Data l’età è comprensibile che Ilona Staller, 73 anni di professione fu pornostar, non abbia più le generose, per dimensioni e costanza, entrate di un tempo. Sono ricordi quelli di quando era Cicciolina e Pito Pito, un serpentone, l’accompagnava in scena. Folgorata dai radicali sulla via dei diritti civili - sappia Elly Schlein che ci sono state battaglie per la libertà sessuale assai esplicite anche prima che lei nascesse -Ilona Staller, nativa di Budapest quando ancora Viktor Orban era in mente Dei, scoperta in tutti i sensi da Riccardo Schicchi: è stata la prima in Italia ad esibire il nudo integrale, venne eletta nel 1987 alla Camera dei deputati come seconda solo dietro a Marco Pannella nelle liste del Partito Radicale. Si presentò a Montecitorio svestita di veli e contornata da una coroncina di fiori. Ma quando cinque anni dopo si presentò con la sua collega Moana Pozzi nella lista del Partito dell’Amore gli italiani la rimandarono a casa. Ma ora batte cassa: «Voglio10milioni di risarcimento» e si è posta alla testa dei 1.300 ex parlamentari che pretendono il ripristino degli assegni vitalizi. Cicciolina fu l’emblema della campagna che Luigi Di Maio, oggi disperso nelle sabbie sahariane, ai tempi potente ministro dei 5 Stelle nel 2018 aveva iniziato contro i «privilegi» degli eleti. Giggino ’a gazzosa- per il suo pregresso impegno al servizio dello stadio Maradona di Napoli - aveva scelto la Staller come bersaglio nobile della campagna anti-vitalizio. Per i suoi cinque anni da onorevole radicale Cicciolina percepiva circa 2.400 euro. Oggi la Staller chiede non solo il ripristino dell’assegno, ma anche i danni con tanto d’interessi e fa causa allo Stato. La patrocina l’avvocato Luca Di Carlo che conferma la richiesta dei 10 milioni di euro che andranno in beneficenza anche se mesi fa la Staller aveva fatto presente che per lei quei 1.000 euro di vitalizio che le erano rimasti erano indispensabili per campare visto che ora si sostenta vendendo un po’ di suoi quadri e poco d’altro. Tra i 1.300 che si sono opposti alla cancellazione degli assegni c’è chi prendeva cinque volte tanto i soldi di Cicciolina perché i vitalizi erano parametrati agli anni di onorevole servizio. Il ricorso è pendente e se ne sta occupando il collegio d’appello di Montecitorio presieduto dall’onorevole di Fratelli d’Italia Yelena Lucaselli che ha per ora preso in esame le domande di 900 ex deputati a cui Roberto Fico, allora presidente della Camera ed esponente di punta dei Cinque stelle, aveva cassato i vitalizi. Nell’elenco dei ricorrenti c’è l’album di famiglia della prima e della seconda Repubblica. Ci sono alcuni come Antonio Bassolino, come Claudio Martelli, come Fabrizio Cicchitto che hanno fatto la storia della sinistra, hanno tutti oggi un’altra occupazione e un’altra pensione. Paolo Guzzanti una delle firme di punta del giornalismo nazionale - che ha in comune con Cicciolina la passione per la pittura - ha rivendicato il suo diritto ad avere il vitalizio nonostante - come gli ha fatto notare ieri mattina il nostro direttore Maurizio Belpietro nell’editoriale su La Verità - riceva una non trascurabile pensione per la sua attività di giornalista che peraltro non si esaurisce mai. Per integrare la pensione se non gli basta -gli suggerisce Belpietro - «Puoi scrivere andare in televisione. Lo hai sempre fatto e nel migliore dei modi e puoi continuare a farlo. Oltretutto come ci hanno insegnato Montanelli, Biagi e perfino Scalfari (il fu direttore di “Repubblica” dove Guzzanti ha lavorato per anni fu parlamentare del Psi per evitare l’arresto dopo la denuncia del caso Sifar ha sempre riscosso il vitalizio per quell’unica legislatura, ndr) scrivere aiuta. A mantenersi giovani.» Ma se i professionisti -dagli avvocati ai medici passando per giornalisti e ingegneri - possono continuare a svolgere anche da parlamentari il loro lavoro, i dipendenti pubblici - siano essi magistrati o professori e gli annali sono pieni di casi clamorosi di personaggi che hanno messo insieme triple pensioni, da Giuliano Amato ad Anna Finocchiaro a Giuseppe Ayala per non dire di Cirino Pomicino che cumula due assegni, di Romano Prodi che ne mette in fila tre - vanno in aspettativa senza stipendio, maturano i contributi e scatti di carriera. Insomma è vero che la Costituzione, e giustamente, prevede che chi fa il parlamentare poiché presta servizio al Paese debba ricevere durante il suo mandato uno stipendio (nel caso dei nostri appare più che adeguato, per dirla in maniera elegante) che assicuri loro anche l’indipendenza, ma quando scendono dal seggio dovrebbero tornare alla vita e allo stipendio normale. E invece no. Ecco il ricorso. Paladino del plotone dei devitalizzati è l’avvocato Maurizio Paniz, già parlamentare Pdl-Fi, patrocinatore dei ricorsi di circa 650 deputati, ma che ha già fatto e vinto la battaglia al Senato. Sostiene Paniz: «Anche i parlamentari, come tutti i politici che dedicano decine di anni all’attività pubblica hanno diritto ad avere un trattamento pensionistico: il vitalizio non è un regalo, ma solo una pensione, che matura al sessantacinquesimo anno di età e che è strettamente legata ai contributi corrisposti in vita.» La decisione del collegio di appello di Montecitorio è attesa a giorni, forse a metà della prossima settimana. Una cosa è certa a Cicciolina la richiesta di vitalizio non pare oscena, anzi spera di ritrovare, se non tutte, almeno parte delle entrate di una volta.
Tutti ricordiamo cosa accadde circa un anno fa, in occasione della «cerimonia» di apertura dei Giochi Olimpici di Parigi. Era il 27 luglio e tra straordinari balli e spettacoli sulla Senna, animati da figure come Celine Dion e Lady Gaga, una performance blasfema mimò l’Ultima Cena di Leonardo (e di Gesù) ed il mondo intero se ne accorse e protestò. I vescovi francesi, in linea di massima piuttosto sobri e tolleranti verso le «mondanità» della cultura laica, emisero un comunicato, il giorno dopo l’apertura dei Giochi.
In esso, ribadivano la tradizionale stima della Chiesa per «i valori e i principi» veicolati dallo «sport e dall’olimpismo», come la ricerca di «unità e fraternità», ma anche il doveroso «rispetto per le convinzioni di tutti», senza cui non c’è «pace tra le nazioni e nei cuori». Con chiaro riferimento alla parodia blasfema dell’Ultima Cena, in cui un Gesù donna era attorniato da apostoli in versione drag queen, i vescovi osservano che «la cerimonia di apertura» ha incluso anche «scene di derisione e scherno nei confronti del cristianesimo», la qual cosa «deploriamo profondamente». Addirittura, l’episcopato ringrazia le «altre confessioni religiose» che ci hanno «espresso la loro solidarietà». Segno evidente che i prelati non esagerano quando notano che ci sono stati, visto che la cerimonia era in mondovisione, «cristiani di tutti i continenti» ad essere «feriti dall’eccessività e dalla provocazione di alcune scene», dovute alle «posizioni ideologiche di alcuni artisti».
Protagonista assoluta della derisione blasfema fu Barbara Butch che incarnava Gesù nel momento solenne dell’ultima cena coi discepoli. Fino ad allora semi-sconosciuta dj e attivista lesbica, la Butch era nota unicamente negli ambienti gay per aver ricevuto un premio nel 2021, come «personalità Lgbt dell’anno». Ad un anno dalla performance offensiva, che a suo tempo il direttore artistico Thomas Jolly cercò di negare, dicendo che si trattava di Dioniso e non di Cristo, la Butch ha ricevuto un nuovo premio. Che stavolta però, per la notorietà raggiunta a danno dei cristiani e delle persone che rispettano la religione (e l’arte), sa veramente di provocazione a freddo, dunque ancor più grave.
Infatti, come ci informa Boulevard Voltaire, il ministro della Cultura Rachida Dati ha fatto sapere di aver incluso la dj Barbara Butch tra coloro che saranno nominati «Cavalieri dell’Ordine delle Arti e delle Lettere». Il sito anticonformista si chiede ironicamente: «a quale titolo» questa nomina prestigiosa, normalmente attribuita a letterati, artisti, poeti e autori cult?
Il Cavalierato, secondo i suoi statuti, è una «decorazione onorifica» che premia «le persone che si sono distinte per la loro creatività nel campo artistico o letterario» o per il contributo che hanno dato «alla diffusione delle arti e delle lettere in Francia e nel mondo». Nei decenni scorsi hanno avuto il riconoscimento immense figure come Marc Chagall, Le Corbusier e André Maurois.
Nel caso della Butch, oltre alle soirées nelle discoteche parigine e l’attivismo lesbico, unito alla lotta contro la «grossofobia» c’è poco e nulla. A meno che, madame Dati, fedelissima ministra di Emmanuel Macron, non abbia voluto ricompensarla proprio per la «parata blasfema e provocatoria» che ha causato tanta rabbia nei cattolici francesi, in qualche modo declassati a cittadini di serie B, su cui infierire a piacimento.
La Butch, per ringraziare il governo «blasfemo» di Macron ha girato un breve video in cui ricorda proprio la triste performance che l’ha resa celebre, confermando la nostra lettura. Dice tutta contenta che «un anno fa» era all’apertura dei Giochi «per far ballare tutti durante la cerimonia delle Olimpiadi». «È stato davvero un dono» continua la novella Cavaliera di cappa e spada «poter stare con le persone della comunità Lgbt» da cui effettivamente era stati pescati anche gli altri attori per la triste parodia dell’Ultima Cena.
Secondo la dj militante poi, durante quella cerimonia e quei Giochi «non c’erano più barriere sociali, di genere, di origine sociale»: «Eravamo tutti lì, tutti uniti».
«Tutti» meno qualche milione di cattolici, di evangelici, di ortodossi, di credenti e di persone comunque infastidite (da Marine Le Pen a Giorgia Meloni, da Donald Trump a papa Francesco): fa ancora «tutti»?
Khelif denuncia il giornalista che l’accusa di essere uomo: «Ora pubblichi i suoi esami»
«Imane Khelif dovrà spiegare tutto davanti a un giudice». Il giornalista Djaffer Ait Aoudia, fondatore del giornale online Le Correspondant e autore di un articolo che ha rivelato il contenuto di una presunta cartella clinica dalla quale risulterebbe che la pugile ha cromosomi XY, è pronto alla battaglia legale. Lo ha detto a chiare lettere ieri su X annunciando la decisione di sporgere denuncia contro la Khelif dopo che il suo avvocato, sul quotidiano Bild, ha bollato il lavoro del reporter con due parole: fake news.
«È giusto che la verità venga fuori», ha commentato Djaffar, «per questo invito non solo Imane a denunciarmi, ma spero che lo faccia anche il Comitato internazionale olimpico e il Comitato olimpico algerino, così come spero lo faccia anche Mustapha Berraf, dirigente algerino nonché stretto amico del presidente del Cio, Thomas Bach, che in questa vicenda ha un ruolo centrale».
Detto fatto, perché la pugile, ospite di Massimo Giletti a Lo stato delle cose su Rai 3, non si è certo tirata indietro e ha annunciato che non ha certo paura di andare per le vie legali. Se fino a ieri, infatti, Imane aveva denunciato Djaffar solo in Algeria, negli studi Rai ha fatto sapere che la denuncia verrà fatta anche in Francia. Un dettaglio importante perché dietro il tentativo di non denunciare, o di farlo solo nel Paese Nord africano, qualcuno aveva letto la paura di giocare a carte scoperte. Così come, con la decisione dopo la squalifica ai Mondiali di pugilato del 2023 per mano dell’Iba (International boking association), di non fare ricorso al Cas (Corte arbitrale dello sport).
Intanto, rispetto a quanto rivelato da Le Corrispondant, giornale di reportage e inchieste nato cinque anni fa, «non legato ad alcun gruppo economico o potere politico» come tiene a precisare, non sono mancate le critiche e i tentativi di debunking. A suscitare perplessità è stata soprattutto la veste un po’ anonima dei due estratti pubblicati della presunta cartella clinica della Khelif, senza firme ufficiali e intestazioni. Anche il riferimento alla pugile, al di là di un semplice nome proprio, è apparso incompleto. Tanti e molto specifici, invece, i dettagli clinici riportati nell’articolo, in particolare il riferimento al disturbo della differenziazione sessuale che sarebbe stato attribuito a Imane, quello della «5 primo alfa reduttasi», un’anomalia enzimatica che colpisce i soggetti biologicamente maschi, con cromosoma XY, e che renderebbe lo sviluppo dei genitali incompleto. In pratica, la pugile avrebbe un micropene e testicoli interni.
Una serie di dettagli anche molto intimi che sarebbero, dunque, contenuti nel report medico che, secondo Djaffar, è stato redatto dal professor Jacques Young, primario di endocrinologia presso l’ospedale Bicetre di Parigi. E che il giornalista, dopo oltre due mesi di lavoro, promette di pubblicare nei prossimi giorni all’interno della versione integrale e definitiva dell’inchiesta, in esclusiva contemporaneamente sul sito femminista americano Reduxx e su un’altra testata europea.
In realtà, la notizia che Imane fosse stata visitata da un importante endocrinologo dell’ospedale Bicetre di Parigi era uscita lo scorso agosto proprio durante le Olimpiadi. Ne aveva dato notizia, in un’intervista a Le Point , Georges Cazorla, insegnante di biologia applicata alla attività fisica presso l’Università di Bordeaux che nel 2022 era stato contattato dal manager di Khelif, Nasser Yefsah, basato a Nizza, perché la preparasse per il campionato africano e i Giochi olimpici. Da quel momento, Imane si reca in Francia diverse volte.
Quando, a marzo 2023, arriva la notizia della squalifica della pugile algerina dai Mondiali di Nuova Deli, Cazorla decide di vederci chiaro e contatta un endocrinologo. Ed è sempre lui a riferire nell’intervista che dagli esami medici emergono dei problemi con gli ormoni e persino con i cromosomi. «Ma Imane resta una donna», lo avrebbe rassicurato il medico.
Chi potesse essere il medico, non si è mai saputo. Fino allo scorso 25 ottobre, quando il reporter francese pubblica il resoconto della presunta cartella clinica attribuendola proprio a Young. Oltre al report redatto dal medico francese, ve ne sarebbe stato anche uno firmato da una endocrinologa algerina, Soumeya Fedala, ma molto più conciso. Ma a quanto pare, a quanto annuncia il giornale francese, tutti i dubbi troveranno le proprie risposte con la pubblicazione dell’intero dossier che, secondo Djaffar, non è certo un tentativo di colpire Imane verso la cui storia dichiara di esprimere empatia.
«So quanto ha lottato per arrivare dove è arrivata, provenendo da una famiglia umile. Posso capire la sua sofferenza di fronte a temi così personali sbattuti in prima pagina», spiega, «ma la battaglia che stiamo facendo non è contro di lei ma contro chi fin dall’inizio di questa storia ha nascosto la verità». Il riferimento sembra essere soprattutto ai dirigenti algerini che avrebbero favorito la carriera di Imane, nonostante la sua condizione di salute particolare. In tal caso, probabilmente contando su complicità e silenzi.
Tutti sapevano, eppure si sarebbe deciso di non fare nulla. Questo il quadro che sta emergendo sul caso di Imane Khelif, pugile dell’Algeria, medaglia d’oro alle Olimpiadi di Parigi tra le polemiche scatenate dalla sua non chiara identità sessuale. Dopo lo sfoggio di femminilità alla Fashion week di Milano e sulla copertina di Vogue Arabia, un tassello alla vicenda lo ha aggiunto il giornale investigativo francese Le Correspondant.
Il giornalista Djaffer Ait Aoudia sarebbe riuscito a scovare i report stilati da due medici che avevano visitato Imane già un anno prima delle olimpiadi di Parigi, dai quali risulterebbe che Imane sarebbe biologicamente maschio. Un quadro rispetto al quale, molti elementi erano già emersi ma che ora troverebbe un ulteriore riscontro. Quello delle cartelle cliniche redatte da Soumaya Fedala, endocrinologa dell’ospedale Mohamed Lamine Debaghine di Algeri, e Jacques Young del Kremlin Bicetre di Parigi, delle quali la testata francese pubblica alcuni stralci.
Come si legge, Imane avrebbe un deficit di Alfa 5 reduttasi, un disturbo dello sviluppo sessuale che colpisce prevalentemente i soggetti maschi. Come nel caso di Khelif, che da test genetico presenterebbe cromosomi maschili XY e caratteri sessuali primari simili, apparentemente, a quelli di una femmina. Tipico di questa condizione infatti sarebbe la presenza di una sorta di canale vaginale cieco per cui, in assenza di buone diagnosi, alla nascita questi soggetti solitamente vengono identificati come femmine e crescono come tali. Fino all’adolescenza. Qui di solito iniziano a comparire segni di mascolinizzazione, dai peli sul corpo ad un forte accrescimento della massa muscolare, mentre il seno e il ciclo mestruale sarebbero del tutto assenti. A questo punto, un esame clinico approfondito permette di scoprire anche l’assenza dell’utero, delle ovaie, e la presenza invece di testicoli interni.
Una condizione che secondo il giornale francese sarebbe stata riscontrata tramite risonanza magnetica anche nel caso di Khelif. La stessa condizione della velocista sudafricana Caster Semenya, protagonista di vari ricorsi contro la World Athletics e di una lunga battaglia contro le discriminazioni.
Sempre a quanto riportato da Le Correspondant, un test ormonale su Khelif avrebbe rilevato livelli di testosterone troppo alti per essere quelli di una donna. Un quadro molto dettagliato sulla base del quale i medici avrebbero consigliato a Khelif di sottoporsi ad una «correzione chirurgica e ad una terapia ormonale» così da potersi meglio allinearsi fisicamente con l’identità di genere autopercepita, a ennesima conferma di una realtà biologica assai diversa da quella raccontata al mondo.
Per il momento, dei report in oggetto sono stati pubblicati solo pochi stralci ma a quanto pare nell’ambiente erano noti, soprattutto al Cio (Comitato Olimpico Internazionale) visto che erano stati redatti nel giugno del 2023. Ben un anno prima di Parigi e tre mesi dopo la decisione da parte dell’Iba (International Boxing Association) di squalificare la Khelif dai campionati mondiali di Nuova Deli perché «non soddisfaceva i criteri di ammissibilità necessari e presentava vantaggi competitivi rispetto ad altre donne».
Dichiarazioni che per motivi di privacy, l’Iba non aveva esplicitato ma che, come si è poi capito dalla conferenza stampa tenuta a margine delle olimpiadi, non essendo stati eseguiti test sui livelli di testosterone, dovevano per forza fare riferimento al corredo cromosomico dell’atleta. In una curiosa successione degli eventi però, sempre nel giugno 2023, l’Iba viene esclusa dal Cio e così non ha modo di portare avanti le proprie posizioni sul caso Khelif.
Stando a quanto dichiarato da Ioannis Filippatos, medico ginecologo, ex presidente del comitato medico dell’Iba e attuale presidente dell’European Union Boxing Committee affiliata all’Iba, che Khelif non potesse partecipare nelle categorie riservate alle donne però, era già piuttosto chiaro. Di qui l’esclusione, come ribadito anche a margine delle Olimpiadi dove Filippatos senza tanti giri di parole aveva fatto sapere che il cariotipo di Khelif era quello di un maschio. Una posizione in netto contrasto con la decisione del Cio, deciso a selezionare gli atleti semplicemente sulla base del genere indicato sul passaporto.
«So di questo report», conferma Filippatos, «ma non è mai arrivato all’Iba perché gli avvocati di Khelif si sono opposti». Per il medico però non sarebbe nulla di nuovo visto che, come già raccontato alla Verità, lui stesso aveva ipotizzato il suddetto quadro clinico. Una patologia che l’Iba avrebbe potuto confermare tramite appositi test se Khelif avesse collaborato. Invece niente di tutto questo. Anzi, non solo gli avvocati avrebbero diffidato l’Iba dal mostrare i risultati dei test genetici, ma si sarebbero ben guardati dal diffondere le cartelle cliniche stilate dai due medici, che invece sarebbero ben conservate nei cassetti della Federazione algerina di pugilato.
A quanto pare, proprio un algerino membro del Comitato Olimpico, tale Mustapha Berraf, presidente dell’Anoca (Associazione dei Comitati Olimpici Nazionali dell’Africa) e amico del presidente del Cio Thomas Bach, e nonostante fosse a conoscenza della condizione di Khelif, avrebbe avuto un ruolo centrale nella vicenda, spingendo per l’ammissione dell’atleta ai Giochi di Parigi. Ignorando, evidentemente, le possibili ricadute in termini di fair play in discipline sportive dove la divisione tra maschi e femmine non sono certo un vezzo, bensì condizione necessaria per salvaguardare l’equità agonistica.
Ci mancava solo la celebrazione del quarto posto. Nelle Olimpiadi delle follie siamo arrivati a questo: si esulta per chi ha inseguito il podio e non l’ha raggiunto. Del resto non è forse per ciò che si gareggia? Non è per ciò che ci si allena? Per vedersi sconfitti, ovvio. Evviva, che bello, siamo arrivati quarti. Siamo proprio bravi, noi italiani: abbiamo il record dei quarti posti. «Sono venti», s’entusiasma il presidente del Coni Malagò, aggiungendo che ci sono altri cinque piazzamenti «assimilabili». Che cosa significhi, non si capisce, ma a occhio e croce vuol dire che abbiamo perso. Ottimo: non è un valido motivo per festeggiare? In tutto il mondo le «medaglie di legno» sono segno di sconfitta. Per noi sono diventate un trionfo.
Infatti l’Ansa ci fa sapere che, per la prima volta, al Quirinale, quando il 23 settembre si svolgerà la cerimonia per la consegna del tricolore ai vincitori delle Olimpiadi, saranno ricevuti anche loro, i quarti classificati. Così ha deciso il re della Repubblica, Sergio Mattarella. E il re può fare quello che vuole, ovvio. Anche decidere che il legno d’ora in avanti vale oro, e che arrivare quarti è meglio che arrivare primi, e che star giù dal podio è meglio che salirci su.
Avanziamo solo un dubbio: perché i quarti classificati sì e i quinti no? Ci permettiamo, sommessamente, di perorare lassù sul Colle la causa dei quinti classificati. E già che ci siamo, anche dei sesti: non si vorranno mica escludere proprio loro? E già che ci siamo: i settimi? E gli ottavi? E i noni? E gli ultimi classificati? Se, come dicono i trombettieri del Colle, «il valore di una prestazione non dipende dalla medaglia» nessuno va lasciato a casa. Tutti al Quirinale, evviva, si fa festa per le gare vinte. Ma, soprattutto, per quelle perse.
Che poi è piuttosto ridicolo, se ci pensate. Da una parte si celebra il numero delle medaglie ottenute (40 come a Tokyo, ma con 12 d’oro), dall’altra si manda il messaggio che non sono le medaglie che contano. Da una parte si festeggia estasiati per la vittoria delle bravissime ragazze d’oro della pallavolo, dall’altra si dice che vincere non è poi così importante. Da una parte ci si entusiasma per essere arrivati primi in tanti sport, dall’altra si festeggia il quarto posto perché «è il piazzamento del più forte tranne i primi tre». Sicuro: il quarto posto è il piazzamento più forte tranne i primi tre. Ma anche il quinto è il piazzamento del più forte tranne i primi quattro. E il sesto è il piazzamento del più forte tranne i primi cinque. E l’ultimo è il piazzamento del più forte tranne tutti gli altri. Che facciamo? Alle prossime Olimpiadi ci alleniamo per riuscire a perdere un po’ di più? O eliminiamo direttamente le competizioni e distribuiamo le medaglie con criteri da socialismo olimpico?
Ma sì: a ciascun atleta non più secondo i propri meriti, ma secondo i propri bisogni. Non è necessario gareggiare, basta la pianificazione dei podi in stile soviet: un po’ d’oro a quello, un po’ d’argento all’altro. L’unica cosa che non servirà distribuire è il bronzo. Di quello ce n’è fin troppo, in queste Olimpiadi. Soprattutto sulle facce dei commentatori. Dopo gli eccessi della grandeur francese, infatti, negli ultimi giorni ci è toccato assistere agli eccessi dell’ebrezza italiana. Tutti ubriachi di giochi fino a perdere la ragione. Tanto da festeggiare i quarti posti. E tanto da trasformare in eroe nazionale un atleta come Gianmarco Tamberi che ha sottoposto il suo fisico a uno dimagrimento estremo, una dieta stressata oltre ogni norma sanitaria, con la riduzione della massa grassa a limiti pericolosissimi. Lui stesso sapeva di star facendo una cosa sbagliata («Non vorrei che qualcuno copiasse quello che faccio io per dimagrire», aveva detto).
Ne valeva la pena? E perché i nostri giornali esaltano Tamberi che si rovina per una medaglia d’oro se poi dicono che vincere la medaglia non conta nulla? Le telecamere sono rimaste fisse all’infinito sulle sue lacrime: non ci siamo persi nemmeno un suo singhiozzo, nemmeno un suo lamento e pazienza se nel frattempo c’era un altro atleta italiano, dal volto pulito e il fisico integro, che cercava di lottare per la medaglia nel salto in alto, ignorato dai più. Noi avevamo scelto il perdente Tamberi, quello che prima gioca con la sua salute e poi ci racconta, minuto per minuto, i suoi vomiti di sangue sui social. Un vero eroe nazionale.
E l’altro eroe nazionale Julio Velasco? Lui è stato bravo davvero, si capisce. Ma anche qui si è persa la misura. Anche qui l’ubriacatura olimpica ha offuscato la ragione. Quel poveretto che pensa di far ridere, Luca Bottura, dopo aver sobriamente commentato a caldo la vittoria delle azzurre («Vannacci suca») ha pensato di ridarsi un tono sulla Stampa proponendo Velasco come «presidente di tutto, padrone del mondo, monarca illuminato delle galassie». Va beh, direte voi, un caso disperato. Ma in realtà tutti i giornali sono pieni di ritratti estasiati e inginocchiati di Julio Velasco, l’«uomo di sinistra», che parla di Che Guevara fino alle tre del mattino e dà una mano a Veltroni, ma solo «perché sapevo che avrebbe perso» (che dite? Mandiamo sul Colle pure Veltroni? Come perdente non è male no?).
E nessuno che si accorga che gli eccessi nel descrivere «il maestro» inevitabilmente finiscono per ridimensionare l’impresa delle ragazze. Fiumi di orgoglio femminista, e poi si arriva a questo punto, a lasciar intendere che queste atlete del volley sì, sono bravine, ma senza quel maschio super intelligente non avrebbero vinto mai. Al massimo forse sarebbero arrivate quarte. E verrebbe da dire: peccato non l’abbiano fatto, altrimenti sai che festa al Quirinale.







