Ecco #DimmiLaVerità del 19 novembre 2025. Con il nostro Alessandro Rico commentiamo lo scoop sul Quirinale e tutti gli sviluppi.
Sergio Mattarella (Ansa)
Tutti i giornali si calano le braghe per i dieci anni al Colle dello «statista pop» che «addestra i barbari». Nessuno che però chiami questo record con il suo nome. Cioè anomalia non prevista dalla Costituzione.
«Cerniera». «Cerniera flessibile». «Timone». «Timone moderato». «Meccanico con la cassetta degli attrezzi». «Motore di riserva». «Icona pop». «Statista pop». «Icona social». «Rockstar». «Gattopardo». «Nostro Burt Lancaster». «Prudente regista». «Principe delle istituzioni». «Addomesticatore di barbari». «Arbitro col cartellino rosso». «Levatrice». «Fideiussione». Fossi nel presidente Sergio Mattarella inviterei i corazzieri della stampa italiana a darsi un contegno: da una settimana stanno cercando di superarsi l’un l’altro nella gara dell’adulazione e così rischiano di scivolare su fiumi di saliva. Quelle che abbiamo appena elencato, infatti, sono solo alcune delle sobrie metafore con cui è stato indicato l’inquilino del Quirinale negli ultimi giorni. E noi siamo sinceramente preoccupati: passino «motore», «timone», «rockstar» e «fideiussione». Ma quando si arriva a toccare la cerniera, si sa, c’è il rischio di rimanere in mutande.
Le celebrazioni per i dieci anni al Colle di Mattarella sono cominciate da almeno una settimana: decine e decine di pagine, servizi tv, omaggi commossi e riverenze editoriali, perché come si sa «il presidente festeggia sobriamente l’anniversario». E chissà che cosa sarebbe successo se non l’avesse festeggiato sobriamente. Peraltro tutti gli illustri editorialisti e super esperti di Quirinale si premurano di far sapere che questi dieci anni sono «un record», il «mandato più longevo», un risultato «mai toccato da alcun predecessore» perché «nessuno nella storia ha rivestito il ruolo di presidente per un tempo così lungo». Naturalmente non c’è nessuno che chiama questo record con il suo nome, nessuno che dica che è un’anomalia non prevista dalla Costituzione, una forzatura del gioco democratico. Altrimenti si sa, i festeggiati, per quanto sobri, se ne potrebbero avere a male. Soprattutto in quanto «rockstar».
Del resto, come ci spiegano i nostri colleghi, assai più saggi e avveduti di noi, Mattarella non voleva la rielezione. Macché. «Come un meteorologo che fiuta l’aria e sente il cattivo tempo arrivare. Il Presidente se ne andò con la figlia Laura a visitare il nuovo appartamento che avrebbe dovuto sostituire le stanze del Quirinale», scrive Federico Geremicca sulla Stampa, spiegandoci che il «prudente regista» temeva di «non riuscire a lasciare la carica». Per questo fece «filtrare la notizia che era indisponibile». E quando uno è indisponibile, è indisponibile, ovvio. Infatti tre mesi dopo fu disponibile per essere rieletto. E l’appartamento al quartiere Salario rimase tristemente vuoto. Che ci volete fare? Lui «fiuta l’aria», ma il «cattivo tempo» non lo può evitare. Nemmeno quando piovono poltrone. Ovviamente «suo malgrado».
Che poi, bisogna dirlo, anche col cattivo tempo, quello vero, il presidente Mattarella dà il meglio di sé. Come non ricordare, infatti, come fa il Messaggero, «la resistenza sotto la pioggia a Parigi» durante la cerimonia di inaugurazione delle Olimpiadi? Proprio così: la resistenza. Contro la pioggia. Stamattina, mi sono svegliato e ho trovato l’acquazzon. Il presidente è così, bagnato e insieme asciutto, icona pop (Il Messaggero) e meccanico con la cassetta degli attrezzi (il Giornale), Gattopardo (Foglio) e fideiussione (Corriere). Ha la «forza della mitezza» (Corriere), la «fermezza mite» (Avvenire), la «spinta gentile», lui «alza la voce tenendola bassa» (Marzio Breda, Corriere). Niente meno: alza la voce tenendola bassa. Avanti di questo passo tra poco canterà rimanendo zitto, volerà con i piedi per terra, mangerà digiunando. Non è un uomo: è un mistero gaudioso.
Naturalmente il meglio dei miracoli lo esercita, sempre sobriamente s’intende, quando ci sono le crisi politiche. Durante le quali ricopre quel ruolo di «cerniera» e financo «cerniera flessibile» (La Stampa) che tiene insieme anche ciò insieme sembra non poter stare. Lui, per dire, come ci spiega ancora Geremicca sulla Stampa, non avrebbe immaginato un governo fra Cinque stelle e Pd. E tanto meno avrebbe immaginato tutti i partiti insieme «all’ombra del governo Draghi». Non lo poteva immaginare sebbene, spiega sempre La Stampa nella colonna a fianco, quel governo lo «ha estratto dal suo cilindro». Sim Sala Sergin: il prestigiatore Mattarella è riuscito a estrarre dal suo cilindro, ovviamente «con un colpo di magia», un governo che «non avrebbe immaginato». L’ha estratto solo con la forza del pensiero, ma a insaputa anche del pensiero. Un uomo soprannaturale, insomma.
Infatti «si è ingigantito nell’immaginario collettivo», perfino «nella gestualità, nella postura del corpo». Parla persino a braccio, per dire, senza leggere i discorsi. E per farsi capire meglio, quando incontra gli studenti per strada risponde parlando in latino. Ma con una sola parola, «Olim», così si capisce meglio. In ogni caso è un idolo delle folle, una popstar, una rockstar, insomma, oltre che un’«autorità morale», un «equilibratore delle stravaganze» che «sollecita la politica rompendo la barriera dell’arrocco» (qualsiasi cosa voglia dire), ovviamente «mai schierato con i partiti» (mai, sicuro: quello che militava nella sinistra Dc era probabilmente un suo lontano cugino), che però ha la «postura tipica del cattolicesimo democratico» (arridaglie con la postura). Per questo opera «all’incrocio dei venti proprio lì dove si rischia di bruciarsi vivi» (con il permesso di Francesco De Gregori) e ha capito che «se vogliamo che tutto resti com’è, bisogna che tutto cambi», proprio come il principe di Salina. Ma sicuro: in nome del Gattopardo, la democrazia è salva. Anzi, saliva.
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Sergio Mattarella (Imagoeconomica)
Il disegno di legge, lungi dallo sminuire il ruolo quirinalizio, ne lascia invece intatte molte prerogative, come stoppare decreti legge «sgraditi» e bloccare nomine di ministri non ritenuti idonei. Il presidente del Consiglio eletto sarebbe tutt’altro che onnipotente.
Pietro Dubolino, Presidente di sezione a riposo della Corte di cassazione.
Tra i costituzionalisti in servizio permanente effettivo o di complemento, nella maggior parte orientati a sinistra, la più grande preoccupazione destata dal disegno di legge governativo di modifica costituzionale volto all’istituzione del «premierato» sembra essere quella che la figura del presidente della Repubblica verrebbe sminuita al punto da farle assumere un ruolo pressoché esclusivamente «notarile», in contrasto con quello di «garanzia». Si tratta, in realtà, di una preoccupazione che ne nasconde, all’evidenza, un’altra, inconfessabile, e cioè quella che, prospettandosi come altamente probabile l’elezione di un presidente del Consiglio espresso dal centro-destra, la sua azione non possa più essere controllata e limitata, come avvenuto finora, da un presidente della Repubblica che si suppone debba essere, per una sorta di diritto divino, di diverso, se non anche opposto, orientamento politico.
Ma, in realtà, se si esamina con attenzione il testo, assai stringato, del disegno di legge governativo, la preoccupazione da nutrire sembrerebbe dover essere di segno diametralmente opposto. Esso, infatti, lascia intatti i poteri che la Costituzione assegna al presidente della Repubblica, fatta eccezione per quello di nomina dei senatori a vita. E quei poteri sono tutt’altro che trascurabili, tanto è vero che, senza minimamente modificarli ma dando ad essi una «lettura» un po’ più «ardita» rispetto a quella affermatasi, con poche varianti, fino all’avvento della presidenza Scalfaro, nel 1992, la Repubblica italiana è venuta, gradualmente, ad assumere, di fatto, connotazioni non troppo dissimili da quelle di una repubblica semipresidenziale. Si pensi, in particolare, alla nomina dei presidenti del Consiglio dei ministri non più, necessariamente, sulla base dell’indicazione emersa a seguito degli accordi fra i partiti in grado di disporre di una maggioranza parlamentare, ma anche sulla base, quando richiesto dalla situazione, di valutazioni della situazione politica operate direttamente dal Colle. È stato questo, come si ricorderà, il caso delle nomine di Lamberto Dini, nel 1995, Mario Monti, nel 2011, Mario Draghi, nel 2021, ad opera, rispettivamente, dei presidenti Scalfaro, Napolitano e Mattarella. Si pensi, inoltre, alla prassi, ormai invalsa, per la quale il presidente della Repubblica ha l’ultima parola circa l’emanazione ed il contenuto dei decreti legge, pur prevedendo l’art. 77 della Costituzione che di essi solo il governo abbia l’esclusiva responsabilità. Emblematico può ritenersi, in proposito, il noto caso del presidente Napolitano che bloccò l’emanazione del decreto legge predisposto dal governo Berlusconi nel 2009 per impedire la interruzione dei supporti vitali che consentivano la sopravvivenza di Eluana Englaro. E si pensi, ancora, al potere di «veto» circa la scelta dei ministri, manifestatosi, ad esempio, nel caso di Paolo Savona, proposto nel 2018 come ministro dell’economia ma poi passato alle politiche Ue per l’opposizione del presidente Mattarella.
Ora, è vero che con la riforma proposta dal governo il potere di nomina del presidente del Consiglio sarebbe vincolato alla scelta operata dall’elettorato, per cui non sarebbe più possibile la nomina di governi «tecnici», del tipo di quelli sopra menzionati. È, però, altrettanto vero che i poteri residui del presidente della Repubblica sarebbero tali da poter dar luogo a situazioni di conflittualità assai pericolose. Il presidente della Repubblica potrebbe, infatti, continuare a bloccare l’emanazione di decreti legge il cui contenuto non fosse di suo gradimento. Parimenti potrebbe continuare a bloccare la nomina di ministri che, anch’essi, non fossero di suo gradimento, benché «proposti» non più (come ora avviene) dal presidente del Consiglio da lui nominato ma addirittura da quello eletto dal popolo; cosa, questa, palesemente assurda.
Rimarrebbe, inoltre, intatto, anche il potere, previsto dall’art. 87 della Costituzione, di «autorizzare la presentazione alle Camere dei disegni di legge di iniziativa del governo». Finora questo potere è stato esercitato, nella prassi, in modo da escludere (almeno all’apparenza) ogni discrezionalità da parte del suo titolare. Ma basterebbe dare, anche di esso, una lettura un po’ più «ardita» per consentire al presidente della Repubblica di avvalersene per esercitare un controllo di merito sul contenuto dei disegni di legge governativi, autorizzandone la presentazione solo se da lui condiviso ed entrando, in caso contrario, in conflitto con il Governo.
Ed ancora, resterebbe nella piena disponibilità del Quirinale il potere, previsto dall’art. 88 della Costituzione, di sciogliere entrambe le Camere (anche se non più una sola di esse, come attualmente previsto), alla sola condizione della previa audizione, senza necessità di consenso, dei loro presidenti, pur quando non ricorra il caso, espressamente contemplato nel disegno di legge governativo, della seconda sfiducia, da parte del Parlamento, nei confronti del «premier» eletto o di chi sia stato designato in sua sostituzione.
Stando così le cose, sembrerebbe potersi sostenere che le vie da percorrere per un’ipotetica riforma costituzionale dovrebbero essere, allora, sostanzialmente due: o quella di un «premierato» in cui il presidente della Repubblica venisse effettivamente ridotto ad una funzione puramente simbolica e di rappresentanza, oppure quella di un mantenimento dei suoi attuali poteri, ma prevedendone la diretta elezione popolare, da effettuarsi contestualmente all’elezione del Parlamento, in modo da evitare, per quanto possibile, diversità di orientamenti tra presidenza della Repubblica e governo espresso dalla maggioranza parlamentare. La prima di tali vie porterebbe, però, ad un «unicum» nel panorama delle democrazie occidentali, in cui risulterebbe assai difficile, tra l’altro, vedere l’utilità di un presidente della Repubblica assimilabile ad un Re senza poteri e senza neppure quella corona che, almeno, in forza della tradizione, conferisce ai veri Re, di solito, un certo carisma. Sarebbe quindi più logico, qualora non si vogliano lasciare le cose come stanno, propendere per l’altra via, cioè quella dell’elezione diretta del presidente della Repubblica, sulla falsariga (per rimanere all’esempio che ci è più vicino) di quanto previsto nella vigente costituzione della repubblica francese. La sinistra continuerebbe, presumibilmente, nell’immediato, ad opporsi, ma potrebbe poi, ad un certo punto, ricordarsi che anche in Francia , dopo oltre un ventennio in cui si susseguirono le presidenze di Charles de Gaulle, Georges Pompidou e Valéry Giscard d’Estaing, venne, alla fine, anche la volta del socialista François Mitterrand. Le occorrerebbe, quindi, soltanto avere pazienza come, in Italia, l’ha avuta e la sta avendo, da ben più lungo tempo, la destra.
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Sergio Mattarella (Ansa)
Il dibattito in corso sulla riforma si concentra sulla limitazione dei poteri del capo dello Stato. Che vengono considerati intoccabili, anche se negli anni si sono allargati.
A voler prendere sul serio il «dibbattito» sul cosiddetto premierato che in questi giorni sta riguadagnando fiato, si potrebbe osservare una aporia così macroscopica da sfuggire. Il principale argomento di «attacco» degli oppositori del ddl di riforma costituzionale è: esso cambia i poteri del presidente della Repubblica (è la sostanza della critica ferocemente felpata di Gianni Letta). Bene, il principale argomento di «difesa» dei propugnatori della riforma è: non cambia i poteri del presidente della Repubblica.
Questa curiosa simmetria è un buon indicatore della strumentalità e superficialità di buona parte della discussione, tesa soprattutto a seminare zizzania nella maggioranza (da una parte) e a tacitare la principale critica (dall’altra). Che il testo contenga asperità anche evidenti è già stato detto e scritto più o meno ovunque; che il perimetro d’azione del Colle venga ridefinito anche se gli articoli proposti all’Aula non lo prevedono apertamente è altrettanto evidente: e se così non fosse, del resto, non avrebbe alcun senso immaginare una riforma istituzionale degna di questo nome.
Per una coalizione, quella di centrodestra, che si era presentata agli elettori proponendo l’elezione diretta del capo dello Stato, è bizzarro rivendicare di non toccare le prerogative della prima carica, ma ancor più bizzarra è la foga con cui si taccia questa riforma (il cui iter sarà comunque lunghissimo e probabilmente frenato almeno fino a dopo le Europee) di creare un centro di potere eccessivo a Palazzo Chigi. Giusto ieri, per esempio, sulla Stampa un corposo articolo di Donatella Stasio, ex portavoce della Corte costituzionale e contributor della rivista di Magistratura democratica, spiegava come il «premierato all’italiana» sia lo «specchio impietoso» degli «sbandamenti populisti, sovranisti, per certi aspetti autoritari» di questa maggioranza, che pare insofferente «verso i limiti al proprio potere». Queste argomentazioni sono mediamente condivise dall’opposizione politica e, per così dire, culturale al progetto del governo. La terza cosa strana, forse la più imbarazzante di tutte, è che l’allarme per il «potere forte» del nuovo premier «eletto» viaggia con la difesa assoluta del potere più forte di tutti, quello del Quirinale, che viceversa non va assolutamente né scalfito né «attenuato», per usare il participio scelto dall’ex storico sottosegretario berlusconiano.
Come è possibile occultare continuamente questa clamorosa contraddizione? Non si tratta di simpatie personali: è abbastanza ovvio che una riforma di questo tipo abbia un impatto che debba essere misurato al di là del profilo di chi ricopre le cariche interessate. Proprio per questo, temere l’«uomo forte» portato all’esecutivo da un plebiscito appare leggermente problematico laddove l’antidoto sarebbe tutto in un potere fortissimo blindato al Quirinale.
Per fortuna le sedi appropriate, purtroppo lontane dai riflettori, restituiscono le coordinate di un dibattito più sensato. Giovedì scorso, in commissione Affari costituzionali, si sono tenute le audizioni informali sulla riforma (qui il video: rb.gy/hua07q). Qui l’ex vicepresidente della Corte costituzionale (di nomina quirinalizia) Nicolò Zanon, il quale ha appena concluso il suo mandato, ha intrattenuto un interessantissimo scambio con l’ex presidente del Senato Marcello Pera. Rispondendo infatti a quest’ultimo, Zanon ha fatto ricorso alla consolidata metafora della «fisarmonica», che fior di politologi (Gianfranco Pasquino per citarne uno) hanno spesso utilizzato per descrivere come la prassi abbia esteso anche al di là dello stretto dettato costituzionale il perimetro d’azione del Quirinale, soprattutto in supplenza di altri attori, indebolitisi per mille ragioni. Per esempio, il potere di scioglimento delle Camere, di fatto appannaggio dei governi per decenni, è diventato - senza modifiche della Carta - sostanzialmente prerogativa del Colle (chiedere a Monti e Draghi). Ma soprattutto l’anomalia più grave è e resta quella della rielezione del capo di Stato: «Un mandato di 14 anni», ha scandito Zanon, «in capo al presidente della Repubblica, con la “fisarmonica ampia”... diamine se non altera la forma di governo parlamentare che è stata costruita dalla Costituzione!». Di fronte a questa concentrazione, il rischio dell’«uomo solo al comando» che sarebbe insito a una riforma che si perita di «non toccare» i poteri del presidente della Repubblica appare davvero equiparabile all’evangelica pagliuzza.
Eppure tutto ciò è quasi completamente espunto dalla discussione in corso: forse perché la quasi totalità delle forze interessate (con la potente eccezione proprio di Fratelli d’Italia) ha contribuito al secondo mandato di Sergio Mattarella? Può essere, ma proprio in queste settimane - dalla politica estera al posizionamento sulle questioni europee, dalla legge sulla carne sintetica ai decreti sulla giustizia - chiunque ha modo di apprezzare frequenza, timbro e ampiezza del «suono» della fisarmonica del Quirinale.
Forse togliere ipocrisia, sia in «difesa» sia all’«attacco» del possibile cammino della riforma aiuterebbe da un lato a chiarire le ragioni ai proponenti e dall’altro a indirizzare le critiche agli avversari. Altrimenti finisce che va bene il «potere forte» ma solo quando fa comodo.
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Pupo ed Emanuele Filiberto sul palco dell’Ariston durante l’edizione 2010 del Festival di Sanremo (Ansa)
L’aneddoto di Pupo: «Io ed Emanuele Filiberto eravamo primi a Sanremo ma una telefonata di Napolitano cambiò la classifica». È un piccolo grande esempio di quant’è fasulla la storia della neutralità presidenziale.
Ci voleva Pupo, al secolo Enzo Ghinazzi, personaggio poliedrico, cantante, conduttore, paroliere e anche scrittore, oltre che giocatore d’azzardo incallito, per strappare il velo d’ipocrisia che avvolge il Quirinale e in particolare la figura di Giorgio Napolitano, primo presidente della Repubblica a essere rieletto per una seconda volta. Per anni ci hanno raccontato che il capo dello Stato è un’istituzione super partes, che ha il solo compito di rappresentare l’unità della nazione e mai esonda dal proprio ruolo. Beh, in un’intervista a Repubblica, Pupo racconta che nel 2010, con la canzone Italia amore mio, lui ed Emanuele Filiberto di Savoia, che sul palco dell’Ariston cantava il brano insieme al tenore Luca Canonici, avevano vinto il Festival di Sanremo, ma dal Colle giunse una telefonata che impose agli organizzatori di cambiare, perché un erede del re non poteva conquistare il primo posto. Per di più, il brano era un inno al futuro, alla giustizia e al lavoro, un elogio verso un Paese «più normale», con una frase che parlava di chi non poteva tornare pur non avendo fatto niente di male. Un riferimento che al Quirinale forse qualcuno considerò un po’ troppo monarchico.
Al di là dell’episodio divertente, di una presidenza della Repubblica che si preoccupa dello «scandalo» di un erede al trono che vince la competizione canora più importante d’Italia, con la pretesa che il trio destinato al successo sia retrocesso al secondo posto, la vicenda svela il segreto di Pulcinella. Ovvero che il capo dello Stato è tutt’altro che una figura super partes designato dalla Costituzione a tagliare nastri, ricevere ambasciatori e sollecitare ogni tanto il Parlamento all’unità nazionale e al rispetto dei principi condivisi. Non so come sia stato nel passato, quando al Quirinale c’erano Giuseppe Saragat, Giovanni Leone o Sandro Pertini, ma a partire da Oscar Luigi Scalfaro, passando da Giorgio Napolitano per finire a Sergio Mattarella, con forse l’unica eccezione di Carlo Azeglio Ciampi, i presidenti della Repubblica hanno esercitato spesso un ruolo politico, intervenendo nelle scelte di governo e Parlamento e non di rado condizionandole. Nel 1994, fu Scalfaro a rassicurare Umberto Bossi, promettendogli che non avrebbe sciolto le Camere se lui avesse tolto l’appoggio al primo governo di Silvio Berlusconi. E fu sempre il Campanaro (così lo chiamavamo all’Indipendente per quella sua aria un po’ bigotta) a far da ostetrica all’esecutivo di Lamberto Dini, il cui compito principalmente fu scaldare la sedia in attesa che la occupasse Romano Prodi.
Il più attivo nel manovrare le leve della Repubblica tuttavia, pare sia stato Giorgio Napolitano, che da comunista applaudì l’invasione russa dell’Ungheria per poi trasformarsi in atlantista e applaudire gli aerei americani, inglesi e francesi che bombardarono la Libia. Quando è scomparso, tutti si sono affrettati a erigergli un monumento, smentendo che avesse brigato per far fuori Silvio Berlusconi e mettere al suo posto Mario Monti. Balle. Io stesso ho raccolto la testimonianza di un importante uomo politico tuttora sulla scena che fu testimone delle pressioni di Napolitano su Gianfranco Fini, affinché l’ex leader di An e all’epoca presidente della Camera togliesse la fiducia al Cavaliere con una scissione del Pdl. Del resto, Marco Reguzzoni, a quei tempi capogruppo alla Camera della Lega, ha raccontato di aver egli stesso ricevuto pressanti inviti dell’allora capo dello Stato a cambiare cavallo e quando respinse i solleciti ricevette in cambio una velata minaccia. Accompagnandolo alla porta, Napolitano gli avrebbe infatti suggerito di non mettersi contro.
Che l’ex comunista asceso ai vertici dello Stato fosse solito fare e disfare, peraltro lo ha rivelato proprio ieri lo stesso capo della Procura di Napoli, Nicola Gratteri. Il magistrato pare fosse stato scelto da Matteo Renzi come ministro della Giustizia, ma il Colle avrebbe detto no, bocciandolo. Ora scopriamo che Napolitano non solo si intrometteva nella scelta dei ministri (che ancora in qualche misura ci può stare, visto che tocca al presidente della Repubblica nominarli su indicazione del premier), ma metteva bocca perfino sui vincitori di Sanremo. Tutto ciò, oltre a essere divertente, mi porta a un paio di considerazioni. La prima è che non serve fare una riforma del premierato, è più urgente fare la riforma presidenziale, così almeno saremo noi e non i partiti a scegliere chi deve salire al Colle. La seconda riflessione riguarda non tanto come siano andati i festival di Sanremo, ma come sarebbe stata l’Italia senza Scalfaro e Napolitano e senza i governi tecnici. Che i capi dello Stato abbiano spesso scippato agli italiani il diritto a decidere da chi essere governati ormai è assodato. Ma senza i Ciampi, i Dini, i Monti e i Draghi, il nostro Paese sarebbe stato padrone del proprio destino e non vittima di scelte fatte da chi, in nome del bene per l’Italia, ha deciso contro gli italiani.
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