla. Alla fine, il peso della polemica si è fatto sentire anche per la Navratilova, la quale domenica, sul suo sito, ha fatto ammenda: «So che il mio uso della parola “barare" ha scioccato la comunità transgender e mi dispiace. Non intendevo dare a nessuno dell'imbroglione, ma solo rifarmi al caso teorico di chi cambiasse genere, magari temporaneamente, per ricavarne un mero vantaggio competitivo».
Curiosamente, nelle stesse ore in cui l'ex tennista correggeva il tiro, altre voci del mondo dello sport si sono schierate dalla sua parte. Come Paula Radcliffe, ex maratoneta la quale ha solidarizzato con la Navratilova: «La capisco. Se sei nato maschio non puoi gareggiare nello sport femminile solo perché ti identifichi così. Significherebbe farsi beffe delle categorie sportive maschile e femminile».
Più pacato ma di tenore analogo il commento di Kelly Holmes, mezzofondista vincitrice di due ori olimpici: «Ciascuno può vivere come meglio crede, ma anche le donne hanno i loro diritti». Nette, invece, le parole dell'ex nuotatrice Sharron Davies: «Per proteggere lo sport femminile occorre far sì che chi ha un vantaggio sessuale non possa competere». Il vero pregiudizio, insomma, è quello di chi pensa che le donne non sappiano fare squadra.
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Riduci
La clamorosa denuncia di due autorità mediche inglesi: somministrati farmaci per bloccare la pubertà senza adeguate verifiche. I ragazzi indirizzati verso la transizione di genere con troppa superficialità.Il «Corriere» intervista Claudia Guffanti, la comasca che ha partorito 11 bimbi. E le vestali si scatenano: per loro la famiglia è roba da fascisti.La campionessa di tennis Martina Navratilova ha dovuto fare pubblica ammenda dopo le dichiarazioni «scorrette». Ma cresce il fronte delle atlete che non vogliono gli ex maschi nelle gare.Lo speciale contiene tre articoliIl Gender identity development service (Gids) ha sede nella zona Nord di Londra, all'interno del Tavistock Centre. Dipende dall'Nhs, il servizio sanitario nazionale britannico. È l'unico centro del Regno Unito a occuparsi dei bambini e ragazzi che vogliono cambiare sesso. I pazienti sono tutti minorenni, e vengono ovviamente accompagnati dai genitori. Negli ultimi cinque anni, il numero di richieste pervenute al Gids è cresciuto in maniera esponenziale, passando da 468 a 2.519 all'anno: l'aumento è del 400%. Da mesi, dunque, in Inghilterra si discute parecchio del problema: possibile che ci siano così tanti minorenni decisi a intraprendere il doloroso percorso della transizione sessuale? Il fatto è che, molto probabilmente, dietro questa esplosione di richieste si celano parecchi fattori sociali e politici, ma farli emergere è parecchio complicato, poiché si rischia di urtare la sensibilità degli attivisti Lgbt. La situazione, tuttavia, è piuttosto grave, e lo dimostra quando sta accadendo all'interno del Tavistock Centre. Tutto è iniziato quando alla stampa britannica è giunta notizia di un report interno firmato da David Bell. Questo signore non è uno qualsiasi. È stato presidente della Società psicanalitica britannica, è considerato un luminare nel suo campo e, soprattutto, è stato a capo del personale clinico del Gids. Il dottor Bell ci è andato giù pesante: ha spiegato, in buona sostanza, che il servizio per il cambio di sesso dei minorenni non è in grado di valutare adeguatamente i suoi giovanissimi pazienti. Non solo: ha detto che il Gids riceve parecchie pressioni «politiche», in particolare da parte degli attivisti che lottano per i diritti dei trans. Dopo l'uscita di Bell, la dottoressa Polly Carmichael (direttrice del Gids) ha dovuto ammettere pubblicamente che, in effetti, il suo centro riceve parecchie pressioni. Ma ha negato ogni tipo di negligenza. Caso risolto? Niente affatto. Pochi giorni fa, sul Tavistock Centre è piovuto un altro macigno. Uno dei vertici del Tavistock & Portman Nhs foundation trust, Marcus Evans, ha dato le dimissioni. Costui è uno stimato psicoterapeuta, e faceva parte della fondazione che guida il Gids. Le motivazioni del suo addio le ha spiegate in un lungo articolo pubblicato dal quotidiano Daily Mail. In sostanza, Evans ha battuto sugli stessi tasti toccati da David Bell. «Il Gender identity developmente service», ha scritto Evans, «è stato accusato di essere troppo veloce nell'offrire cure mediche a bambini e ragazzi (farmaci che bloccano gli ormoni). Trattamenti che hanno conseguenze di vasta portata sconosciute e che, senza una sufficiente esplorazione dei sentimenti e delle motivazioni del bambino, possono avere effetti devastanti sulla sua vita, la sua identità e il suo sviluppo». Evans accusa il Gids di voler evitare il problema. Sostiene che bisognerebbe affrontare di petto la questione, e chiedersi se non si stiano spingendo tanti ragazzini a cambiare sesso anche se non è assolutamente necessario. A suo dire, i medici che si occupano del cambio di sesso dei minorenni subiscono troppe pressioni, e prendono decisioni affrettate e pericolose. «C'è pressione da parte del bambino che si trova in stato di angoscia», spiega Evans. «C'è pressione da parte della famiglia e degli amici, c'è pressione da parte delle lobby pro-trans. E tutto questo mette sotto pressione il medico, che vorrebbe aiutare il paziente a risolvere il suo stato d'angoscia fornendo una soluzione rapida». Già: i medici che dovrebbero valutare se i minorenni possono o no diventare trans non hanno la serenità per decidere. Vengono stressati dalle famiglie in difficoltà (ed è comprensibile) ma pure dalle «lobby pro trans» (e questo è decisamente inaccettabile). Questo è il punto più drammatico della faccenda. Due medici autorevoli che non si possono certo accusare di omofobia spiegano che il centro per il cambio di sesso «si è piegato alle pressioni di lobby pro trans altamente politicizzate». Tradotto, significa che - per non avere problemi - il Gids ha somministrato a una marea di minorenni i farmaci per bloccare la pubertà anche se non era il caso.Leggendo il report firmato da David Bell si capisce che i ragazzini subiscono un fortissimo condizionamento sociale. E i medici, invece di affrontare con cautela il loro disagio, passano subito alla via farmacologica. Secondo Bell, «il servizio non prende pienamente in considerazione fattori psicologici e sociali che influiscono sul contesto dei ragazzi - ad esempio se siano stati vittime di abusi, se abbiano patito un lutto o soffrano di autismo - e potrebbero influenzare la loro decisione di cambiare genere». Dal canto suo, Marcus Evans esprime grande preoccupazione. Spiega che molti dipendenti del Tavistock Centre hanno paura di esporsi e parlare pubblicamente. Temono di essere accusati di «essere transfobici o di avere visioni bigotte».Non è tutto. Un gruppo di genitori di ragazzini trans si è rivolto al quotidiano britannico Guardian esprimendo preoccupazione «per il fatto che Gids stia instradando rapidamente i ragazzi verso decisioni che cambiano la vita senza valutare appieno le loro storie personali». Fanno bene a essere spaventati, questi genitori. Gli effetti a lungo termine dei farmaci che bloccano la pubertà sono sostanzialmente ignote. Lo ha spiegato, alla Bbc, il professore di Oxford Carl Heneghan, ma lo ammettono persino i ricercatori (assolutamente trans friendly) dell'Università di San Francisco.Vediamo di riepilogare. Due medici molto autorevoli dicono che il centro inglese specializzato nel cambio di sesso dei minorenni somministra farmaci per il blocco della pubertà ai ragazzini con troppa facilità, esponendoli a rischi ancora sconosciuti. Il tutto perché esistono fortissime pressioni, anche politiche. Insomma: si mette in pericolo la vita di migliaia di minori per non indispettire un manipolo di attivisti pro trans che straparlano di «diritti».<div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem1" data-id="1" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/minorenni-spinti-a-cambiare-sesso-per-non-urtare-gli-attivisti-lgbt-2630647697.html?rebelltitem=1#rebelltitem1" data-basename="botte-tra-femministe-per-un-articolo-sulla-super-mamma" data-post-id="2630647697" data-published-at="1765610564" data-use-pagination="False"> Botte tra femministe per un articolo sulla super mamma In un Paese che da anni è alle prese con un gelido inverno demografico, una giovane famiglia con undici figli è un miracolo bello e buono. Bisognerebbe gioirne, congratularsi con l'eroe e l'eroina che hanno messo al mondo tanti pargoli sfidando ogni difficoltà. E invece no. Invece c'è chi li deride e li insulta, utilizzando la bella scusa dei «diritti delle donne». Questi i fatti. Qualche giorno fa, sul Corriere della Sera, è uscita una bella intervista di Giusi Fasano a Claudia Guffanti, 38 anni, coraggiosa comasca che ha appena partorito l'undicesima figlia. Quando l'articolo è stato pubblicato online, si è scatenato l'inferno. Un plotone di sedicenti «femministe» ha cominciato a sparare contro la povera super mamma e contro il Corriere che l'aveva celebrata. La più agguerrita è senz'altro Antonella Rampino, firma della Stampa, già responsabile della comunicazione della Corte costituzionale. La signora ha pubblicato su Twitter la foto dell'intervista alla mamma e ha commentato: «Incredibile e penoso. Campeggia vistoso sulla prima pagina del Corriere. Un quotidiano vero, libero e moderno dovrebbe occuparsi dei disegni oscurantisti di Pillon, non di celebrare un modello femminile stira-lava-cucina e sforna figli per la Patria». Già: fare figli e occuparsi della famiglia è roba da fascisti. Per la Rampino, i giornali seri devono dedicarsi soltanto a combattere gli oscuri disegni di questo governo razzista. In un altro cinguettio, la signora ha spiegato che bisogna «liberare tutte le persone, a cominciare dalle donne. Invece di osannare ruoli arcaici, come chi ha scelto di fare 11 figli». Poi ha aggiunto che «aver figli non è una scelta. Ma è una scelta non averli». A stretto giro è intervenuta sull'argomento pure Giulia Blasi, autrice di un libretto (edito da Rizzoli) che pretende di spiegare «perché il femminismo ci rende felici». Anche costei ce l'aveva con la mamma di Como e, soprattutto, con il Corriere: «Avete intervistato lei, non lui», ha scritto la Blasi su Twitter, «chiamandola “supermamma" in un momento in cui si cerca di inchiodarci con ogni mezzo alla maternità. Avete deciso che una scelta individuale che riduce alla domesticità doveva essere modello, e questo tweet lo prova». Quindi avere figli «riconduce alla domesticità». Bella questa, è nuova. Non paga, la Blasi ha aggiunto: «Poi possiamo parlare del perché una che fa figli debba essere “ammirata". Siamo mica nel Ventennio, per caso? I figli li fai se li vuoi fare, se no non li fai. Non sono una scelta eroica o ammirevole». Certo, i bambini sono come un pacco di cereali: se vuoi lo compri, se no lo lasci sullo scaffale. A nulla sono valse le repliche di Antonio Polito e dell'autrice dell'intervista, Giusi Fasano. Le indomite femministe hanno proseguito a inveire contro la «super mamma», dipingendola sostanzialmente come una mentecatta schiava del patriarcato. Qualcuno potrebbe domandarsi: ma perché date spazio alle opinioni di queste signore rabbiose? Il fatto è che si tratta di casi piuttosto emblematici: l'ideologia - quando si presenta in dosi massicce - produce questi effetti. La Rampino e la Blasi non sono isolate. Anzi, ben rappresentano chi, oggi, ha in odio la famiglia, e trasecola appena ne sente parlare. Se in questo Paese si fanno pochi figli è anche perché si è affermata la (presunta) cultura di cui le due vestali sono esponenti. Una «cultura» che, alla fine dei conti, odia la vita, che tratta chi mette al mondo bambini come un ignorante e un bifolco. «Bisogna fare figli per la Patria, e pazienza se perdiamo decine di migliaia di lavoratrici, costrette dalla maternità a lasciare il lavoro», dice la Blasi. Speriamo che continui a educare le donne come si deve, se no rischiamo che in giro ci siano troppe mamme felici e poche lavoratrici single che si ammazzano di stress. <div class="rebellt-item col1" id="rebelltitem2" data-id="2" data-reload-ads="false" data-is-image="False" data-href="https://www.laverita.info/minorenni-spinti-a-cambiare-sesso-per-non-urtare-gli-attivisti-lgbt-2630647697.html?rebelltitem=2#rebelltitem2" data-basename="la-navratilova-chiede-scusa-ai-trans" data-post-id="2630647697" data-published-at="1765610564" data-use-pagination="False"> La Navratilova chiede scusa ai trans I giorni passano ma la polemica continua. Dopo la dura presa di posizione di Martina Navratilova contro la concessione alle atlete transgender di competere nei tornei femminili, altre personalità di spicco sono intervenute con, sorprendentemente, diverse voci in appoggio all'ex campionessa di tennis, la quale però nel frattempo, subissata dalle critiche, è giunta a scusarsi. Per capire meglio, urge un riepilogo della vicenda. Tutto ha avuto inizio nel dicembre scorso su Twitter, quando la Navratilova ha iniziato a mettere in discussione il fatto che in ambito sportivo basti sentirsi femmine per essere considerati tali: «Non puoi soltanto dichiararti donna per poter competere con le donne». Un cinguettio non passato inosservato e dopo il quale l'ex tennista americana si era ripromessa di non tornare sull'argomento, se non dopo averlo approfondito. Si è così arrivati a domenica 17 febbraio quando, sulle colonne del Sunday Times, la vincitrice di 59 prove del Grande slam ha rincarato la dose contro quella che ha definito «una pratica folle, un vero imbroglio». «È sicuramente ingiusto per le donne che devono competere contro persone che, biologicamente, sono ancora uomini», sottolineava l'editoriale della Navratilova, che chiosava: «Sono felice di rivolgermi a una donna transgender in qualsiasi forma preferisca, ma non sarei felice di competere con lei». Apriti cielo. Nonostante fossero le parole di una leggenda dello sport per giunta dichiaratasi lesbica nel lontano 1981, e benché la critica alle atlete transgender - quella di «barare» - sia geneticamente non contestabile, si è sollevato, immancabile, un polverone. Al punto che l'associazione di atlete Lgbt Athlete Ally è giunta prima a bollare come posizione «omofobica» quella dell'ex campionessa, e poi ad espellerla. Alla fine, il peso della polemica si è fatto sentire anche per la Navratilova, la quale domenica, sul suo sito, ha fatto ammenda: «So che il mio uso della parola “barare" ha scioccato la comunità transgender e mi dispiace. Non intendevo dare a nessuno dell'imbroglione, ma solo rifarmi al caso teorico di chi cambiasse genere, magari temporaneamente, per ricavarne un mero vantaggio competitivo». Curiosamente, nelle stesse ore in cui l'ex tennista correggeva il tiro, altre voci del mondo dello sport si sono schierate dalla sua parte. Come Paula Radcliffe, ex maratoneta la quale ha solidarizzato con la Navratilova: «La capisco. Se sei nato maschio non puoi gareggiare nello sport femminile solo perché ti identifichi così. Significherebbe farsi beffe delle categorie sportive maschile e femminile». Più pacato ma di tenore analogo il commento di Kelly Holmes, mezzofondista vincitrice di due ori olimpici: «Ciascuno può vivere come meglio crede, ma anche le donne hanno i loro diritti». Nette, invece, le parole dell'ex nuotatrice Sharron Davies: «Per proteggere lo sport femminile occorre far sì che chi ha un vantaggio sessuale non possa competere». Il vero pregiudizio, insomma, è quello di chi pensa che le donne non sappiano fare squadra.
Il grande direttore d'orchestra rilancia l'appello alla politica affinché trovi una via diplomatica per convincere la Francia a far tornare nella sua città natale il compositore fiorentino, che ora riposa al cimitero di Père-Lachaise. Il sogno? Dirigere il Requiem del genio toscano nella Basilica di Santa Croce, dove è già pronto il suo cenotafio.
Maurizio Landini (Ansa)
Nessun sindacalista lo ammetterà mai, ma c’è un dato che più di ogni altro fa da spartiacque tra uno sciopero riuscito e un flop. Una percentuale minima al di sotto della quale è davvero difficile cantare vittoria: l’adesione almeno degli iscritti. Insomma, se sostieni, come fa ripetutamente Maurizio Landini di essere il portavoce di un sedicente malcontento montante che sarebbe addirittura maggioranza nel Paese e ti intesti una battaglia in solitaria lasciando alle spalle Cisl e Uil e poi non ti seguono neanche i tuoi, c’è un problema.
E il problema, numeri alla mano, esiste. Ed è pure grosso. Basta vedere le percentuali dei lavoratori che hanno deciso di spalleggiare l’ennesima rivolta politica e tutta improntata ad attaccare il governo Meloni del leader della Cgil. Innanzitutto nel pubblico impiego. Tra gli statali (scuola, sanità, dipendenti di ministeri, enti locali ecc.) ci sono circa 2,7 milioni di dipendenti contrattualizzati. E tra questi il 12% ha in tasca la tessera della Cgil. Bene, a fine giornata i dati ufficiali parlavano di circa il 4,4% complessivo di adesione all’ennesimo logoro show di Landini. Messa in soldoni: ormai anche la Cgil si è stancata del suo segretario che combatte una battaglia personale e quasi sempre sulle spalle dei lavoratori.
Che in corso d’Italia monti il malcontento, La Verità lo evidenzia da un po’ di tempo, ma il dato degli impiegati dello Stato è particolarmente significativo. Perché è intorno agli statali che l’ex leader della Fiom ha combattuto e poi perso la sua battaglia più significativa. Per mesi e mesi, infatti, spalleggiato dalla Uil e dall’ex alleato Pierpaolo Bombardieri, Landini ha bloccato il rinnovo dei contratti della Pa.
Circa 20 miliardi, già stanziati dal governo, fermi. E aumenti tra i 150 e i 170 euro lordi al mese, con istituti di favore come la settimana cortissima e il ticket anche in smart working, preclusi ai lavoratori per l’opposizione a prescindere del compagno Maurizio. Certo, lui l’ha spiegata come una lotta di giustizia sociale che aveva l’obiettivo di recuperare tutta l’inflazione del periodo (2022-2024). Ma si trattava di un bluff. Perché la Cgil con governi di un colore diverso ha rinnovato contratti decisamente meno convenienti e che comunque non coprivano il carovita.
Insomma, quella sugli accordi della pubblica amministrazione è diventata l’ultima frontiera dell’opposizione a prescindere. E su quella battaglia Landini si è schiantato. Prima nel merito, perché alla fine la Uil l’ha mollato e i contratti sono stati firmati. E poi sul campo: perché se almeno la metà degli iscritti diserta sciopero (e siamo benevoli), vuol dire che i tuoi stanno bocciando una linea che porta nelle piazza, sulle barricate e sui giornali, ma lascia i lavoratori con le tasche sempre più vuote.
«Il dato», spiega alla Verità il ministro della Pubblica amministrazione Paolo Zangrillo, «certifica l’ennesimo flop degli scioperi generali, un fallimento che finisce tutto sulle spalle della Cgil che nel pubblico impiego può contare su circa 300.000 iscritti. Pur ammettendo che tutti gli aderenti siano tesserati di Landini e che le proiezioni del pomeriggio vengano confermate, la bocciatura interna per la linea del segretario sarebbe evidente. E, del resto, questo disagio era palese anche sul tavolo delle trattative per il rinnovo del contratto. È arrivato il momento che anche all’interno del sindacato si apra una riflessione sincera».
E se tra gli statali la sconfitta è stata cocente, non meglio è andata nel privato. Dove, però, i dati sono più frammentati. Secondo le rilevazioni degli altri sindacati, ci sono alcune situazioni clamorose e altri meno, ma sempre di batoste si tratta.
Appartengono al primo caso le adesioni ferme a quota 1% nei cantieri delle grandi opere: dal Brennero fino al Terzo valico e alla Tav. Si risale al 5% negli stabilimenti di produzione e lavorazione di cemento, legno e laterizi, ma in generale la partecipazione nell’edilizia è stata bassissima.
Come nell’agroalimentare, dove, se si fa eccezioni per la rossa Emilia-Romagna (ai reparti produttivi della Granarolo si è arrivati a sfiorare il 50%), i risultati nelle piccole e medie imprese sono quasi tutti sotto il 5%. La media tra le aziende elettriche è del 5%, nelle Poste siamo fermi al 2,5% e nelle banche si sfiora l’1%. Leggermente meglio nel terziario e nel commercio (dove viene toccato il 10%), così come si contano sulle punte delle dita i siti delle realtà industriali in doppia cifra (Ex Ilva a Novi, Marcegaglia di Dusino San Michele in Piemonte e alcuni siti di Leonardo).
Insomma, al balletto delle cifre nelle manifestazioni siamo abituati e che ci siano delle enormi differenze numeriche tra promotori dello sciopero e controparte sta nelle regole del gioco, eppure si fa davvero fatica a capire da dove il sindacato rosso abbia tirato fuori il dato del 68% delle adesioni. Se 7 lavoratori su 10 si fermano, l’Italia si blocca. Non solo i trasporti, ma tutto il sistema finisce in una sorta di pericoloso stand by collettivo. Nulla a che vedere con quello che è successo sul territorio che ieri ha subito qualche prevedibile disagio da effetto-annuncio, ma poco più. Ma, del resto, nel Paese immaginario che sta raccontando Landini può succedere questo e altro.
Landini straparla di regime e agita lo sciopero infinito
«Fanno bene ad avere qualche timore, avere qualche paura, perché non ci fermano. Non so come dirlo, non ci fermano e, siccome siamo convinti di rappresentare la maggioranza del Paese, andremo avanti fino a quando questa battaglia l’abbiamo vinta». È stato questo il grido di battaglia, ieri, del segretario generale della Cgil, Maurizio Landini, a Firenze dove ha partecipato al corteo nel giorno dello sciopero generale contro la legge di bilancio, salari bassi, precarietà e caro-vita.
Una protesta «per cambiare la manovra 2026, considerata del tutto inadeguata a risolvere i problemi del Paese, malgrado le modifiche appena approvate, per sostenere investimenti in sanità, istruzione, servizi pubblici e politiche industriali, per fermare l’innalzamento dell’età pensionabile, per contrastare la precarietà». Insomma, i temi sul tavolo di ogni governo degli ultimi 30 anni, basti pensare alla sanità da sempre gestita dalla sinistra da Rosy Bondi in poi, ma che, per Landini e sinistra, sembrano esplosi con l’arrivo del governo Meloni. E, ignorando totalmente i dati dell’occupazione che cresce in maniera costante, arriva a sostenere che «La precarietà non è un problema dei giovani: se vogliamo combattere e contrastare la precarietà, sono quelli che non sono precari che, innanzitutto, si devono battere e scioperare per cancellare la precarietà. Questa è la solidarietà, questo è il sindacato».
«Quando ho lavorato», ha ricordato Landini, «io la precarietà non l’ho conosciuta. E vorrei che fosse chiaro, non è merito mio, eh, io non avevo fatto niente, ero andato semplicemente a lavorare. Ma mi sono trovato dei diritti, perché quelli prima di me, che quei diritti lì non ce ne avevano, si erano battuti per ottenerli. Non per loro, ma per tutti. Tre mesi dopo che ero assunto come apprendista, ho potuto operare e partecipare a una manifestazione senza essere licenziato. Non m’hanno fatto prove del carrello», ha detto riferendosi ai tre lavoratori della catena Pam allontanati dopo un controllo a sorpresa che ha simulato un furto. «Dobbiamo far parlare il Paese reale, perché dobbiamo raccontare quel che succede: qui siamo, ormai, a un regime, ci raccontano un Paese che non c’è, ci raccontano una quantità di balle, che tutto va bene, tutto sta funzionando. Non è così».
Il leader della Cgil ha, poi, sottolineato che oggi c’è «un obiettivo esplicito della politica e del governo: mettere in discussione l’esistenza stessa del sindacato confederale come soggetto che ha diritto di negoziare alla pari col governo». Al segretario che un anno fa voleva «rivoltare il Paese come un guanto», lo sciopero politico di ieri gli è comunque costato la mancata unità sindacale con Cisl, Uil e Ugl ormai fuori sintonia. Landini ha chiarito che «il diritto di sciopero è un diritto costituzionale e non accetteremo alcun tentativo di metterlo in discussione o di limitarlo. Oggi siamo in piazza non contro altri lavoratori o altri sindacati, ma per estendere questi diritti a tutti. Quando un governo prova a delegittimare chi protesta o a ridurre gli spazi di partecipazione democratica, significa che non vuole ascoltare il disagio reale che attraversa il Paese. Lo sciopero è per cambiare politiche sbagliate. E la grande partecipazione che vediamo oggi dimostra che c’è un Paese che chiede un cambio di rotta».
«Il Paese non è più disponibile a un’altra legge di bilancio di austerità e di tagli», ha affermato il leader di Avs, Nicola Fratoianni, presente alla manifestazione con Angelo Bonelli. Sul palco in piazza del Carmine ha trovato posto anche la protesta dei giornalisti de La Stampa e Repubblica, in sciopero dopo l’annuncio di Exor della cessione del gruppo editoriale Gedi al magnate greco Theodore Kyriakou. Mai così in prima fila nella solidarietà ad altre crisi di giornali meno «amici», Landini ha spiegato il perché: «Pensiamo che quello che sta succedendo sia un tentativo esplicito di mettere in discussione la libertà di stampa e la possibilità concreta di proseguire e di fare serie politiche industriali. Mi sembra evidente quello che sta succedendo: abbiamo imprese e imprenditori che, dopo aver fatto i profitti, chiudono le imprese, se ne vogliono andare dal nostro Paese per usare i soldi e quella ricchezza che è stata prodotta da chi lavora, da altre parti. Ecco, quelli che fanno i patrioti dove sono? Stanno difendendo chi? Difendono quelli che pagano le tasse che tengono in piedi questo Paese o difendono quelli che chiudono le aziende che investono da un’altra parte?». C’è voluta la vendita di Repubblica perché Landini attaccasse Elkann visto che dalla nascita di Stellantis, nel gennaio 2021, l’azienda ha licenziato solo in Italia attraverso esodi incentivati 7.500 lavoratori. Del restom lo ha detto chiaramente Carlo Calenda di Azione: «Da quando la Repubblica è stata comprata da Elkann, Fiom e Cgil hanno smesso di dare battaglia che prima facevano con Sergio Marchionne quando la produzione aumentava, adesso che è crollata non li senti più dire nulla».
Intanto ieri Landini non ha nascosto la sua soddisfazione per la risposta allo sciopero, «le piazze si sono riempite e le fabbriche svuotate», rinfocolando la polemica a distanza con il ministro dei Trasporti, Matteo Salvini, che aveva definito «irresponsabile» bloccare il Paese. «Noi stiamo facendo il nostro mestiere, quello che non fa Salvini», la replica del segretario della Cgil. Il vicepremier leghista ieri ha visitato la centrale operativa delle Ferrovie dello Stato per verificare le ricadute dello sciopero, ed ha definito «incoraggianti» i dati sull’adesione, «con disagi limitati» dovuti soprattutto all’effetto «annuncio».
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John Elkann (Getty Images)
Eppure, mentre assiste impassibile alla disfatta dell’industria automobilistica italiana, la sinistra si agita per la vendita di Gedi, ovvero di ciò che resta del gruppo editoriale che un tempo faceva capo alla famiglia De Benedetti. Nel corso degli anni, dopo aver comprato dai figli dell’Ingegnere decine di testate, tra cui Repubblica, l’Espresso e un pacchetto di giornali locali, Elkann ha provveduto a smembrare e cedere quasi tutto. Venduto lo storico settimanale che all’inizio dava il nome al gruppo e il cui titolo era quotato in Borsa. Via il Secolo XIX, quotidiano con forti radici in tutta la Liguria. Passati di mano il Tirreno a Livorno, la Nuova Sardegna a Sassari, il Piccolo a Udine, il Messaggero Veneto a Pordenone. Mollati a imprenditori locali la Gazzetta di Mantova e pure quella di Reggio Emilia e Modena, la Nuova Ferrara, la Provincia Pavese, il Mattino di Padova, la Tribuna di Treviso, la Nuova di Venezia e perfino la Sentinella del Canavese, tra Ivrea e Val d’Aosta. Insomma, un impero di carta fatto a pezzi minuti, che alla fine è rimasto con sole due testate, ovvero Repubblica (con propaggini come Huffington Post, Limes e National Geographic) e La Stampa, oltre a tre radio, la più importante delle quali è Radio Deejay. I giornali ancora nelle mani del nipote dell’Avvocato sono un buco nero, anzi rosso, di perdite. Dopo svalutazioni da centinaia di milioni, continuano a perdere soldi, oltre che copie. Le sole soddisfazioni arrivano dalle emittenti: per il resto solo dolori e niente gioie.
Si sapeva che Elkann volesse disfarsi di tutto, anche perché vorrebbe disfarsi pure degli stabilimenti e trasferirsi felice a Parigi o in America, dove peraltro studiano i figli. Si sapeva anche che il suo interesse nei confronti dei giornali fosse pari a zero. La Stampa se l’era ritrovata sulle spalle insieme con una montagna di miliardi, ma l’amore per la testata non era proprio fortissimo. Repubblica e il resto se li era comprati all’improvviso dai De Benedetti per fare quello che De Benedetti, Carlo, aveva fatto per anni benissimo, ossia accreditarsi con la politica. I giornali della sinistra dovevano coprire la ritirata dall’Italia, l’addio all’industria automobilistica. E forse sono serviti a limitare le polemiche, visto che Landini a lungo ha concesso interviste a Repubblica e Stampa senza mai lamentarsi troppo di quello che stava accadendo nelle fabbriche del gruppo.
Certo, fa un po’ impressione vedere la Bibbia di generazioni di compagni, che dopo aver soppiantato perfino l’Unità viene venduta come se fosse una Magneti Marelli qualsiasi. Una cessione nel cinquantesimo esatto della fondazione, per di più a un imprenditore straniero che pare essere in affari con quel «principe rinascimentale» (copyright Renzi) di Bin Salman, uno che i giornalisti di solito li fa a pezzi. Ma soprattutto, una vendita contro cui sindacato e sinistra chiedono l’intervento di quella Giorgia Meloni che fino a ieri era considerata una minaccia per la libertà di stampa. Tuttavia, impressiona di più la levata di scudi della sinistra per una Casta di colleghi che a lungo ha guardato con sufficienza il mondo, ritenendosi intoccabile. Poi qualcuno si chiede perché gli operai non votino più né il Pd né i cespugli che gli ruotano attorno, mentre alla Cgil siano rimasti solo i pensionati.
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