Il cadavere del leader di Hamas in un tunnel sotto l'ospedale europeo a Khan Younis nella Striscia di Gaza. Lo confermano l'Idf e lo Shin Bet al Times of Israel. Sinwar sarebbe stato ucciso durante un attacco israeliano lo scorso 13 maggio.
Steve Witkoff (Ansa)
L’inviato Witkoff: «Buone sensazioni». I miliziani cederebbero il governo della Striscia.
«Abbiamo eliminato Muhammed Sinwar». Con queste parole il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha confermato per la prima volta l’uccisione del capo di Hamas dopo gli attacchi condotti dall’Idf a Khan Yunis due settimane fa. Non sono arrivati commenti da parte di Hamas, ma ieri il gruppo terroristico pare che abbia raggiunto un accordo sul cessate il fuoco con l’inviato americano per il Medio Oriente, Steve Witkoff. Hamas, nell’annunciare l’intesa, ha reso noto che la bozza prevede il rilascio di dieci ostaggi israeliani in cambio di detenuti palestinesi. Sarebbe previsto anche il ritiro completo dell’Idf dalla Striscia, mentre Hamas si impegna a «trasferire l’amministrazione» di Gaza a «un comitato professionale». Witkoff ha poi comunicato ieri di avere «buone sensazioni» sulla tregua.
Su Israele potrebbero però arrivare altri due mandati d’arresto da parte della Corte penale internazionale (Cpi). I destinatari sarebbero il ministro delle Finanze, Bezalel Smotrich, e il ministro della Sicurezza nazionale, Itamar Ben Gvir. A riportare l’indiscrezione è stato il Wall Street Journal: il procuratore capo della Cpi, Karim Khan, prima di dimettersi temporaneamente per l’indagine a suo carico su presunte molestie sessuali, stava preparando la richiesta dei mandati di cattura contro Smotrich e Ben Gvir per il loro presunto ruolo nella creazione di nuovi insediamenti dal 2014. Non si sa ancora però se i vice di Khan procederanno vista la debolezza della Cpi. Di certo, a non temere le ripercussioni è proprio Ben Gvir, che ieri ha scritto su X: «Quando l’Aia è contro di me, so di essere sulla strada giusta».
Ma oltre alla Cpi, Gerusalemme deve far fronte alle accuse dell’Onu. Un alto funzionario delle Nazioni unite ha reso noto che martedì, quando il centro di distribuzione di aiuti a Gaza era circondato da migliaia di palestinesi, si sarebbero registrati 47 feriti, per lo più causati dai colpi d’arma da fuoco dell’Idf. L’esercito israeliano ha però smentito, con il portavoce Olivier Rafowicz che ha spiegato: «I soldati israeliani hanno sparato colpi di avvertimento in aria, nell’area esterna al sito, in nessun modo verso le persone». D’altro canto ieri centinaia di gazawi avrebbero preso d’assalto i magazzini di Hamas alla ricerca di farina e i terroristi avrebbero risposto con il fuoco, uccidendo cinque persone.
A 600 giorni di distanza dal massacro del 7 ottobre e con 50.000 bambini rimasti uccisi o feriti a Gaza secondo l’Unicef, sono stati rivolti appelli all’unisono affinché si raggiunga la tregua e si rispetti il diritto umanitario.
Papa Leone XIV, alla fine dell’udienza generale, ha ricordato: «Dalla Striscia di Gaza si leva sempre più intenso al cielo il pianto delle mamme e dei papà che stringono a sé i corpi senza vita dei bambini». Oltre al cessate il fuoco e alla liberazione degli ostaggi, ha richiesto che sia rispettato «integralmente il diritto umanitario». Anche il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, durante un’informativa alla Camera su Gaza, ha richiesto che sia ripristinato «il rispetto del diritto internazionale umanitario». E spiegando che «la legittima reazione del governo israeliano a un terribile e insensato atto terroristico, sta assumendo forme assolutamente drammatiche e inaccettabili», ha anche chiarito che «l’espulsione dei palestinesi da Gaza non è e non sarà mai un’opzione accettabile».
L’Alto rappresentante Ue, Kaja Kallas, ha sottolineato in una nota che «l’aiuto umanitario non deve mai essere politicizzato o militarizzato». Anche la Turchia e la Russia hanno richiesto «una pressione maggiore su Israele» e «misure urgenti per la de-escalation».
L’unica voce fuori dal coro ieri è stata quella americana. Il presidente americano, Donald Trump, rispondendo a una giornalista, ha spiegato di non essere «frustrato» dalle azioni di Netanyahu, aggiungendo: «Stiamo gestendo la situazione a Gaza» e «stiamo dando cibo alla gente di Gaza».
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Mark Rutte e Recep Tayyip Erdogan (Ansa)
- La comunità internazionale guarda ancora al Sultano per il suo ruolo di mediatore tra Russia e Ucraina. Ma questo tavolo è solo l’ultimo che vede la Turchia come perno nelle mediazioni delle crisi, dal Caucaso al Medio Oriente, dai Balcani fino al Corno d’Africa.
- Il leader di Hamas era in un bunker sotterraneo. Netanyahu: «Presto entreremo a Gaza».
Lo speciale contiene due articoli.
In queste ore l’attenzione della comunità internazionale è puntata tutta su Istanbul, dove a partire da giovedì si svolgeranno nuovi incontri negoziali tra Russia e Ucraina. L’iniziativa, specie se avrà successo, potrebbe rappresentare un passaggio decisivo nel tentativo di fermare una guerra che dura da oltre tre anni. In ogni caso, Recep Tayyip Erdogan - che ha mantenuto fin dall’inizio del conflitto un canale di comunicazione aperto sia con Mosca che con Kiev - è tra i pochi leader sulla scena internazionale a godere della fiducia di entrambe le parti in causa. Donald Trump ha definito l’appuntamento «di grande rilevanza» e ha espresso apprezzamento per l’impegno della Turchia e del suo leader nel facilitare il confronto. «Mi sono battuto affinché questo faccia a faccia si concretizzasse e credo che ne possano scaturire sviluppi promettenti», ha detto il presidente americano in una dichiarazione ai media. Le parole di Trump arrivano in un momento in cui Ankara rafforza la propria posizione come interlocutore centrale nei processi diplomatici internazionali. Inoltre, Ankara ha appena registrato la decisione del Comitato direttivo del Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), organizzazione armata curda attiva in Turchia, che ha annunciato lo scioglimento del gruppo. La decisione è maturata al termine di un congresso straordinario, convocato proprio per deliberare sulla fine delle attività del movimento. Lo scioglimento era atteso da settimane: lo scorso 27 febbraio, il leader storico del Pkk, Abdullah Öcalan, aveva inviato una lettera dal carcere chiedendo ufficialmente la cessazione della lotta armata e lo smantellamento del partito. A seguito di quell’appello, il comitato direttivo aveva proclamato un cessate il fuoco con lo Stato turco e fissato la convocazione del congresso per ratificare la svolta storica. Piaccia o meno, Erdogan sa giocare su tutti i tavoli, compreso quello della Nato, e in tal senso ieri ha ricevuto ad Ankara il segretario generale designato dell’Alleanza atlantica Mark Rutte al quale ha ribadito l’impegno della Turchia nel promuovere una soluzione diplomatica al conflitto tra Russia e Ucraina. Secondo quanto riportato dalla stampa turca, Erdogan ha sottolineato che Ankara ha intensificato «gli sforzi per favorire una pace duratura e giusta». Nel corso del colloquio il leader turco ha riferito di aver avuto contatti diretti con il presidente russo Vladimir Putin e quello ucraino Volodymyr Zelensky, riaffermando il pieno sostegno della Turchia all’istituzione di un cessate il fuoco. Erdogan ha inoltre ribadito la sua posizione contraria a un coinvolgimento diretto della Nato nel conflitto, affermando che «non si deve perdere l’opportunità per la pace». Il presidente turco durante l’incontro ha anche informato Rutte che la Turchia riprenderà il comando della Kosovo Force della Nato. Negli ultimi anni Ankara ha assunto un ruolo sempre più attivo e riconosciuto nella mediazione delle crisi, spaziando dal Caucaso al Medio Oriente, dai Balcani al Corno d’Africa. La crescente centralità turca non è frutto del caso ma il risultato di una strategia perseguita nel tempo, fondata su quattro capisaldi: neutralità, profondità storica delle relazioni, abilità negoziale e una collocazione geografica di assoluto rilievo. A proposito di questo, nel 2001 uscì un libro scritto da Ahmet Davutoglu, all’epoca politologo quasi sconosciuto (che diventerà poi primo ministro della Turchia dal 28 agosto 2014 al 24 maggio 2016), intitolato La Posizione internazionale della Turchia. Nel volume Davutoglu teorizza la dottrina delle «profondità strategica» della Turchia che secondo il politologo non doveva accontentarsi del ruolo di media potenza regionale, ma puntare a una posizione di rilievo sulla scena globale. Davutoglu fonda la sua teoria su un presupposto considerato oggettivo: la centralità geografica della Turchia in una regione di straordinaria rilevanza strategica, che abbraccia i Balcani, il Mar Nero, il Caucaso, il Mediterraneo orientale, il Golfo Persico e l’Asia Centrale. Secondo questa visione, tale posizione conferisce ad Ankara un ruolo imprescindibile nella gestione delle crisi e nella promozione del dialogo tra i Paesi dell’area, rendendola un interlocutore chiave per qualunque tentativo di stabilire forme di cooperazione regionale. Tra le principali conquiste recenti della diplomazia turca figura l’«Iniziativa sul grano del Mar Nero», lanciata nel luglio 2022, che ha permesso la ripartenza delle esportazioni agricole ucraine, bloccate a causa della guerra, contribuendo a mitigare le pressioni internazionali sulla sicurezza alimentare. Nello stesso anno Istanbul è stata teatro di un importante scambio di prigionieri tra Russia e Ucraina, oltre che di un incontro diretto tra i ministri degli Esteri delle due nazioni. L’azione diplomatica di Ankara, però, si estende ben oltre i confini europei. Nel dicembre 2024, la Turchia ha avuto un ruolo determinante nella mediazione di un accordo storico tra Etiopia e Somalia, che ha posto fine a una crisi nata in seguito all’intesa tra Addis Abeba e il Somaliland.
Nel Caucaso, Ankara ha offerto sostegno politico e militare all’Azerbaigian nella riconquista del Nagorno-Karabakh, per poi favorire l’avvio di un processo di dialogo con l’Armenia. A livello globale, nell’agosto 2024, l’intelligence turca (Mit) ha orchestrato uno scambio multilaterale di detenuti che ha coinvolto sette Paesi, tra cui Stati Uniti, Russia, Germania e Bielorussia.
L’Idf colpisce l’ospedale di Khan Yunis. I media israeliani: «Ucciso Sinwar»
Secondo fonti israeliane, il leader di Hamas, Mohammed Sinwar, è stato ucciso. Ieri pomeriggio un raid dell’Idf ha colpito l’ospedale di Khan Yunis con l’obiettivo, dichiarato, di eliminare il terrorista, nonché fratello di Yahya Sinwar, precedente capo dell’organizzazione terroristica.
Stando a quanto ha riportato una fonte israeliana a Yinet, il primo bombardamento sarebbe stato condotto senza informare Washington, anche perché la decisione è stata presa in fretta, cogliendo «un’opportunità improvvisa». Poco dopo ci sarebbe stato un altro raid sempre vicino allo stesso ospedale del Sud di Gaza. L’Idf e lo Shin bet hanno dichiarato di aver condotto l’attacco contro i terroristi di Hamas in un centro di comando sotterraneo, al di sotto quindi dell’ospedale.
Mohammed Sinwar ha assunto le redini di Hamas dopo l’uccisione del fratello e come lui è «capace di uccidere senza esitazione», secondo i racconti di chi lo ha conosciuto. Considerato uno degli architetti della strage del 7 ottobre, è stato tra i primi a essere reclutato nell’organizzazione terroristica. Nel 2006 aveva organizzato il rapimento del soldato israeliano Gilad Shalit per ottenere lo scambio dei prigionieri e liberare così il fratello Yahya, al tempo detenuto in Israele.
Poche ore prima dal raid israeliano, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu ha annunciato: «Non ci sarà alcuna situazione in cui fermeremo la guerra». Bibi ha anche fatto presente che l’esercito israeliano è pronto a entrare «con tutta la sua forza» a Gaza nei prossimi giorni «per completare l’operazione e sconfiggere Hamas». Ieri il premier israeliano ha anche dichiarato che è alla ricerca di Paesi disposti ad accogliere i gazawi.
A tal fine, ha reso noto che è stato creato «un istituto che permetterà loro di andarsene», stimando che «oltre il 50 per cento» dei residenti di Gaza sarebbero pronti a lasciare la Striscia.
Intanto ieri il presidente americano Donald Trump, la cui agenda non prevede una sosta in Israele, ha iniziato la sua missione in Medio Oriente. Ieri è stato accolto all’aeroporto di Riad dal principe ereditario saudita, Mohammed bin Salman. «Credo davvero che ci piacciamo molto» ha detto il tycoon rivolgendosi al principe, con le parole che hanno trovato conferma nei fatti. «Il più grande accordo di vendita per la difesa della storia, del valore di 142 miliardi di dollari» è stato firmato ieri tra gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita e prevede la fornitura a Riad di «attrezzature e servizi bellici all’avanguardia da oltre una dozzina di aziende statunitensi del settore». Dall’altra parte, l’Arabia Saudita si impegna «a investire 600 miliardi di dollari negli Stati Uniti» con l’obiettivo di «rafforzare la sicurezza energetica, l’industria della difesa, la leadership tecnologica e l’accesso alle infrastrutture globali e ai minerali essenziali».
Nel pomeriggio, dal forum di investimenti Usa-Arabia Saudita, il tycoon ha annunciato di voler offrire all’Iran «una nuova e migliore strada verso un futuro molto più promettente», ricordando però che quest’opportunità «non dura per sempre». Tra l’altro allo stesso evento hanno partecipato anche i ceo delle big tech americane.
Se ieri il presidente degli Stati Uniti ha celebrato gli 80 anni dei rapporti tra Washington e Riad, oggi Trump saluterà il leader di un Paese con cui la Casa Bianca non si incontra da 25 anni: il presidente della Siria, al-Jolani. Già ieri il tycoon ha annunciato che ordinerà «la fine delle sanzioni contro la Siria».
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2024-10-19
Meloni in missione in Giordania e Libano: «Unifil va rafforzata, sono vicina ai soldati»
Giorgia Meloni con il comandante della missione bilaterale italiana in Libano, colonnello Matteo Vitulano (Ansa)
Il premier a Beirut ribadisce l’impegno per la pace: «Abbiamo proposto una tregua di 21 giorni, ora serve uno sforzo di Israele».
Il clamore e l’importanza della notizia dell’uccisione del leader di Hamas, Yahya Sinwar, da parte dell’Idf, non ha distolto l’attenzione sull’altro fronte caldo della guerra in Medio Oriente: il Libano. Ieri, nel giorno della visita di Giorgia Meloni a Beirut, un comunicato diffuso da Hezbollah ha annunciato che il conflitto si appresta a «una transizione verso una nuova fase di escalation nel confronto con il nemico israeliano, che si rifletterà negli sviluppi e negli eventi dei prossimi giorni» e ha promesso di «continuare il sostegno al popolo palestinese che resiste alla criminale aggressione sionista».
L’organizzazione sciita filo iraniana ha inoltre ammesso di aver impiegato per la prima volta missili a guida di precisione per colpire l’esercito dello Stato ebraico che, in tutta risposta, ha deciso di richiamare al fronte una brigata aggiuntiva formata da riservisti specializzati in missioni operative: «Ciò consentirà il proseguimento degli sforzi di combattimento contro l’organizzazione terroristica Hezbollah e di raggiungere gli obiettivi della guerra, compreso il ritorno in sicurezza nelle proprie case degli abitanti del Nord di Israele» hanno spiegato dal quartier generale dell’Idf.
Negli ultimi giorni, in particolare da quando è esplosa la grana Unifil, si è discusso molto del ruolo del governo libanese. Il premier Najib Mikati, dopo aver incontrato Meloni, ha in qualche modo preso una posizione di distanza da Hezbollah con una dichiarazione non netta, ma comunque indicativa: «Il futuro del Libano risiede nella dissociazione del Libano stesso dai conflitti che sono intorno a lui», riferendosi al proseguimento della lotta per e nella Striscia di Gaza dichiarata dal Partito di Dio. Una lotta che continua a colpi di razzi e missili lanciati verso il Nord di Israele: ieri mattina ne sono partiti 15, tutti intercettati o caduti in aree aperte sul suolo israeliano, in serata ne sono stati abbattuti tre nell’area attorno alla baia di Haifa. Tutto sotto gli occhi dei Caschi blu dell’Onu.
Proprio la missione Unifil, che mette a rischio l’incolumità tra gli altri del contingente italiano, è stato uno degli argomenti principali del colloquio tra Meloni e Mikati. Il presidente del Consiglio ha esortato tutte le parti coinvolte nel conflitto a garantire la sicurezza dei soldati impiegati nella missione Unifil: «Prendere di mira l’Unifil è inaccettabile. I militari della Forza di interposizione delle Nazioni Unite in Libano saranno necessari in ogni scenario post conflitto. Solo rafforzando Unifil saremo capaci di voltare pagina, in coordinamento con l’esercito libanese, garantendo imparzialità e perseguendo risultati importanti». Meloni ha poi posto l’attenzione su quello che doveva essere e dovrà tornare a essere l’obiettivo della risoluzione 1701 approvata dall’Onu nel 2006, ovvero il mantenimento dell’area cuscinetto compresa tra la Blue Line e il fiume Litani, libera da personale armato e armamenti diversi da quelli del governo libanese e di Unifil. Tradotto: via l’esercito israeliano, ma via anche Hezbollah e postazioni da cui partono i razzi verso Israele. «Dobbiamo tornare alla missione originaria di Unifil che passa dal programmare e ricostruire» ha detto il premier italiano. Un pensiero condiviso da Mikati: «Durante il mio incontro con il primo ministro Giorgia Meloni, ho affermato l’impegno del Libano ad attuare pienamente le risoluzioni dell’Onu, in particolare la risoluzione 1701, per rafforzare l’esercito nel Libano meridionale in cooperazione con le forze Unifil». Al termine del bilaterale svoltosi al Grand Serrail, il palazzo del governo libanese, Meloni, che in mattinata ha fatto visita anche al re di Giordania Abdullah II, ha annunciato che presto avrà un colloquio telefonico con Benjamin Netanyahu e che in questo momento è necessario «uno sforzo da parte israeliana» affinché si raggiunga un cessate il fuoco di 21 giorni e si colga la morte di Sinwar come «una finestra per una stagione nuova».
Tuttavia, dal quartier generale Unifil è giunta ieri l’ennesima denuncia di un tentativo di attacco, probabilmente da parte dell’Idf: «Un drone non identificato si è avvicinato a una nave militare dell’Onu a largo delle coste del sud del Libano», ha avvertito il portavoce di Unifil, Andrea Tenenti, «Siamo stati presi di mira ripetutamente, cinque volte deliberatamente. Questi attacchi stanno mettendo in pericolo le forze di pace». Nel frattempo le forze di difesa israeliane, nello specifico le truppe della 98ª Divisione, hanno riferito di aver eliminato un altro comandante di Hezbollah che operava nell’area di Taybeh, nel Sud del Libano. Si tratta di Mohammad Hussein Ramal, considerato da Israele il responsabile della pianificazione e dell’esecuzione di attività terroristiche contro lo Stato ebraico. Mentre la 7ª Brigata corazzata ha individuato e distrutto numerosi lanciarazzi pronti a essere azionati verso il Nord di Israele. I militari israeliani hanno inoltre riferito attraverso un post pubblicato sul canale Telegram di aver identificato un certo numero di terroristi entrati dalla Giordania in territorio israeliano a sud del Mar Morto. Qui si è scatenata una battaglia in cui due terroristi sono stati uccisi. Da Beirut, intanto, il ministero della Salute pubblica libanese ha aggiornato il bilancio delle ultime 24 ore, durante le quali hanno perso la vita 45 persone e 179 sono rimaste ferite in seguito ai raid israeliani.
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Ansa
Ucciso per caso a Rafah il «macellaio» che tentava di abbandonare la Striscia. Il suo giubbotto era carico di granate. Il premier esulta e parla ai palestinesi: «Non è ancora finita, ma è iniziato il giorno dopo il Male».
Doveva essere un’operazione militare come tante altre, definita dall’esercito israeliano «di routine». E invece, il raid compiuto a Rafah mercoledì pomeriggio, alle 16 circa, è culminato con la notizia più attesa e, forse inaspettata, dall’inizio delle ostilità tra Israele e Hamas: Yahya Sinwar è morto. Il leader politico dell’organizzazione terroristica che governa l’enclave palestinese dal 2006, vera mente dell’attacco del 7 ottobre 2023, si è trovato coinvolto insieme ad altri due miliziani in uno scontro a fuoco con le truppe della 828ª brigata Bislamach in un’area considerata dall’Idf come il punto d’incontro operativo tra i terroristi di Hamas e quelli della Jihad islamica. Il fatto che il cadavere, individuato la mattina seguente dai droni, giacesse nel corridoio Filadelfia, la zona che corre lungo il confine tra Egitto e Striscia di Gaza, indica probabilmente che il capo di Hamas stesse tentando di fuggire da quel territorio che aveva dichiarato di non voler mai abbandonare.
A sostenerlo è il ministro della Difesa israeliano, Yoav Gallant: «Yahya Sinwar è morto mentre era inseguito, in fuga, non è morto da comandante, ma come qualcuno che teneva solo a sé stesso». Sebbene le forze di difesa israeliane abbiano ricondotto fin da subito la probabile identità di uno dei tre a Sinwar, per avere una conferma ufficiale che si trattasse effettivamente di lui si è dovuto attendere quasi fino a sera. «Idf e Isa confermano che, dopo un inseguimento durato un anno, i soldati del comando meridionale hanno eliminato Yahya Sinwar», si legge nel comunicato delle forze di difesa israeliane. «È stato eliminato dopo essersi nascosto per l’ultimo anno dietro la popolazione civile di Gaza, sia in superficie che sottoterra nei tunnel di Hamas nella Striscia». Poi la nota del ministro degli Esteri, Israel Katz: «Il grande assassino, responsabile del massacro e delle atrocità del 7 ottobre, è stato eliminato dai soldati dell’Idf». Il ministro ha poi inviato un messaggio a diversi suoi omologhi: «È un grande risultato militare e morale per Israele e una vittoria per l’intero mondo libero contro l’asse malvagio dell’islam radicale guidato dall’Iran. Si apre una possibilità per far uscire immediatamente gli ostaggi e per creare una Gaza libera da Hamas e dal controllo iraniano. Israele ha bisogno del vostro supporto e assistenza ora più che mai per portare avanti insieme questi importanti obiettivi».
Hamas, invece, per ora si è limitata a comunicare che i leader del gruppo terroristico che si trovano all’interno e all’esterno della Striscia sono stati informati della notizia. Per identificare il corpo, ha fatto sapere la polizia israeliana, è stato necessario procedere all’esame dell’arcata dentale. Stando alle notizie filtrate dall’Idf e dallo Shin Bet, il terrorista stava pianificando diversi attacchi con razzi da lanciare verso il territorio israeliano e addosso aveva con sé un giubbotto carico di granate pronte a esplodere. Inoltre, è stata smentita la notizia della presenza di ostaggi sul luogo del raid. Si temeva che Sinwar potesse utilizzarli come scudo, visto che in passato si era nascosto all’interno di un tunnel portando con sé i sei ostaggi, poi uccisi e recuperati dall’Idf a fine agosto.
Per il Medio Oriente, in particolare a Gaza, potrebbe aprirsi adesso una nuova fase del conflitto. Dal momento che lo Stato ebraico ha eliminato la testa di Hamas, il governo di Benjamin Netanyahu ha ora una carta importante in più da giocarsi nella trattativa per il rilascio degli ostaggi. «Ai terroristi di Hamas dico: i vostri leader stanno scappando e saranno eliminati. Faccio appello a tutti coloro che tengono i nostri ostaggi: a chiunque deporrà le armi e libererà i nostri ostaggi, permetteremo di andarsene e continuare a vivere», ha detto ieri il premier israeliano, così come Gallant ha esortato i miliziani a rilasciare al più presto gli ostaggi e ad arrendersi. Anche il presidente, Isaac Herzog, dover aver espresso elogi e gratitudine all’Idf e allo Shin Bet per aver eliminato «l’arciterrorista da anni responsabile di efferati atti di terrorismo contro civili israeliani», ha chiesto a gran voce il rilascio degli ostaggi: «Gli sforzi malvagi di Sinwar erano dedicati al terrore, allo spargimento di sangue e alla destabilizzazione del Medio Oriente. Ora più che mai, dobbiamo agire in ogni modo possibile per riportare indietro i 101 ostaggi che sono ancora tenuti in condizioni orribili dai terroristi di Hamas a Gaza».
Tuttavia, è ancora difficile e prematuro gettarsi in previsioni riguardo al fatto che l’uccisione di Sinwar possa in qualche modo accelerare il processo di negoziati tra Israele e l’organizzazione terroristica per il raggiungimento di un cessate il fuoco e la liberazione degli ostaggi. Quel che è evidente e innegabile, però, è il successo militare ottenuto dallo Stato ebraico. Netanyahu, nel suo discorso rivolto ai cittadini, ha parlato di un nuovo inizio: «Cittadini, Sinwar vi ha rovinato la vita. Vi ha raccontato di essere un leone ma si è nascosto dentro i tunnel, e scappava nel panico dai nostri soldati. La sua eliminazione è un importante momento di passaggio nel tramonto del governo di Hamas. Hamas non governerà più nella Striscia, questo è l’inizio del giorno dopo Hamas. È l’opportunità per Gaza di liberarsi dalla dittatura».
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