Il ricorso alla magistratura intentata dai fondi americani York sul Monte dei Paschi aveva i profili della lite temeraria e così il Tribunale di Milano li ha condannati in primo grado a pagare circa 1,5 milioni di euro. La sentenza, i cui dettagli sono stati diffusi ieri dall’agenzia Ansa, ha previsto circa 1,1 milioni per pagamento delle spese processuali in favore dell’istituto senese, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola, Paolo Salvadori e Nomura International. A questi si aggiungono altri 460.000 euro ai sensi dell’articolo del codice di procedura civile relativo alle liti temerarie. Secondo i giudici, i fondi avevano gli strumenti per essere informati e la loro responsabilità è «aggravata per abuso del processo». Non solo. La domanda di risarcimento presentata dai fondi York è stata giudicata «priva di qualsiasi fondamento» e «deve essere respinta nei confronti di tutti i convenuti». E questo implica «la condanna degli attori al pagamento delle spese processuali». E a questo si aggiunge l’aspetto di lite temeraria. Il fondo americano York nell’estate del 2014 era stato per qualche mese primo azionista di Mps, grazie a un investimento di 520 milioni che gli era valso una quota del 5% del capitale. L’11 marzo del 2019 York aveva notificato un atto di citazione contro Mps, Nomura (controparte nella ristrutturazione del derivato Alexandria), Profumo, Viola e Salvadori, rispettivamente presidente, ad e presidente del collegio sindacale al tempo dei fatti contestati. Al Tribunale di Milano York aveva chiesto la loro condanna in solido a risarcire 186,7 milioni di danni e - previo accertamento del reato di false comunicazioni sociali - al risarcimento del danno non patrimoniale. La richiesta ricalcava quella da 434 milioni del fondo Alken e imputava le perdite a «un presunto comportamento illecito dei vertici di Mps che avrebbero falsato la rappresentazione finanziaria nei bilanci, alterando in modo determinante» il valore delle azioni della banca non iscrivendo in bilancio come derivati sintetici le operazioni di ristrutturazione dei derivati Santorini e Alexandria ma anche non accantonando correttamente gli Npl. A fare da consulente sia a Alken sia a York sarebbe stato Giuseppe Bivona, patron del fondo inglese Bluebell. Al quotidiano Domani, qualche anno fa, Bivona non aveva negato di aver firmato con Alken e con York dei contratti con success-fee (commissioni in caso di vittoria nelle cause), ma aveva aggiunto che «non c’erano conflitti di interessi».
Un prestigioso incarico alla Nato potrebbe tagliare fuori Roberto Cingolani dalla corsa al vertice di Leonardo. È quanto circola in queste ore negli ambienti della Difesa italiana, dopo che nella giornata di lunedì i vertici dell’Alleanza atlantica hanno nominato i primi tre membri del consiglio di amministrazione del Fondo per l’innovazione della Nato. Il presidente sarà Klaus Hommels, fondatore e presidente della società di venture capital Lakestar, poi Fiona Murray, professore associato al Massachusetts institute of technology (Mit), e infine appunto Cingolani, già ministro italiano per la Transizione ecologica, fondatore dell’Istituto italiano di tecnologia, consigliere sulla crisi energetica del premier Giorgia Meloni, e, dopo essere rientrato in Leonardo, anche chief technology and innovation officer.
Il nome di Cingolani, tecnico di fama, circola da qualche mese a Palazzo Chigi come possibile sostituto di Alessandro Profumo, attuale amministratore delegato in piazza Montegrappa a breve in scadenza. L’incarico alla Nato nasce da un percorso individuale, vagliato dagli headhunter ma si perfeziona soltanto con l’ok del governo di provenienza, dunque di Palazzo Chigi. Forse in Italia potrebbe non essere un problema avere il doppio ruolo, ma l’etica anglosassone pone una questione di opportunità, soprattutto per un ruolo così delicato in un’azienda militarmente strategica non solo per l’Italia ma per tutta l’Europa. Non solo. Va ricordato che il nuovo Fondo della Nato investirà 1 miliardo di euro in start up che svilupperanno nuove tecnologie anche dual use: parte di queste risorse potrebbero essere destinate anche a Leonardo. Dettaglio non di poco conto. Sul sito della Nato il suo incarico in Leonardo è già indicato al passato. Forse una svista o l’attesa di una richiesta di aspettativa.
Senza entrare nel tema della remunerazione, c’è infine un terzo elemento che porta a definire il doppio passaporto tra la Nato e Piazza Montegrappa incompatibile. Boeing, piuttosto che Airbus o altri colossi della Difesa, non accetterebbero mai una tale sproporzione. Il che lascia intendere che alla fine di aprile ci sarà un nome in meno nei tasselli da riempire. Nel caso di Leonardo in molti saranno contenti. Il profilo di Cingolani sanno bene non corrispondere a quello di un top manager.
La partita delle nomine non è comunque ancora entrata nel vivo. Al di là del perimetro di Mps, le riunioni di maggioranza sui nomi apicali di Eni, Terna, Enel e Leonardo non si sono ancora tenute. È questione di ore o di giorni. Veline e indiscrezioni vengono pubblicate per fare pressioni sul governo o per far mettere nella rosa qualche candidato in più. I pericoli per Palazzo Chigi arrivano sul fronte donne e infiltrati di sinistra. Nel primo caso può esserci una rincorsa a riempire le caselle delle quote rose. Bene se c’è un nome valido, male se alla fine si fa una scelta di facciata. Nel secondo caso il Pd vanta ancora dalla sua la quantità. Entro luglio oltre 350 profili dovranno essere selezionati e per il centrodestra è difficile avere un’agenda telefonica così fitta.
Non a caso, sempre attivo sul fronte nomine è Dario Franceschini, ex ministro dei Beni culturali, capace di muoversi in anticipo rispetto ai suoi colleghi di centro sinistra. Prima della fine del governo Draghi, infatti, Franceschini era riuscito a piazza Salvo Nastasi, suo ex capo di gabinetto, come presidente della Siae. La società che gestisce il diritto d’autore è uno storico feudo franceschiniano, dove non a caso si sta tornando a parlare di vendita del fondo immobiliare, dopo le polemiche del 2017 innescate da Fedez, quando in Sorgente group c’era la compagna di Franceschini, Michela Di Biase. Non solo. Franceschini ha anche favorito, nemmeno sei mesi fa, la nomina di Francesco Nucara in Consap, come capo dell’area finanza. La società del Mef che si occupa del fondo vittime della strada è tra le molte società in scadenza. Ma c’è anche il nome di un’altra franceschiniana che continua a circolare per un posto nelle partecipate. È quello di Francesca Isgrò, presidente di Enav, altra figura manageriale che potrebbe riciclarsi con un altro incarico dal momento che Ente nazionale per l’assistenza al volo è in scadenza. La Isgrò era stata nominata in Enav durante il governo giallorosso di Giuseppe Conte. C’è chi la vorrebbe confermare come presidente, ma forse la sua eccessiva vicinanza al Pd potrebbe ostacolarla. Anche se il suo nome, come anche quello dell’ex amministratore delegato Roberta Neri, continuano a circolare per altre partecipate. Per l’azienda che si occupa della rete elettrica in Italia si fa però anche il nome di Giuseppina Di Foggia, 53 anni, attualmente è vicepresidente e amministratore delegato di Nokia Italia.
Si è svolto l'Innovation Day di Leonardo, evento dedicato al talento che ha visto la premiazione degli 11 vincitori dell’Innovation Award a fronte di 831 progetti presentati dai dipendenti dell'azienda dell'ad Alessandro Profumo. Rispetto al 2020 sono aumentati del 15% i brevetti depositati nel 2021. Crescono anche gli investimenti in ricerca e sviluppo, pari a 1,8 miliardi di euro.
L’integrazione tra digitale e manifattura è la rotta dell’innovazione tracciata da Leonardo. Un percorso che va dalla ricerca interna ai nuovi modelli di business, dalle sinergie per l’open innovation alle nuove competenze, fino al ruolo chiave nell’indirizzare la formazione di una nuova generazione di professionisti Stem.
Forte di un incremento degli investimenti in ricerca e sviluppo, pari a 1,8 miliardi di euro nel 2021, rispetto agli 1,6 miliardi del 2020 - cifra che colloca l’azienda al quarto posto in Europa nel settore A&D - Leonardo gioca un ruolo di primo piano sul fronte dell’innovazione di prodotto, di processo e di servizi con un obiettivo preciso: attuare una trasformazione sostenibile dei nuovi cicli tecnologici. L’Innovation Day, evento a cui hanno preso parte per Leonardo il presidente, Luciano Carta, l’amministratore delegato, Alessandro Profumo, il direttore generale, Lucio Valerio Cioffi, e il Chief technology and innovation officer, Franco Ongaro, ha rappresentato un momento di sintesi dei progressi messi in atto dall’azienda sul fronte dell’innovazione e attuati nella piena convergenza fra evoluzione tecnologica, digitalizzazione e sostenibilità, in linea con il piano strategico Be Tomorrow – Leonardo 2030. Una strategia dell’innovazione avvalorata dai numeri, a partire dalle 90 collaborazioni con università, politecnici e centri di ricerca, in Italia e nel mondo e ai 13 accordi quadro in essere. A questi dati si sommano i 44 PhD attivati nel 2021 nel Paese, con un impegno già sottoscritto a finanziarne oltre 80 entro il 2022.
Tra le iniziative di open innovation più significative figurano la partecipazione, con Cdp (Cassa depositi e prestiti) ed Esa (Agenzia spaziale europea), ad acceleratori nei settori aeronautico e spazio, che hanno contribuito a rafforzare un processo di innovazione diffuso e aperto a contaminazioni esterne. Sul fronte dei nuovi modelli di business Leonardo ha recentemente dato vita alla Business innovation factory (Bif), realizzata in partnership con LVenture Group e ha inaugurato la Cyber & Security Academy, il centro di alta formazione che si avvale dell’esperienza maturata nella protezione cyber-fisica di infrastrutture critiche in oltre 150 Paesi nel mondo e nella continua attività di gestione delle minacce cibernetiche in diversi ambiti strategici. Una spinta all’innovazione che ha portato alla creazione, nel 2020, del network dei Leonardo Lab, moltiplicatori di innovazione integrati con le unità di ingegneria e sviluppo delle diverse aree tecnologiche. A oggi si contano 11 laboratori che operano in diversi centri in Italia e all’estero, di concerto con le unità industriali dell’azienda, dedicati alla R&S su tecnologie di frontiera con un forte orientamento alla sfera digitale. I Leonardo Lab vedranno 130 ricercatori inseriti entro il 2022, numero destinato a salire a 200 entro il 2023. Un network che si avvale dell’HPC davinci-1, il supercomputer di Genova, un’infrastruttura nevralgica, progettata per unire le capacità del cloud con il supercalcolo, coniugando flessibilità operativa e potenza di elaborazione. Un percorso che vede Leonardo impegnata anche sul fronte della formazione dedicata ai giovani con l’obiettivo di contribuire alla nascita di una nuova generazione di professionisti Stem.
Nel 2021 sono state coinvolte oltre 900 scuole primarie e secondarie a livello nazionale, mentre più di 3.600 studenti hanno preso parte ai live talk promossi da Leonardo su tematiche tecnologiche. Circa 50 Stem Ambassador dell’azienda hanno realizzato oltre 30 tra corsi e contenuti digitali, orientati in particolare alle nuove tecnologie digitali o a tematiche di sostenibilità. Tra le iniziative di maggiore successo le Olimpiadi delle Stem che hanno visto la partecipazione attiva di circa 1.600 studenti. È in questo articolato contesto orientato all’innovazione e alla sostenibilità che si colloca l’Innovation Day, un evento dedicato, soprattutto, al talento che nasce dal cuore dell’azienda, che si riflette anche nell’aumento del 15% dei brevetti depositati nel 2021 rispetto all’anno precedente. Nel corso della manifestazione si è svolta la premiazione degli 11 team vincitori dell’Innovation Award a fronte di 831 progetti presentati, con una partecipazione complessiva di 2.500 dipendenti dell’azienda. L’iniziativa, giunta alla 16ª edizione, ha visto negli anni il coinvolgimento di 35.000 dipendenti Leonardo con 11.000 progetti presentati. Per l’edizione in corso, di particolare interesse, il progetto Origami, un design innovativo del piano di coda dell'elicottero: punte aerodinamiche che migliorano le prestazioni sia ad alta che a bassa velocità, riducendo al minimo gli inconvenienti e aumentandone significativamente la stabilità. È concepito come un kit di retrofit volto a sostituire le punte convenzionali e, allo stesso tempo, a preservare il corpo principale del piano di coda. Un punto chiave del progetto è l’applicabilità a diversi elicotteri evitando una riprogettazione completa del piano di coda. Di forte impatto innovativo anche il progetto Radar Processor on Chip che consiste nella realizzazione di una catena radar all’interno di un unico chip - con un importante risparmio nell’impiego di componenti - capace, per la notevole semplificazione dell’architettura, di offrire un importante vantaggio competitivo. La soluzione apre a sperimentazioni per altre tipologie di sensori ed è suscettibile di applicazioni anche al di fuori dell’ambito per cui è stata progettata. La soluzione - destinata a tutte le applicazioni che richiedono sensori a basso costo, facilmente installabili e trasportabili - ha una ricaduta diretta in termini di sostenibilità, grazie alla riduzione della potenza di emissioni di segnali elettromagnetici e all’ingombro, ridotto significativamente rispetto a un radar tradizionale.
Per l’amministratore delegato di Leonardo, Alessandro Profumo, Massimo D’Alema «non aveva alcun mandato, né formale né informale, a trattare per conto di Leonardo» nell’affare per la tentata vendita di armamenti alla Colombia. Sentito sul tema in audizione dalla commissione Difesa del Senato, Profumo, dopo aver precisato che «la trattativa con la Colombia non rappresentava un accordo G2G (tra i due governi, ndr)», ha ribadito che era «una potenziale opportunità commerciale che avrebbe aperto al mercato del 346 (l’aereo M-346 prodotto da Leonardo, ndr) il Sud America». Quindi ha aggiunto che «il presidente D’Alema, anche in relazione alla sua storia istituzionale, ha prospettato a Leonardo che queste opportunità», ovvero quelle da lui proposte «potessero essere maggiormente concrete», ma «fin da subito ha chiarito che sarebbe rimasto del tutto estraneo alle future eventuali attività di intermediazione nei nostri confronti». Il manager ha detto anche che «solo e soltanto sulla base di questo impegno l’azienda ha avviato le previste attività di verifica della fattibilità di queste ulteriori opportunità, perché in effetti il numero di velivoli di cui si parlava e il potenziale contratto aveva dimensioni diverse» da quelle previste da Leonardo.
La precisazione che il mancato coinvolgimento diretto dell’ex premier fosse una condizione essenziale contrasta, però, con l’attivismo manifestato da D’Alema nell’audio della conversazione dell’11 febbraio con l’ex comandante dei gruppi paramilitari colombiani delle Auc Edgar Fierro. E a proposito di conference call, Profumo, durante l’audizione, ha confermato di aver partecipato a una chiamata in cui doveva esserci anche un rappresentante del governo colombiano e in cui, come ha scritto La Verità, era collegato anche D’Alema.
Rispondendo al senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri, Profumo ha, infatti, spiegato: «Ho partecipato a una videocall, ma dal mio ufficio. Doveva essere di saluto al ministro della Difesa colombiano che non si è presentato e ha avuto tempi estremamente rapidi». Esattamente la circostanza lamentata da D’Alema a Fierro: «Lo dico questo perché l’altra sera, quando non ci siamo collegati con il ministro, questo ha creato un problema molto serio di credibilità». Profumo ha risposto anche a una domanda sull’incarico che la società di piazza Montegrappa stava affidando allo studio legale di Miami: «Noi abbiamo, come società, effettuato una valutazione sulla Robert Allen Law, cioè è stato avviato in processo di compliance (il rispetto di norme di legge e regolamenti aziendali, ndr), al quale io sono estraneo, ed è stata avviata una interlocuzione con lo studio proprio per verificare tutti gli elementi di compliance e gli elementi contrattuali. Ci tengo a sottolineare che non siamo arrivati a nessuna sottoscrizione di contratti». Per l’ad di Leonardo «è stato sottoscritto» soltanto «un non-disclosure agreement proprio perché necessario per realizzare questo scambio di informazioni».
Il fatto che fosse in corso una verifica sullo studio legale porta a supporre che non ci fossero rapporti pregressi tra Leonardo e Robert Allen Law. Ricordiamo che a inizio marzo D’Alema aveva dichiarato che a sceglierlo era stati «questi signori colombiani». Salvo poi invertire la rotta il 26 marzo scorso e dire: «Penso che una parte (delle provvigioni, ndr) sarebbe andata a Robert Allen Law, che avevo segnalato per l’assistenza legale e di promozione; mentre i colombiani sollecitavano una partnership loro, com’era giusto che fosse». Forse anche per questo i senatori della Lega, membri della commissione Difesa, hanno commentato definendo «scolastica» la risposta di Profumo sul ruolo dello studio legale di Miami. Mentre Gasparri ha usato parole durissime, dicendo che l’audizione di Profumo «non ha affatto chiarito dubbi e opacità che circondano l’affaire Colombia e il ruolo dell’ex premier Massimo D’Alema. Le risposte del dottor Profumo sono state fumose ed evasive, a cominciare dalla genesi del rapporto con l’azienda. D’Alema, ha detto ad esempio Profumo, prospettò a Leonardo il potenziale affare. Ma a chi? Citofonò e parlò con un usciere?».
Per il senatore azzurro le circostanze emerse dalla nostra inchiesta «non hanno ricevuto i chiarimenti necessari: dall’affidamento a D’Alema di informazioni riservate, senza che avesse sottoscritto un accordo di riservatezza, alla questione delle questioni sulla provvigione da decine di milioni di euro». Da Fratelli d’Italia invece, attraverso una nota dei deputati della commissione Difesa, Salvatore Deidda, Davide Galantino e Giovanni Russo, è partito un invito all’ad di Leonardo e a «tutte le istituzioni coinvolte» a procedere «immediatamente a intraprendere azioni legali per tutelare il nome dell’azienda».
Per Profumo intanto, contrariamente a quanto affermato da D’Alema, l’ipotesi di vendere gli M-346 di Leonardo alla Colombia «non è tramontata». Ad esserlo, forse, è solo l’interlocuzione che passava attraverso i buoni uffici di Baffino.
I giornali di ieri (anticipati dai siti Sassate e Dagospia) hanno dato la notizia della prima «testa che rotola» dopo lo sconquasso creato dalla nostra inchiesta a puntate sulla trattativa per vendere armamenti alla Colombia con il patrocinio di Massimo D’Alema. Lo scalpo è quello del direttore generale della Divisione navi militari di Fincantieri Giuseppe Giordo, il quale, a gennaio, ha firmato un Memorandum of understanding insieme con il direttore commerciale Achille Fulfaro e con due capitani di fregata (per qualcuno in pensione) della Marina colombiana nell’ambito della trattativa per la vendita di 2 fregate e 2 sommergibili. A Bogotà c’erano anche il responsabile per l’America Latina di Fincantieri, Stelio Antonio Vaccarezza e Aurora Buzzo, project e negotiation manager. Ma a pagare per tutti sembra che al momento sia solo Giordo. Nell’azienda triestina è in corso un audit coordinata dal presidente Giampiero Massolo, in partenza per Atlantia, (già direttore del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza), ma l’ad Giuseppe Bono ha giocato d’anticipo e ha congelato le deleghe operative del dg prima della conclusione dell’indagine interna. Bono ha voluto lanciare un segnale a chi dovrebbe a stretto giro confermarlo, nonostante guidi l’azienda dal 2002 e abbia ormai compiuto 78 anni? Non lo sappiamo. Mentre possiamo scrivere con ragionevole certezza che l’ad, il 21 marzo scorso, aveva chiesto a Giordo di autosospendersi, trovando la ferma resistenza del manager, dal momento che questi ritiene di essersi attenuto a tutte le regole.
Per questo il 24 marzo ha risposto con un accorato messaggio di posta, con cui rispedisce al mittente «la richiesta di prendere in via spontanea una decisione così importante come quella di allontanarmi temporaneamente dall’azienda», incassando poi la sospensione decisa da Bono. Il motivo del rifiuto? «Mi pare più un’ammissione di colpe (che non ho), che una misura capace di porre fine a questo ingiusto attacco mediatico» ha scritto. Nei giorni precedenti Giordo aveva consegnato una relazione sulla vicenda colombiana svelata dal nostro giornale, che Bono aveva liquidato giudicandola «insufficiente» e troppo stringata («una paginetta»). Il dg ha ribattuto che quel documento non era un’«autodifesa», ma serviva a «fornire sinteticamente il punto di vista dell’azienda nella sua interezza» e che lui non aveva violato «nessuna regola di compliance». Le trasferte della sua divisione a metà dicembre a Cartagena de Indias e a fine gennaio a Bogotà sarebbero state «solo finalizzate a verificare […] l’affidabilità di un’iniziativa che, ove mai si fosse realmente concretizzata, avrebbe potuto rappresentare una commessa sicuramente importante».
Giordo sostiene di aver informato della propria iniziativa il capo prima di volare in Colombia: «Questa situazione le fu da me personalmente riferita prima della partenza e io stesso ebbi a sottolineare l’esigenza (a tutti sempre rappresentata) che in un ambiente così nuovo, e così difficile, ci si muovesse con ogni cautela, per evitare l’insorgere di fraintendimenti o di equivoci». Dunque, secondo Giordo, Bono avrebbe avuto notizia della trattativa in corso e anche il «coinvolgimento del presidente D’Alema» non sarebbe stato un segreto: «Le fu sin da subito rappresentato (come era giusto che fosse), anche se non da me direttamente» ricorda a Bono, Giordo. Per quest’ultimo «a fronte di una manifestazione, seppur generica, di interesse» da parte del governo colombiano, l’unica cosa da fare era «verificarne la fattibilità, con degli incontri nel Paese del team commerciale», mentre la sua presenza si era resa necessaria in vista di un «potenziale incontro con il ministro della Difesa che poi non è avvenuto». Giordo evidenzia come il collega Fulfaro abbia «seguito in ogni sua fase la vicenda, anche autorizzando preventivamente attraverso il suo staff la presenza, a titolo gratuito, dello studio Robert Allen Law», quello «segnalato» da D’Alema in persona. Un ufficio legale, specifica il dg, «peraltro già sperimentato con successo in passato da Fincantieri Usa», notizia che Giordo avrebbe appreso all’epoca dei fatti.
Il manager sospeso, stando alla missiva, sembra non avere nulla da rimproverarsi neppure a proposito del memorandum che non sarebbe altro che «una minuta di riunione, (conformemente alla prassi consolidata)» che avrebbe consentito «in tempi brevissimi» di «verificare l’inconsistenza dell’interesse verso la possibile fornitura» da parte della Marina militare colombiana.
Ma la vera chicca contenuta nella lettera è quella che Giordo inserisce a proposito di D’Alema: «Precedentemente al mio arrivo in Fincantieri, aveva collaborato con la nostra azienda tramite contratto con Ernst&Young». In effetti il 9 settembre 2019 E&Y e Fincantieri, rappresentata da Federico Riggio, dirigente dell’area commerciale con responsabilità per il Medio Oriente, firmano un accordo di consulenza e assistenza legale. A quel tempo Giordo non lavora ancora in Fincantieri ed è l’ad Bono a tenere le redini del colosso industriale. E&Y garantisce di fornire servizi di reporting industriale «con particolare riferimento ai paesi del Kuwait e del Libano» oltre che servizi di reporting giuridico-regolatorio e di studio economico industriale. Il prezzo della consulenza vale 400 euro l’ora per le prime 200 ore e 420 per ogni successiva fino al «raggiungimento di un importo massimo complessivo di 560.000 euro». A quanto risulta alla Verità Fincantieri alla fine ha pagato 400.000 euro. Era prevista anche un’ipotesi di «assistenza giuridica e fiscale, anche in riferimento alle normative locali». Qui il tetto massimo previsto era di 400.000 euro, ma la Fincantieri non avrebbe usufruito di questa opzione.
Per Libano e Kuwait gli esperti di E&Y avrebbero dovuto predisporre due report mensili con identificazione di progetti o gare e relativi competitor per Fincantieri; di stazioni appaltanti o committenti; di partner locali; descrivere oggetto, termini e condizioni di gara. Il tutto all’interno di una cornice generale di analisi dei Paesi interessati.
L’accordo sarebbe stato siglato due mesi dopo un viaggio di D’Alema (erano gli inizi di luglio del 2019) in Libano in compagni di Riggio, con volo e soggiorno pagati da Fincantieri.
Baffino a Beirut, nell’agosto del 2006, quando era ministro degli Esteri del secondo governo Prodi, era stato protagonista, dopo un bombardamento israeliano, di una contestata passeggiata tra le macerie della città a braccetto con un deputato del «Partito di Dio», l’organizzazione paramilitare islamista di Hezbollah, Hussein Haji Hassan. Una sfilata rivendicata nel 2016, in un’intervista al Corriere della sera, quando l’ex primo ministro aveva dato dei «trogloditi» ai critici, che non avevano capito come lui stesse lavorando per la pace. Sarà per quel suo encomiabile impegno che qualche amico sembra essergli rimasto nel Paese dei cedri. Fatto sta che a settembre e ottobre 2019 ha partecipato come ospite a due eventi di E&Y, uno a Capri e uno a Milano, e successivamente è stato ufficialmente arruolato come presidente dell’advisory board della società inglese.
Ma torniamo alla Colombia. Nel dicembre scorso D’Alema si era concretamente attivato nell’organizzazione del primo incontro tra Vaccarezza di Fincantieri e l’ammiraglio Rafael Callamand presso gli uffici della Cotemar (l’omologo di Fincantieri in Colombia) a Cartagena il 14 del mese: «Loro risponderanno che sono pronti a venire il 7 o l’8 (dicembre, ndr). […] Verranno con una proposta strutturata. Compresa la parte finanziaria» aveva vaticinato l’ex premier, dimostrando di conoscere i dettagli. Poi aveva dato le ultime istruzioni: «L’importante è che Fincantieri e la Marina colombiana si capiscano. Il nostro obiettivo è che dopo il 14 (dicembre, ndr) inizi una trattativa diretta».
Esattamente una settimana dopo l’appuntamento davanti al mar dei Caraibi, il 21 dicembre, a quanto risulta alla Verità, D’Alema si è recato negli uffici romani di Fincantieri per un pranzo con l’ad Giuseppe Bono e con una terza persona. L’ex premier, a sette giorni dall’abboccamento di Cartagena, è entrato nei particolari dell’affare che stava portando avanti? Secondo una fonte i due avrebbero parlato anche di Colombia. Ieri da Fincantieri hanno parzialmente smentito la nostra ricostruzione: «Non riteniamo di dover rendere conto delle colazioni di lavoro dell’amministratore delegato. Però possiamo assicurare che D’Alema e Bono non hanno mai parlato di Colombia e quindi neanche della visita a Cartagena». E il viaggio di Riggio con D’Alema in Libano? «Riggio è andato lì per lavoro, ma non insieme con D’Alema. E lo studio Robert Allen Law non ha mai ricevuto alcun incarico da Fincantieri. Neanche negli Stati uniti». Da Ernst&Young, invece, non abbiamo ricevuto nessuna risposta.








