content.jwplatform.com
(iStock)
Il pasticcere Pasquale Pesce ha vinto i concorsi per il dolce classico e per quello al cioccolato più buoni. Certificando che il lievitato nato a Milano nel Cinquecento oggi non conosce più alcun confine, visto che lo copiano in Giappone, Cina, Perù e persino in Brasile.
È davvero impossibile scalzare il primato mondiale del tiramisù, il dolce italiano più amato nel pianeta? Probabilmente sì, ma c’è un altro capolavoro dell’arte pasticciera italica che sta provando a rosicchiare il vantaggio del tiramisù: il panettone.
Uscito da decenni dalla cerchia dei Navigli, abbandonata la rassicurante sagoma delle guglie del Duomo sotto le quali è nato, sciolto dai legami che lo tenevano stretto al Natale, destagionalizzato, buono cioè per tutte le stagioni, il panettone artigianale dopo aver conquistato i palati italiani sta muovendo alla conquista di quelli europei. E il bello è che ci sta riuscendo.
Il carattere è milanese, pura razza meneghina: tenace, rigorista, fortemente legato alla tradizione (è un po’ asburgico in questo), gli piace il successo e a volte fa il ganassa, lo sbruffone. In Francia e Spagna è molto amato, soprattutto nella versione con il cioccolato. In Inghilterra, al momento di fare i bilanci del 2023, il suo successo ha provocato una reazione scomposta, quando i supermercati britannici hanno reso pubblici i numeri di vendita dei panettoni italiani: più 125% rispetto all’anno prima. Inviperito, rendendosi conto che il panettone scalzava il tradizionale Christmas pudding, Tony Turnbull, critico del Times, si è sfogato sul suo giornale con una dichiarazione Brexit: «Detesto il panettone: è pesante, noioso e troppo cotto».
«Ha scritto scemenze», gli ha replicato a tamburo battente il re dell’alta pasticceria italiana, Iginio Massari, «si capisce che non ha assaggiato un’opera di pasticceria elaborata, che richiede studio ed esperienza, ma un panettone industriale». E, per sottolineare il valore esistenziale del panettone, il Michelangelo dei pasticcieri italici aggiunge: «Il panettone artigianale è uno di quei dolci che va gustato almeno una volta nella vita. Meglio se tante volte di più». La morale è: contro il logorio, la noia, la monotonia della vita moderna, il panettone emoziona. È un antistress. Non passa per lo stomaco, ma va diritto al cuore. I francesi usano lo stesso riguardo verso la loro pastarella regina: «La vita è troppo breve per mangiare una brioche vuota». Il dolce è un salvavita anche per la scrittrice giapponese Banana Yoshimoto: «Quando fuori piove e dentro sei triste o fai l’amore o fai la torta di mele».
Il Giappone, nazione innamorata dell’Itameshi, la cucina italiana, ha spostato l’attenzione sulla pasticceria tricolore. I laboratori artigianali nipponici stanno lavorando sui capolavori dell’arte pasticciera italiana a ritmi vertiginosi, sul panettone in particolare, ma anche sul pandoro. E sono diventati così bravi da mandare un pasticciere a rappresentare il Paese del Sol Levante nel concorso «Panettone senza confini». Racconta Massari: «Anche in Cina hanno imboccato la lunga marcia verso i dolci italiani. Il panettone artigianale non ha più confini, appartiene al mondo intero. È diventato un business mondiale. Oltre a Giappone e Cina, ci sono gli Usa, il Perù e il Brasile».
Quanto il panettone sia diventato mondiale lo ha dimostrato «Panettone senza confini», il concorso organizzato dall’associazione degli Ambasciatori pasticcieri dell’eccellenza italiana (Apei) su Costa Toscana, l’ammiraglia della Costa Crociere. L’hanno chiamata la Crociera del panettone: mentre la gigantesca nave portava i crocieristi a spasso nel Mediterraneo occidentale (Savona, Marsiglia, Barcellona, Palma di Maiorca, Palermo, Gaeta), a bordo era tutto un fervore di laboratori, presentazione di maestri pasticcieri di fama europea convocati per la giuria, assaggi di gelati, di creme e concorsi.
Tre le sezioni in gara: panettone tradizionale, la più importante; panettone con il cioccolato; panettone tradizionale amatoriale, aperta ai non professionisti. Quest’anno - è la nona edizione del concorso - l’Aipei ha aggiunto una quarta sezione dedicata al «fratello» natalizio del panettone, il pandoro artigianale. Ed è proprio a questo concorso che ha partecipato Nakamura Tomohiko, capo panettiere del Mandarin oriental hotel group di Tokio. Tomohiko non ha vinto, ma ha dimostrato una maestria degna di Domenico Melegatti, l’inventore veronese (1894) del pandoro. A vincere è stato Roberto Moreschi di Chiavenna in Valtellina.
La storia del panettone è costellata di leggende e fantasie. C’è chi lo fa nascere al tempo degli Sforza, da Toni, un ragazzotto di cucina, da cui «Pan di Toni»; chi, siamo sempre in tempi antichi, da una tale suor Ughetta che rallegrò il pranzo di Natale delle consorelle. C’è anche chi lo fa nascere in Sicilia per via di un dolce isolano che lo ricorda. Mette i puntini sulle «i» Iginio Massari: «Il panettone è nato a Milano, probabilmente nel Cinquecento e c’è un disciplinare, spina dorsale del concorso, che regola come dev’essere fatto: uova, burro, farina, lievito, latte e soprattutto uvetta sultanina, scorze di arancia candite e cedro candito».
A vincere la categoria più prestigiosa è stato un pasticciere irpino, Pasquale Pesce, titolare dell’omonima pasticceria di Avella, in Provincia di Avellino, che vanta 128 anni di attività. Pesce, dimostrando che il panettone, Garibaldi dei dolci, ha conquistato il Sud, ha concesso il bis vincendo anche il primo premio nella categoria del miglior panettone al cioccolato.
A consegnargli i premi è stato Iginio Massari, presidente della giuria tecnica, cui si sono affiancati, nel corso della selezione, alcuni tra i più famosi pasticceri internazionali: Paco Torreblanca, considerato il miglior pasticcere di Spagna; Riccardo Bellaera, chef assoluto di pasticceria, gelateria, panetteria e pizzeria delle nove navi di Costa Crociere (dipendono da lui 440 pasticcieri); Pascal Lac, il maître chocolatier più rinomato di Francia (è stato per quattro volte Best of the Best dei cioccolatieri francesi); Francesco Mastroianni, cinque volte campione d’Italia di gelateria; Emanuele Forcone, quattro volte campione italiano di pasticceria e campione del mondo a Lione nel 2015; Mauro Lo Faso, trentenne titolare della pasticceria Delizia di Bolognetta, vicino a Palermo, già vincitore di una edizione di «Panettone senza confini». Accanto alla giuria dei maestri pasticcieri, l’Apei ha voluto il giudizio, per il concorso panettone al cioccolato, di un gruppetto di giornalisti enogastronomici e di viaggio appartenenti all’associazione Italian travel press. La loro scelta ha premiato Nicola Zanella, 27 anni, due lauree, di Pederobba in Provincia di Treviso.
Un plauso speciale Massari lo ha riservato a Raffaele Farina di Varese, che si è aggiudicato il premio per il Miglior panettone tradizionale amatoriale. Massari ha riconosciuto come alcuni dei panettoni presentati dagli amatori non siano stati inferiori a quelli dei professionisti.
Riccardo Bellaera, il gran capo dei dolci della flotta, racconta che nella pasticceria di Costa Toscana si lavora 24 ore al giorno per sfornare ogni dì 20.000 monoporzioni di dolci, 12.000 dessert a piatto più migliaia e migliaia di merende e altri dolci: «Mi sono innamorato del panettone quand’ero bambino a Modica, la capitale del cioccolato fondente. Sono rimasto un goloso pazzesco che non smette di fare ricerca. Ma se il dessert è diventato il fiore all’occhiello della Costa Crociere bisogna ringraziare Mario Zanetti, l’amministratore delegato che ci ha creduto investendo fondi in macchine, personale e fornitura di materie prime di altissima qualità».
Fausto Morabito è l’ideatore e presentatore di «Panettone senza confini»: «Rimasi folgorato sulla via del “Pan de Toni” artigianale quando, dopo aver fatto il militare, conobbi Iginio Massari nella sua pasticceria di Brescia. Fino ad allora non avevo stima di questo dolce: a Reggio Calabria ne girava uno industriale, uno di numero, che nessuno voleva e regalava ad amici o vicini i quali lo regalavano a loro volta. Quando incontrai il vero panettone grazie a Massari e ad Achille Zoia, mago degli impasti e della lievitazione naturale, capii che era con loro che iniziava la storia del panettone italiano artigianale che è diventato il dolce italiano famoso nel mondo e due anni ha superato, come fatturato, il panettone industriale. Non c’è dubbio: il panettone non ha più confini».
Continua a leggereRiduci
Fedez e Chiara Ferragni (Ansa)
Lo scandalo che ha investito Chiara Ferragni può far scoppiare la bolla. Il giocattolo si è rotto: i divetti online creano poca ricchezza nel mondo reale e cercano di ripulirsi l’immagine promuovendo raccolte fondi.
Forse è la volta buona. Forse, l’ultimo inciampo della premiata ditta Ferragnez farà scoppiare la bolla degli influencer. Imprenditori di sé stessi, che vendono sé stessi e guadagnano per sé stessi. Non ci sarebbe nulla di male, se poi, imprigionati negli ingranaggi del capitalismo woke, di cui hanno bisogno per restare in tendenza, non cercassero di sembrare buoni, equi, solidali, engagé. La verità è che, per loro, la carità fa parte del business model. Per capirlo non servivano pandori, uova di Pasqua e terapie intensive. Nel 2018, quando Fedez festeggiò il compleanno in un supermercato con lanci di ortaggi, i coniugi trovarono una facile scappatoia dalle polemiche sullo spreco di cibo: «Diciamo che lo diamo in beneficenza».
Dunque, cos’è un influencer? Uno «pienamente ozioso e pienamente occupato», spiegò una volta a Maurizio Caverzan, sulla Verità, l’esperto di comunicazione Paolo Landi. Con meno poesia: uno capace di monetizzare la sua frivolezza. E cos’è Instagram, la piattaforma sulla quale spopola Chiara Ferragni? «Un ipermercato che vende merci ed emozioni insieme». Dopodiché, a un certo livello, la moda, il costume, gli aerei privati e i party in terrazza non bastano più. L’élite del Web, per tramutarsi nell’élite da Ambrogino d’oro, per passare dal potere di orientare gli acquisti al potere di orientare le decisioni, deve costruirsi un profilo politico. E alla fine, la domanda vera è un’altra: chi ci guadagna? L’influencer è il mestiere del futuro? O è una gigantesca illusione? Chiunque può seguire le orme della fondatrice di The blonde salad? O la maggioranza delle epigone è destinata a incassare 50 euro per sponsorizzare seminuda una crema?
Siamo sinceri: nel momento in cui il virtuale si traduce nel reale, l’arma nucleare dei like somiglia di più a una pistola a piombini. L’analisi tecnica delle pagine della Ferragni, che discutiamo nella pagina accanto, svela già diverse magagne, inclusi i sospetti sui seguaci finti. Il punto è che i numeri dell’imprenditoria digitale non per forza coincidono con i fondamentali dell’imprenditoria solida. Fenice srl, una delle società di Chiara, conta undici dipendenti. Tbs crew srl, l’altra, ne ha 15. È a questo che si riducono i quasi 30 milioni di fan su Instagram, tra quelli autentici e i presunti bot. Anni fa era venuto fuori che, agli impiegati, la modella versava 3.400 euro al mese. D’accordo. Ma l’impero dell’immagine non ha partorito un colosso aziendale. I fatturati sono consistenti; la struttura è snella. Vale anche per le ditte del marito della Ferragni, Federico Lucia. La Doom entertainment ha 21 dipendenti per 10 milioni di fatturato; la Zdf, che l’anno scorso fatturava oltre 5 milioni, ne ha quattro; la Zedef, che fattura 40.000 euro, nessuno. La stessa ombra di «autismo» economico si allunga sulla fondazione battezzata dal rapper, alla quale il grosso delle donazioni arriva da Fedez in quanto persona fisica. Casualmente, è così che si matura il diritto a cospicue detrazioni fiscali.
I Ferragnez, comunque, si trovano in ottima compagnia. Tommaso Zorzi, seguitissimo (2 milioni di follower su Instagram), nonché molto attivo se c’è da incoraggiare l’agenda Lgbt o sparlare di Matteo Salvini e Giorgia Meloni, annovera la bellezza di zero dipendenti nella sua House of Tommy srl, che pure ha registrato, nel 2022, più di 364.000 euro di fatturato. Khaby Lame, il giovane di origini senegalesi che su TikTok supera i 160 milioni di fan, la scorsa estate avrebbe incassato 16,5 milioni di dollari per partnership con case di moda, compagnie assicurative e piattaforme di giochi online. Con lui collabora un agente. Basta.
È una colpa? Macché. Dov’è scritto che una partita Iva sia tenuta a mettere su una mega azienda? Ma almeno, i miracolati della Rete non si spaccino per Madre Teresa. Evitino di predicare. Resistano al desiderio di riconvertirsi in figurine perbeniste e socialmente impegnate. Sbandierando la loro misericordia: «Associare il proprio brand a iniziative caritatevoli», ha notato infatti l’Antitrust, «può essere un ottimo affare».
È che un imprenditore autentico, la sua funzione sociale, la svolge lavorando. E dando lavoro. Producendo, generando reddito e consumi, stimolando l’innovazione, attirando un indotto. Al netto della patina luccicante del jet set, o delle guide rosse nei gala, un influencer è molto meno. È un testimonial. Un mezzo che alle aziende conviene, perché a costi paragonabili a quelli delle solite agenzie raggiunge un target commerciale meglio definito. Ma è proprio quella evanescenza a vincolarlo ai rituali del capitalismo woke, al lavacro della carità pelosa, all’arruolamento in ogni crociata politicamente corretta. Un meccanismo infernale in cui più tempo si rimane sulla giostra, più aumenta il rischio di pestare cacchine.
Non che l’imprenditore classico schifi la beneficenza. Però può gestirla alla maniera evangelica: senza che la destra sappia cosa fa la sinistra. Invece, se il prodotto è un simbolo, nemmeno il bene riesce a uscire dal circuito dell’automarketing. Il vecchio capitalismo era fondato sull’industria - ed era un motore di Pil. Il nuovo capitalismo dei «buoni» galleggia sull’aria fritta - ed è un moltiplicatore di profitti personali. Sorvolando sulle allucinazioni che alimenta: per una Ferragni, titolata a pretendere fino a 80.000 euro per ciascun post, c’è un esercito digitale di riserva che riesce a scucirne massimo una ventina. Persino nell’appetitosa galassia 4.0, quella dei locali fighetti meneghini e della casella dei direct message stracolma, esiste un proletariato. Come nell’antico mondo di Marx.
Continua a leggereRiduci
Non solo scandalo donazioni: le analisi di società specializzate mostrano che circa un terzo dei seguaci è costituito da account «sospetti» o che usano strumenti automatici come i bot. La Procura di Milano apre un fascicolo senza ipotesi di reato né indagati.
Dopo la vicenda del panettone Balocco e delle uova di Pasqua, Chiara Ferragni perde follower. Al 19 dicembre, secondo i dati di Not Just Analytics, hanno lasciato l’influencer digitale in 33.854 e dal 14 al 20 dicembre la Ferragni ha registrato un -76.512 follower. Un’inezia si penserà, visto che l’influencer ha all’attivo 29,6 milioni di seguaci. Se però si analizzano i trend su base annuale si può notare come questa perdita risulti essere la maggiore mai registrata. Risulta infatti normale, per un profilo così corposo, registrare delle fluttuazioni giornaliere e settimanali di persone che si aggiungono o sottraggono alla schiera di seguaci.
segnali
Non è invece normale, stando ai trend del profilo della Ferragni, la perdita che sta continuando a registrare per così tanti giorni consecutivi. Attualmente siamo al sesto. Segnale molto chiaro che la community sta reagendo, decidendo, da una parte, di non seguire più l’imprenditrice digitale, ritenendo evidentemente non in linea con i propri valori la gestione della campagna Balocco, e dall’altra sommergendo ogni foto, post e reel sul panetto di critiche al suo operato. Un trend che di certo non fa bene alla Ferragni che, se si va a vedere la crescita media del suo account, nell’ultimo anno, non ha brillato di performance. I dati della società Hyper Auditor mostrano infatti come si sia registrata una crescita di solo 1,3 milioni di follower (+4,4%). Account di dimensioni simili solitamente registrano una media del + 11,4% all’anno.
Andando dunque a osservare più da vicino la sua fan base si possono evidenziare diverse dinamiche. La prima è che il 77% dei suoi follower sono donne, la seconda che il Paese dove risulta essere maggiormente seguita è l’Italia, la terza che il 55% dei seguaci ha conseguito una laurea e la quarta che il 51,6% dei suoi follower è composto, secondo le analisi della società di dati Hype Auditor, dal ceto medio e medio basso della popolazione. Nel dettaglio parliamo di un 22,2% di follower che ha un reddito tra i 10 e i 25.000 euro l’anno e di un 29,4% di chi oscilla tra i 25 e i 50.000 euro.
Andando più in profondità si possono scoprire altri dati particolarmente interessanti che riguardano la natura dei suoi follower. Secondo Hype Auditor, il profilo di Chiara Ferragni avrebbe il 23,7% di account «sospetti». Nel dettaglio la piattaforma specifica che avrebbe identificato il 18,9% di mass follower, definiti come «utenti con più di 1.500 following. Nella maggior parte dei casi, i mass follower traggono vantaggio dall’utilizzo di servizi di follow e unfollow automatici. Tentano di aumentare il numero dei loro follower in un modo così inautentico e del tutto inefficace seguendo tonnellate di account irrilevanti sperando che li seguano», e il 4,8% di suspicious account che sono «bot o persone che utilizzano servizi specifici per l’acquisto di “Mi piace”, commenti e follower». Le principali caratteristiche utilizzate nell’algoritmo, sottolinea la società di analisi dati, per identificare questo genere di follower sono: i numeri e rapporti follower/seguiti, numero di post, privacy dell’account, data di registrazione e utilizzo dei geotag.
Spostandosi su altre due piattaforme che analizzano sempre i trend dei profili Instagram, si può osservare come per InsightIq il dato di follower sospetti sul profilo di Chiara Ferragni è del 35,7% (mass follower il 22% e suspicious il 13,7%), mentre per Modash del 26,56%. Si può dunque dire, facendo una media tra tutti i dati presenti, che il profilo di Chiara Ferragni ha circa il 28,6% di profili sospetti tra i suoi follower. Quindi circa 8 milioni di profili poco chiari. Dati che, se si rivelassero corretti, dimostrerebbero come tutto il meccanismo degli influencer, e il loro ricco giro di sponsorizzazioni, si sia sempre basato sul nulla, visto che i dati gonfiati significano meno ricavi e vendite per le aziende.
Sempre legato a questa dinamica è l’indicatore «like- comment ratio» che va ad analizzare quanti commenti riceve in media un influencer ogni 100 mi piace. Secondo Hyper Auditor, «@chiaraferragni riceve 0,19 commenti per 100 like. Account simili ricevono 1,03 commenti per 100 like». Una differenza notevole per l’imprenditrice social che secondo Hyper Auditor può essere spiegata tramite l’uso di qualche aiutino digitale: «Differenze significative rispetto ad account simili possono significare che il numero di commenti o di like è stato aumentato artificialmente», spiega la piattaforma online.
conversioni
In termini di trend, quello che resta a Chiara Ferragni sono un engagement rate dell’1,25% buono e un tasso di conversione che, almeno prima dello scandalo Balocco e delle uova di Pasqua, era molto alto. Motivo per il quale molte aziende, anche consumer, si rivolgevano a lei per fare campagne o sponsorizzazioni varie.
Dinamiche che bisogna vedere se verranno confermate dato che proprio sulla questione panettone la Procura di Milano ha deciso di aprire un fascicolo conoscitivo a modello 45, cioè senza ipotesi di reato né indagati, dopo il deposito dell’esposto per truffa da parte del Codacons e Assourt. Il procuratore Marcello Viola ha dunque assegnato il fascicolo al dipartimento anti truffe guidato dall’aggiunto Eugenio Fusco, a capo del Dipartimento frodi e tutela dei consumatori.
Continua a leggereRiduci






